Gramsci e l’egemonia

Un evento processuale, un processo evenemenziale

Siamo nel 1929. Nel chiuso delle quattro mura della sua cella a Turi, dopo tre anni di forzata interruzione da ogni attività, Gramsci prova a «rifar[si] la mano»[1] di scrittore con alcune traduzioni dal russo e dal tedesco. Di lì a un anno, circa, inizierà a lavorare a quelli che oggi sono conosciuti come i Quaderni del carcere.

È in galera dal 1926, Gramsci, sballottato da una parte all’altra della Penisola. Roma, Ustica, Milano, di nuovo Roma… Ad un certo punto si parla addirittura di un confino in Etiopia. Poi, fortunatamente, viene “solo” mandato a Turi.

Nel 1929 il fascismo governa già da sette anni. Ha spazzato via ogni forma di opposizione legale e costretto al carcere, al confino o all’esilio i più importanti dirigenti politici avversari. Nei circoli comunisti, in quel partito che Gramsci aveva contribuito a fondare (e che dal 1927 si è completamente sdraiato sulla linea staliniana), rimane però ferma la convinzione che il fascismo abbia i giorni contati, che si tratti di mesi o al massimo di pochi anni prima che il governo Mussolini cada.

È una convinzione che fa il paio con l’altra, quella secondo cui il Grande Crollo del capitalismo è ormai alle porte. D’altronde il 1929 è l’anno della Crisi, l’anno in cui l’economia mondiale subisce il più grave e grande sconquasso della storia. Mentre “oltrecortina”, per usare una espressione volutamente anacronistica, si festeggiano i fasti del Primo Piano Quinquennale e del soviettismo in salsa stalinizzata, che sembra offrire l’alternativa alla società capitalistica.

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Things Fall Apart, Illustrazione di Edel Rodriguez, 2013.

Mai buone speranze furono peggio riposte. Mussolini resterà in sella fino al 1943, il capitalismo sopravviverà alle proprie convulsioni e l’URSS… be’, sappiamo tutti la fine ingloriosa che ha fatto.

Ma torniamo al 1929. Gramsci non condivide minimamente le ottimistiche previsioni dei compagni suoi, anzi. Acuto pensatore, “figlio” di Marx, egli è convinto che la Storia non faccia nulla, ma che siano gli esseri umani a fare la loro storia, agendo politicamente, cioè organizzandosi collettivamente secondo un fine. Extra politicam nulla salus, si potrebbe dire…

Già, ma come? O meglio: quali sono le condizioni che rendono possibile l’azione politica, l’organizzazione collettiva?

Per rispondere facciamo un passo indietro. I Quaderni sono un’opera non-opera: un affastellato di appunti, pensieri, riflessioni, più o meno rimaneggiati. Chi vi pensasse di trovare un testo compiuto, di cui leggere le premesse, lo svolgimento e le conclusioni, rimarrebbe deluso.

Ma un filo rosso si può trovare, si deve trovare se ci si vuole orientare nel marasma. E il filo rosso è la sconfitta del movimento operaio mondiale e le possibilità di una ripresa della lotta di classe. O meglio: la ripresa della lotta da parte della classe proletaria. La lotta di classe non smette mai, ma a volte una delle classi si “dimentica” di combattere… Ogni categoria, ogni concetto, ogni riflessione che Gramsci usa e propone nei Quaderni ha essenzialmente questo scopo: di comprendere le ragioni della sconfitta e le possibilità della rivincita.

Urge allora “rincominciare da tre”. Marx, senza dubbio, in particolare il Marx «scrittore di opere politiche e storiche concrete»[2], come il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte o La guerra civile in Francia. Ma anche dalla lezione della Rivoluzione d’ottobre e del Biennio Rosso.

Però non basta. Un rilancio della prospettiva comunista deve andare di pari passo con un confronto critico tanto con chi, come Croce, ha preteso di superare il marxismo in senso liberale, quanto con chi – in seno al movimento comunista stesso – ha fatto del marxismo una teoria speculativa del mondo, incapace di rispondere alle esigenze pratico-politiche che di volta in volta si erano poste alle classi subalterne[3].

egemonia Kabbalah Hands. Acquerello di Delia Evin
Kabbalah Hands, Acquerello di Delia Evin.

Non abbiamo spazio qui per soffermarci sul percorso critico che Gramsci compie. Tagliando molto, forse troppo, con l’accetta, si potrebbe dire che il punto archimedeo della sua proposta è il concetto di “egemonia”. Nato nell’antica Grecia per caratterizzare il rapporto di supremazia militare di una città nei confronti delle proprie alleate, all’inizio del Novecento viene recuperato da Lenin, il quale però ne muta parzialmente il significato. Il concetto di “egemonia”, infatti, gli serve per definire l’alleanza rivoluzionaria tra proletariato e contadini[4]. Un’alleanza della quale il proletariato urbano deve assumere la direzione, ritagliandosi un ruolo, per l’appunto, egemonico.

Gramsci recupera questo milieu, più politico-militante che politico-teorico, e lo elabora e lo espande fino a dare a questo concetto una profondità mai avuta precedentemente.

Una classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche «dirigente» (Q1, §44, p. 41).

La società, pensata dal marxismo della II e della III Internazionale come un edificio eretto sulla base economica (la famosa “struttura” che fonda la “sovrastruttura”), viene qui ripensato come un campo di forze in perpetuo movimento. Un campo di forze diseguali, però, in cui una parte della società, la classe egemone, appunto, riesce ad imprimere una direzione al movimento proprio in virtù della sua egemonia.

La borghesia francese nel periodo rivoluzionario, ad esempio. Una classe cioè capace di esercitare, in particolare negli anni 1789-1799 (ma a ben vedere fino al 1848), un ruolo direttivo nei confronti delle classi sue alleate (il proletariato urbano e i contadini), e, al tempo stesso, di schiacciare coercitivamente, addirittura violentemente, ogni reazione della classe avversaria, l’aristocrazia (e il clero: non proprio una classe, ma che esercitava una funzione sociale affine).

Direzione e dominio, consenso e coercizione. La doppia polarità istituita da Gramsci ci permette di leggere i fenomeni storici passati ma, al tempo stesso, tracciare le linee di un progetto politico futuro. Alla volgarizzante interpretazione dell’atto rivoluzionario inteso unicamente come presa della Bastiglia o del Palazzo d’inverno, il concetto di “egemonia” fa da contraltare, sottolineando la necessità di un lavoro di lunga durata, capace di costruire la capacità direttiva di una classe rispetto alle classi a lei alleate, il consenso attorno alle proprie rivendicazioni politiche da parte di ampi settori sociali.

Ma l’egemonia non consente di rinunciare alla presa della Bastiglia, non indugia in interpretazioni riformistiche della lotta per il potere. L’operazione che il PCI di Togliatti farà nel dopoguerra, tutta tesa a depotenziare il concetto di egemonia (trasformandolo piano piano verso la ben più blanda “egemonia culturale”), tradisce il nucleo teorico che Gramsci dà a questa categoria. E lo fa anche in modo strumentale e malizioso, teso a giustificare ex post la linea compatibilista stabilita da Mosca e sancita con la “svolta di Salerno”. Come scrivevamo ormai un anno fa su questa stessa rivista il punto non è pensare un’alternativa al processo rivoluzionario in nome del realismo politico riformista, ma come pensare il processo rivoluzionario in rapporto all’evento insurrezionale.

E il concetto di “egemonia” consente di cogliere esattamente il carattere anfibio e contraddittorio della rivoluzione. Evento processuale e al tempo stesso processo evenemenziale, la rivoluzione è il cambiamento radicale che si situa tanto nel breve spazio-tempo dell’atto insurrezionale quanto nella lunga durata del «cambiamento molecolare». Un cambiamento nel quale le rivendicazioni «economico-corporative» di una determinata classe (ossia le istanze legate alle proprie esigenze «materiali») maturano ad un livello «etico-politico», si pongono le condizioni sociali della rottura con il passato e il partito, gramscianamente il «moderno Principe», può ottemperare alla sua funzione di “profeta”. Non nel senso che si limita a vedere il futuro. Ma nel senso biblico del termine: di colui che prefigura il domani attivamente, costruendo le condizioni affinché questo si realizzi.

Insomma alla domanda: «Riforma o rivoluzione?», il concetto di “egemonia” permette di rispondere: riforma come avanzamento sulla strada della rivoluzione, elaborazione di un programma di transizione in grado di legare le rivendicazioni parziali dei settori più coscienti dei movimenti sociali e avanzare una proposta politica e sociale di rottura con il capitalismo.

Note

[1] A. Gramsci, Lettere dal carcere. 1926-1937, A. A. Santucci (a cura di), Sellerio editrice, Palermo 1926, lettera n. 140, 9 febbraio 1929, p. 236.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2014, Q9, §24, p. 871.

[3] Gramsci se la prende con Bucharin, ma in realtà la critica si può estendere tanto al second’internazionalismo quanto al Diamat.

[4] La falce incrociata con il martello nasce proprio in questo contesto per simboleggiare «l’unione di operai e contadini». Precedentemente i simboli del movimento comunista erano solo la bandiera rossa e la stella a cinque punte.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.

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