Le classi

Per una storiografia morfologica e differenziale delle società antiche – Parte II

Nella scorsa puntata di questo ciclo, ci siamo soffermati sulla possibilità di istituire delle comparazioni tra le società dominate dal modo di produzione capitalistico e quelle antiche a partire dalle categorie di valore d’uso e valore di scambio. In questa seconda parte, invece Sebastiano Taccola affronta il problema delle classi. Cosa sono? Quando sorgono in senso proprio? Si può parlare di classi riferendoci anche a società differenti da quelle attuali?



1. Scrive Marx nei Grundrisse:


«il lavoro qui [nel modo di produzione capitalistico] è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, come determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria di “lavoro”, il “lavoro in generale”, il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società moderna. […] L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide – proprio a causa della loro natura astratta – per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per entro queste condizioni»1.

In questo passo risulta evidente la necessità di distinguere sul piano delle forme, del loro intreccio così come dei loro differenti gradi di astrazione, il rapporto differenziale tra società capitalistiche e pre-capitalistiche. In ogni società perché ci sia riproduzione è necessario che ci sia un processo produttivo; ma solo in quelle società in cui domina il modo di produzione capitalistico il lavoro sans phrase (cioè, il lavoro come astrazione ‘pura’) si presenta quale categoria centrale per comprendere l’architettonica della riproduzione dei rapporti sociali di produzione. Questa categoria rappresenta un prodotto storico: solo laddove si è prodotta una separazione netta tra condizioni soggettive e oggettive della produzione sorge il lavoro sans phrase, il lavoro ab-stractus (nel senso di estratto e separato); una categoria astratta che permette di perimetrare il dominio di un modello sociale che si riproduce interamente nella temporalità astratta del valore2.

La categoria di “lavoro”, quale prodotto storico, è essenzialmente vera solo nel modo di produzione capitalistico; ciononostante, essa ci consente di individuare una forza sociale nella sua discretezza e, conseguentemente, di spazzolare contropelo la storia, ma non per ritrovare ovunque una piatta identità, quanto per far risaltare le differenze specifiche tra modi produzione eterogenei: «d’altra parte già Don Chisciotte ha scontato l’errore di ritenere la cavalleria errante ugualmente compatibile con tutte le forme economiche della società»3.

L’astrazione “lavoro” (così come il “valore”, e altre determinazioni tipicamente capitalistiche) non è ugualmente compatibile con tutte le formazioni sociali4. Pertanto, utilizzare indistintamente il concetto di lavoro conduce alla duplice incomprensione delle società passate e di quella presente: «l’assenza o la marginalità della forma di merce, del valore di scambio, del lavoro astratto, della riproduzione allargata non configurano una società quantitativamente preliminare a quella capitalistica: configurano una società qualitativamente diversa»5.

Certo, per nutrirsi è necessario che ci sia un qualche tipo di lavoro. Questo è ovvio. Ma la critica marxiana, come ogni altra ricerca seriamente scientifica6, è decostruzione e messa in discussione dell’ovvio, che permette di analizzare i fattori che rendono storicamente specifico un processo produttivo in maniera non storicistica, e cioè, in una maniera non fondata sulla spiegazione singolare degli eventi, oppure sulle grandi concatenazioni storico-universali che naturalizzano e universalizzano gli elementi storici trasformandoli in fattori naturali sempre validi e postulando anche una teleologia nella loro progressiva realizzazione.

Nella costruzione di una qualche leggibilità dei processi storici si tratta di mettere a fuoco le differenze morfologiche (qualitative) tra le determinazioni formali di rapporti di produzione, rapporti sociali, processi produttivi, e così via, caratterizzanti modi di produzione eterogenei.

2. Nello scorso contributo, si sono individuate alcune differenze morfologiche tra la circolazione capitalistica e quella delle società antiche, arrivando, per queste ultime, a gettare una luce su alcune dinamiche economiche e sui conseguenti fenomeni sociali di disgregazione e mutamento.

Ora, se parliamo di antagonismi, trasformazioni e mutamenti sociali in una prospettiva marxista, non si può non far riferimento alle classi. Una certa tradizione marxista, infatti, ha da sempre individuato nelle classi i soggetti che fanno la storia. Tanto ferma è apparsa questa certezza da divenire nella rappresentazione collettiva una sorta di presupposto astratto e irrinunciabile di ogni analisi marxista. Ma la scienza, nella sua processualità, nella sua esposizione, pone i propri presupposti senza dare niente per scontato. Si tratta, pertanto, di entrare nel merito di che cosa Marx intendesse per “classe”, cercando di assumere una prospettiva dialettica e problematizzante, ed evitando di dare troppo per scontati certi presupposti. I presupposti, di per sé, sono muti. L’esposizione scientifica, che è esposizione del pensiero conforme a conoscenza, scongela, per così dire, i propri presupposti e pone determinazioni essenziali, che segue nel loro sviluppo e nelle loro trasformazioni intrinseche, perimetrandone limiti e condizioni di possibilità7. Prendere le classi (o, ancora meglio, la categoria “classe”) quali presupposti solidi e immutabili della nostra analisi sarebbe un atteggiamento teorico molto poco conforme alla scienza critica marxiana8. Si tratta, dunque, di mettere in movimento le classi e farle parlare.

3. All’inizio del Manifesto del partito comunista si può leggere: «la storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi»9. Ciò che caratterizza in maniera specifica la società borghese, e che la distingue dalle società precedenti, è il fatto che in essa il conflitto di classe si presenta in maniera cristallina e trasparente: la polarizzazione conflittuale è chiara e non ha bisogno di particolari deduzioni, da una parte abbiamo i capitalisti, dall’altra i proletari. Quindi, agli occhi del Marx e dell’Engels del 1848, il mondo capitalistico è (similmente a quanto dirà Weber) un mondo disincantato. Il Manifesto, in maniera forse un po’ piattamente sociologica,prende per buone le classi per come esse appaiono alla superficie della società. Le classi sono il suo punto di partenza, la cui unica forma genetica indagata è quella storica (senza un meglio specificato intreccio tra analisi genetico-formale e genetico-storica).

Nel corso degli anni Cinquanta, però, le posizioni di Marx sembrano iniziare a mutare. Egli scrive, ad esempio, in una lettera a Joseph Weydemeyer del 5 marzo 1852:

«Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione ; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato ; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi»10.

Marx riconosce, quindi, che la scoperta delle classi non rappresenta una sua originalità e, di conseguenza, un presupposto irrinunciabile della sua teoria. Si potrebbe ipotizzare, allora, che Marx si distacchi dalla scienza borghese per l’uso teorico che egli fa delle classi. Secondo gli economisti, le tre classi fondamentali del modo di produzione capitalistico si distinguono immediatamente in base alle fonti del loro reddito (secondo la cosiddetta “formula trinitaria”): il capitalista vive di interessi, il proprietario fondiario di rendita, il lavoratore di salario. I rapporti reciproci tra queste classi sono garantiti dalle forme del diritto moderno liberale, in base alle quali le relazioni economiche avvengono tra individui liberi e uguali. Marx, attraverso la sua critica, si oppone a questa visione e denuncia il carattere irrazionale e mistificatorio della rappresentazione idilliaca fornita dall’economia politica11: un mondo feticisticamente «stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame le Terre, come caratteri sociali e insieme come pure e semplici cose»12.

Comprendere il carattere feticistico del capitale (e cioè non solo la distorsione dell’apparenza rispetto all’essenza, ma anche la necessità, l’irreale realtà di questa stessa distorsione) consente di problematizzare ogni dato, ricostruirne la genesi strutturale che sta alle sue spalle, e risemantizzare la logica del capitale stesso considerato non come cosa, ma come processo. In questo senso, la formula trinitaria che appare alla superficie della società, se presa nella sua immediatezza, non è in grado di spiegare nulla. I rapporti tra le classi non si possono definire in base alla distinzione tra i redditi: una simile visione è semplicemente mistificatoria perché non spiega da dove provenga la reale produzione di ricchezza. La critica marxiana mostra l’arcano della ricchezza (la produzione di plusvalore), ma lo fa senza ricorrere ancora alla categoria di classe. Quindi, sembra che, in relazione alla questione delle classi, lo scarto di Marx rispetto all’economia politica non possa ridursi nemmeno alla questione del loro uso teorico. Come è ben noto, infatti, nel Capitale una (possibile) tematizzazione esplicita delle classi compare solo nell’ultimo capitolo del terzo libro: un capitolo rimasto, purtroppo, incompiuto.



4. Ricapitolando: sia sul piano della scoperta che su quello dell’uso teorico, la categoria di “classe” non sembra essenziale per definire lo scarto della scienza marxiana rispetto all’economia politica. Forse è un altro, allora, il percorso che dobbiamo tracciare: provare a chiederci se l’originalità marxiana sia da ricercare, piuttosto, sul livello della costruzione teorica della categoria di classe, della rete concettuale intessuta dietro a questa parola: “classe”.

All’inizio del primo libro del Capitale, le classi vengono presentate in maniera ancora poco definita, nel segno di una sovradeterminazione dei soggetti umani quali «personificazioni di categorie economiche, portatori di determinati rapporti e di determinati interessi di classe»13 o quali «maschere economiche»14.

Secondo l’esposizione del Capitale, le classi sono dunque funzioni di un sistema che trova il proprio perno di articolazione fondamentale nel plusvalore, una forma economica che, come Marx specifica in tutti i manoscritti preparatori e in più luoghi del Capitale, è specifica del modo di produzione capitalistico, perché solo in esso il processo lavorativo si dispiega come processo di valorizzazione. La “classe” è dunque nel modo di produzione capitalistico una forma-funzione della riproduzione dell’intero processo sociale, che può strutturare, secondo tendenze storiche mutevoli all’interno della forbice di possibilità definita dal rapporto di capitale, variegate soggettività di classe e figure antagonistiche. La forma “classe” può essere intesa come una sorta di reagente, che, a seconda delle forme con cui entra in rapporto e (a un livello di astrazione più basso) della congiuntura storica, informa di sé e contribuisce alla produzione di determinate soggettività sociali. Non punto di partenza o presupposto, dunque, ma risultato storicamente determinato, le classi sociali sono da intendersi come sviluppi di funzioni logiche necessarie alla riproduzione economica capitalistica. Pertanto, esattamente come abbiamo notato in apertura per la categoria di “lavoro”, anche la forma “classe” è pienamente formalizzabile solo nel dominio di un modo di produzione, che riduce i soggetti umani a funzioni di una riproduzione sociale sovradeterminata da astrazioni reali puramente economiche. Sostenere, allora, che il primo motore della storia di ogni società è la lotta di classe appare coerente con questo impianto? Pare proprio di no. Ciò non significa, però, che nelle società pre-capitalistiche fossero assenti antagonismi e conflitti sociali, ma che questi conflitti e antagonismi non fossero esito di una stratificazione sociale inquadrabile in termini puramente economici.

5. Come ha scritto Gian Mario Cazzaniga, verrebbe da dire che Marx usa il concetto di classe in una duplice maniera:

«da un parte, con un uso esplicitamente politico e divulgativo, per indicare tutte le forme di stratificazione sociale in cui prevale la categoria di sfruttamento in cui una minoranza improduttiva consuma una parte privilegiata della ricchezza sociale a spese di una maggioranza di produttori; dall’altra, sulla base della distinzione fra processo lavorativo e processo di valorizzazione, per indicare una forma specifica di produzione in cui la stratificazione sociale si definisce sulla base della collocazione nel processo di riproduzione sociale in condizione di uguaglianza giuridica e di mobilità sociale regolata dalle leggi del mercato, senza vincoli giuridici collegati a rapporti di sangue. In questo quadro le società antiche e la stessa società feudale possono certamente essere interpretate attraverso la prima accezione, ma non attraverso la seconda, che è riferibile soltanto alla forma capitalistica»15.

Da una parte abbiamo, dunque, una rappresentazione generica delle gerarchie sociali, dall’altra il concetto scientifico di “classe”16. Ed è proprio questa seconda, la considerazione della storicità specifica, propriamente capitalistica, della forma “classe”, a portare Marx a riflettere, innanzitutto in via negativa, sulle forme dominanti nelle stratificazioni sociali pre-capitalistiche. Queste possono essere definite “di classe” solo in un’ottica ancora approssimativa (cum grano salis), giacché non necessariamente il prodursi delle soggettività sociali antagonistiche poteva darsi in forma esclusivamente economica.

Si tratta allora di elaborare e scoprire – e qui la considerazione logica pone le condizioni di possibilità di una trattazione propriamente storiografica – le forme particolari in cui si sono articolate le stratificazioni sociali nelle società pre-capitalistiche, i tipi specifici di conflittualità sociale e politica che si presentano al loro interno, con un’attenzione particolare agli strumenti concettuali e pratici che ci permettono di vedere più chiaramente nella storia dei ceti subalterni e delle culture sepolte dal tempo. A tal proposito, credo sia essenziale riflettere sull’emergere complesso delle forme diversificate di soggettività (soggettività di classe, soggettività politiche, soggettività culturali, ecc.), non come immediatamente date, ma come sovradeterminate da processi sociali, culturali e politici; e poi ancora, indagare le loro rispettive interazioni e sovrapposizioni17.

6. In conclusione, credo che sia in questa continua oscillazione tra critica del presente e proiezione, innanzitutto in negativo (per via differenziale), sul passato che si possono trovare i margini propriamente marxiani di riflessione sulle epoche pre-capitalistiche. Si tratta di un aspetto che, a mio parere, può essere riscontrabile nella duplice valenza che determinate categorie assumono nell’impianto dell’epistemologia critica di Marx. L’individuazione della storicità specifica di una forma, infatti, funziona qui sia nell’ottica di una critica della naturalizzazione ed eternizzazione della società presente, sia in quella di un riconoscimento della pluralità stratificata dei processi storici e della conseguente possibilità di un’indagine più specifica sulle formazioni sociali passate. Che da questa analisi si possa poi ricavare «un presagio di futuro» è «un lavoro a sé – cui pure speriamo di arrivare»18. Non lo si intenda come un retorico pluralis maiestatis: può essere solo un lavoro seriamente collettivo.

Note
1 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, tr. it. di Enzo Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970, I, p. 32.
2 Sulla valenza differenziale di questa riproduzione nella temporalità dell’astratto caratterizzante il rapporto di capitale, cfr. Aldo Schiavone, “Per una rilettura delle «Formen»: teoria della storia, dominio del valore d’uso e funzione dell’ideologia”, in Analisi marxista e società antiche, a cura di Luigi Capogrossi, Andrea Giardina, Aldo Schiavone, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, Roma 1978, pp. 75-106.
3 Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo, tr. it. di Roberto Fineschi, La città del sole, Napoli 2011, p. 93.
4 Si veda, a titolo esemplificativo, quanto scritto da Jean-Pierre Vernant sulla qualificazione del lavoro nella Grecia antica. Iniziando, come suggerisce Vernant, anche da semplici dati linguistici, vediamo che il termine “lavoro” (in senso astratto e generale) nella polis del V secolo non esiste. Al suo posto troviamo il termine ponos, che può ricordare il nostro “travaglio” o il francese travail, e che sta a significare ogni tipo di attività che richiede uno sforzo penoso. Troviamo, poi, una serie di termini generici come: ergazesthai, che indica un ergon che è il prodotto di una sua specifica aretè ed è utilizzato tecnicamente soprattutto per il lavoro nei campi; poiein, che indica il fare, il fabbricare qualcosa, e che si contrappone al verbo prattein, che indica invece il compiere un’attività per il puro amore di essa, a prescindere da qualsiasi fine e prodotto esterno. A questa costellazione terminologica si aggiunge poi il termine techne, che – prevalentemente in Platone e Aristotele – significa un sapere tecnico specifico che parte dalla conoscenza astratta di una forma e che la realizza nella materia. Secondo Vernant, dunque, non esisteva presso gli antichi Greci (come, molto probabilmente presso altri popoli antichi) il concetto di lavoro sans phrase. Cfr. Jean-Pierre Vernant, “Lavoro e natura nella Grecia antica”, in Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica, Einaudi, Torino 2001, pp. 285-308.
5 Diego Lanza, Mario Vegetti, “Tra Marx e gli antichi”, in Quaderni di storia, III, 5, 1977, pp. 75-89.
6 Come ha scritto Remo Bodei, la decostruzione dell’ovvietà e la ricerca delle condizioni e dei processi costitutivi di un determinato oggetto di analisi costituisce un aspetto caratteristico del ragionamento filosofico critico: «andare oltre l’ovvio, togliere dalle cose la polvere della banalità e dell’oblio che ne nasconde la natura e la storia, non solo è possibile, ma costituisce la premessa di ogni ricerca e scoperta. “Ovvio” (obvius) si dice etimologicamente di cosa che s’incontra lungo la via o di persona che risulta accessibile, alla mano, che non esige molti sforzi nel lasciarsi avvicinare o nel concedere confidenza. Per entrare nel territorio dell’ovvio basta scegliere una strada non ostruita da problemata, andando tranquillamente incontro a quanto già si presume di conoscere o si è in grado di riconoscere con facilità. […] L’affrancamento dal noto è da tempo lo scopo delle più disparate teorie e pratiche, che hanno costantemente cercato il passaggio dall’obvius all’abvius, dalla routine a ciò che conduce fuori della route, dalla strada più battuta. Indirettamente esse si interrogano su come è avvenuta la costituzione del nostro “mondo” e attraverso quali percorsi e diramazioni esso ci è diventato ovvio, cancellando ogni stupore davanti a esso» (Remo Bodei, La vita delle cose, Laterza, Roma – Bari 2009, pp. 34-35).
7 Come sottolineato da Hegel nelle pagine della Scienza della logica dedicate all’idea del conoscere: «ma in quanto si tratta di conoscere, il confronto coll’intuizione è già bell’e abbandonato, e la questione può esser soltanto di sapere che cosa sia il primo dentro il conoscere e quale ne abbia ad essere il seguito; non si vuol più un andamento conforme a natura, ma un sapere conforme alla conoscenza. […] Che si faccia questione soltanto di facilità, è chiaro senz’altro di per sé che al conoscere è più facile di afferrare l’astratto semplice determinazione di pensiero che non il concreto, il quale è un nesso molteplice di coteste determinazioni e dei loro rapporti, mentre in questo modo, e non più com’è nell’intuizione, deve il concreto essere appreso. In sé e per sé l’universale è il primo momento, essendo il semplice, ed il particolare è soltanto quello che viene dopo, essendo il mediato; e viceversa il semplice è il più universale, ed il concreto, come l’in sé distinto epperò mediato, è quello che già presuppone un passaggio da un primo» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, La scienza della logica, tr. it. di Arturo Moni, a cura di Claudio Cesa, Laterza, Roma – Bari 2008, II, p. 910).
8 Esemplificativi, in tal senso, sono i saggi di Charles Parain e Sergej L. Utchenko raccolti in Marxismo e società antica, a cura di Mario Vegetti, Feltrinelli, Milano 1977.
9 Karl Marx, Friedrich Engels, Il manifesto del partito comunista, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 1998, p. 7.
10 Karl Marx, “Lettera a Joseph Weydemeyer, 5 marzo 1852”, in Marx-Engels Opere Complete, vol. XXXIX, a cura di Mazzino Montinari, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 537.
11 Innanzitutto denunciando, a partire dalla sezione sulla “produzione del plusvalore assoluto” del primo libro del Capitale, i reali antagonismi e i rapporti di forza che si celano dietro la libera vendita della forza-lavoro e la forma del salario. A questo riguardo Luporini scrive: «la differenza scoperta da Marx tra forza-lavoro e lavoro come funzione della prima svela l’arcano (Geheimnis) del salario, cioè porta alla luce il fatto che in esso un rapporto di assoluta dipendenza economica (del salario dal capitale, dell’operaio dal capitalista) non solo si maschera, ma necessariamente si realizza nella forma giuridica contrattuale di compravendita di equivalenti» (Cesare Luporini, “Critica della politica e critica dell’economia politica in Marx”, in Critica Marxista, 1978 (1), pp. 17-50).
12 Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Libro terzo, tr. it. di Maria Luisa Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 949.
13 Karl Marx, Il capitale… Libro primo, cit., p. 12.
14 Ivi, p. 98.
15 Gian Mario Cazzaniga, Funzione e conflitto, Liguori, Napoli 1981, pp. 101-102.
16 Cfr. Alessandro Mazzone, “Le classi nel mondo moderno”, in Alessandro Mazzone, Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012, a cura di Roberto Fineschi, La città del sole, Napoli 2022, pp. 73-121.
17 In questa direzione, può essere produttivo confrontare quanto abbozzato da Marx nelle pagine dei Grundrisse raccolte sotto il titolo redazione di “Forme precedenti la produzione capitalistica”(cfr., Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., II, pp. 94-148) con quanto sostenuto da Moses I. Finley e altri storici che hanno fatto ricorso alla categoria di “status”, piuttosto che riproporre le stadializzazioni tradizionali e meccanicistiche del cosiddetto marxismo ortodosso oppure certi tentativi di fondare una nuova legittimità nell’impiego del concetto di “classe” nell’analisi del mondo antico a partire dalla categoria di sfruttamento. Questa ultima è stata, ad esempio, la posizione sostenuta dallo storico anglosassone Geoffrey E. M. de Ste. Croix; cfr., Geoffrey E. M. de Ste Croix, “Karl Marx and the history of classical antiquity”, in Arethusa, VIII, 1, 1975, pp. 7-36, poi raccolto con il titolo di “Karl Marx e la storia dell’antichità classica”, in Marxismo e società antica, cit., pp. 289-312; Geoffrey E. M. de Ste Croix., The class struggle in the Ancient Greek World: from the Archaic Age to the Arab conquests, Cornell University Press, New York 1981. E su questo punto ci sembrano aver ragione quei marxisti italiani che, come Vegetti, Lanza, e altri ancora, sostenevano l’impossibilità di naturalizzare (e conseguentemente ontologizzare) il concetto di “sfruttamento”. Seguendo, infatti, la lezione marxiana, tale concetto può essere articolato in maniera storicamente determinata una volta dedotta la forma logica che struttura il processo lavorativo nella sua specificità. Nel modo di produzione capitalistico ciò è possibile a partire dalla ricostruzione della forma di valore quale legge immateriale e oggettiva che orienta il processo di riproduzione della società, il cui motore fondamentale è la produzione di plusvalore e, di conseguenza, lo sfruttamento della forza-lavoro. Al di fuori di questa determinatezza storica, la forma assunta dallo sfruttamento è necessariamente diversa e deve essere dedotta quale risultato di una differente logica della riproduzione sociale in sé e per sé non fondata sull’autonomia del momento economico e sulla compravendita della “forza-lavoro” (una categoria assente nei modi di produzione precapitalistici) . A tal proposito, hanno scritto Lanza e Vegetti: «lo sfruttamento è per buona parte, nel mondo antico, sfruttamento all’esterno (bottino, appropriazione di schiavi, imposizione di tasse e tributi). Questo sfruttamento non è imposto da una classe sull’altra ma da un’organizzazione politico-militare (la città, l’impero) sulle altre, e ne investe tutta la stratificazione sociale (si intende in modo non omogeneo in ragione dei rapporti di potere all’interno). […] E non ci si avvicina esattamente alla definizione di una contraddizione, quella fra il necessario assetto politico dei rapporti di sfruttamento e l’esigenza, che esso frustra, di una unificazione internazionale della classe sfruttatrice? All’interno di questa contraddizione si situa forse l’intera vicenda di classi, città e imperi nel mondo antico» (Diego Lanza, Mario Vegetti, “Tra Marx e gli antichi”, cit., p. 80).
18 Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., II, p. 82.

di Sebastiano Taccola

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