Il mite ignoto fa magici miracoli

Miracolo a Milano, ovvero un elogio alla mitezza

«Guai ai miti. Non sarà dato loro il regno della Terra. Penso agli epiteti più comuni che la fama attribuisce ai potenti: magnanimo, grande, vittorioso, temerario, ardito e, sì, anche terribile e sanguinario. In questa galleria di potenti avete mai visto un mite?»

(Norberto Bobbio, Elogio della mitezza)

«In medio stat virtus»

(detto latino, da Aristotele)

Si narra che uscito da un cinema milanese, dove si era recato a cogliere l’atmosfera della sala durante la proiezione di un proprio film (Sciuscià), Vittorio De Sica venisse affrontato di petto da uno spettatore indignato per la magra figura che ci faceva l’Italia all’estero in quel film[1].

Benché il Neorealismo italiano stesse elaborando un nuovo linguaggio cinematografico, internazionalmente riconosciuto e amato, molti italiani non apprezzavano l’immagine un po’ stracciona e indecorosa che emergeva del Belpaese da quei film così impegnati sul piano sociale e morale. Il succo delle critiche si poteva ridurre a un proverbio: «I panni sporchi si lavano in casa». Critiche che con l’Oscar a Ladri di biciclette non si sopirono, anzi: furono amplificate dal premio.

Queste lamentele, del resto, non erano limitate solo a una parte degli spettatori; anche i politici (più la DC che il PC, ovviamente) lasciavano spesso trapelare disappunto per la radicalità del Neorealismo. In sostanza i cineasti male facevano a esibire le miserie dell’Italia e bene avrebbero fatto, invece, a toccare temi più leggeri. Temi che sollevassero lo spirito di una popolazione che, in fondo, si stava rimboccando le maniche e aveva voglia di ripartire. L’invito, insomma, sembrava essere quello di un ritorno al cinema leggero e commerciale dei “telefoni bianchi” che aveva spopolato nelle sale durante il fascismo. Si potrebbe dire che l’intento fosse di far passare i cineasti da un estremo all’altro: dall’impegno militante al nulla commerciale, dal cinema di denuncia all’autocensura bottegaia.

Da lì a pochi anni, in effetti, il Neorealismo parve dover venire a più miti consigli e ammorbidì la sua frusta morale. Nelle sale si finì così col proiettare commedie come Pane, amore e fantasia, decisamente meno invise al potere politico[2]. All’estero tali commedie (ben presto definite «all’italiana») vennero riconosciute e apprezzate quanto i seri film neorealisti, senza tuttavia offrire un’immagine più edificante del Paese (a meno che il tipo dell’italiano messo in scena da Alberto Sordi non possa costituire un ideale antropologico per qualcuno). In ogni caso, riscuotevano ben più ampi successi al botteghino.

D’altra parte, fu proprio De Sica (protagonista di Pane, amore e fantasia) a dare l’imprimatur verso questa maggiore leggerezza (che comunque così lieve poi non era, dato che si coniugava con una minima critica sociale e di costume). Come avrebbe potuto infatti criticarla lui, proprio lui che, assieme a Zavattini, aveva girato Miracolo a Milano?

miracolo a milano
Locandina di Miracolo a Milano

Miracolo a Milano, infatti, è forse uno dei primi esempi di cinema italiano del dopoguerra che tenta di mitigare la critica politica e sociale neorealista col tono dell’umorismo. Zavattini, del resto, autore di Totò il Buono, libro dal quale venne tratto il film, si era fatto le ossa sui giornali umoristici, ai tempi del Ventennio, scrivendo ad esempio sul Marc’Aurelio.

In altri termini, Miracolo a Milano rappresenta uno dei primi, se non il primo, esperimento di mitigazione del Neorealismo. Un tentativo di andare incontro a quello che il pubblico chiedeva, ossia storie meno tristi, senza rinunciare a denunciare le terribili condizioni di povertà in cui versavano milioni d’italiani nel dopoguerra. Un Neorealismo mite, per dirla in parole povere, che, non a caso mette in scena proprio un uomo qualunque, assai mite, anzi di una mitezza che ha del miracoloso, se non del favolistico.

Miracolo a Milano si apre infatti con il classico incipit fiabesco: «C’era una volta…», e narra la storia del trovatello Totò. Totò è stato ritrovato sotto un cavolo (a quanto pare c’era lo sciopero delle cicogne) da una dolce ma anziana signora. Di quelle così dolci che se rovesci il latte invece di darti uno scapaccione colgono l’occasione per farti una lezione di geografia e spiegarti i fiumi, ma anche così vecchia da avere due medici a farle la guardia. Così Totò si ritrova presto in orfanotrofio, pover Martinitt!

Anni dopo esce dall’istituto in una Milano livida e fredda. Augura a tutti buongiorno, anche ai cumenda che ad auguragli buongiorno pare un’offesa. Aiuta alcuni operai a metter giù delle traversine del tram (mi spiace, lavoro non c’è mica) e appena si ferma ad applaudire il bel mondo che esce dalla Scala gli rubano la borsa.

Quando raggiunge il ladro, Totò, impietosito, finisce con regalargli la borsa. Si guadagna così di poter trascorrere una notte nella casa del poveraccio, una mezza baracca posta in una bidonville così povera che la gente finisce col litigare anche per un raggio di sole. Totò grazie a tanta buona volontà organizza quel «volgo che nome non ha» e riesce a dare alla baraccopoli la parvenza di una città in cui le vie non hanno – significativamente – i nomi di personaggi storici, ma sono indicate dai risultati di tabelline («almeno i bambini imparano qualcosa»). Insomma, l’eroe è un uomo mite che, grazie alla sua bontà, riesce a trarre il meglio da tutti, a dialogare con ciascuno e a portare speranza anche tra i disperati. Proprio quel che ci voleva e che chiedeva il pubblico.

Tuttavia, ogni commedia può celare un dramma dietro a una svolta. Casualmente qualcuno trova il petrolio proprio nello slum e il padrone del campo, un classico cumenda col cappotto col collo di pelliccia, non esita a inviare la celere per sgomberare e far arrestare tutti i senzatetto. Alla fine c’è il provvidenziale intervento della vecchina buona (dal Cielo non ha perso d’occhio Totò), che, con una colomba magica, salva la massa di poveracci facendoli volare in cielo su altrettante scope di saggina.

Norberto Bobbio in Elogio della mitezza, una sua nota conferenza in cui si sentono echi della lezione politica di Aldo Capitini e di Guido Calogero, precisa che la mitezza non è certo remissività, non è certo la supina accettazione dell’ingiustizia, ma è la capacità di raggiungere uno scopo senza usare la violenza o altra forza se non quella del dialogo. La mitezza è una virtù mediatrice. Per questo motivo – afferma – la mitezza non è una qualità o una virtù praticabile dai potenti, gente naturalmente aggressiva, arrogante, se non violenta. Il politico, se vuole aver successo, deve essere impermeabile alla mitezza, che è una virtù propria solo degli insignificanti, delle persone comuni, degli ignoti eroi del quotidiano. In questo senso, per Bobbio, la mitezza è una virtù impolitica.

Miracolo a Milano smentisce in parte Bobbio. La figura di Totò non è distante da quella del fondatore di città. Totò è una specie di Pericle naïf. Tuttavia, non è nemmeno un leader vincente. Alla fine, infatti, l’unica soluzione proposta dal film è che i poveri muoiano tutti e volino in Paradiso. Miracolo a Milano finirà per questo con lo scontentare molti: i comunisti per via della fuga celeste, i democristiani perché la Polizia è presentata come una milizia al soldo dei prepotenti.

Miracolo a Milano resterà così una specie di unicum stilistico nel panorama cinematografico italiano[3] e, dato che è neorealista per le tematiche che affronta e per i soggetti che rende protagonisti, ma è magico per il tono di fiaba, per lui andrebbe coniata una definizione a sé: Neorealismo magico. Magico come una mite colomba nel film.

Note

[1]Sciuscià descrive con durezza il furto dell’infanzia ai danni di due piccoli lustrascarpe.

[2] Questa svolta lieve non mancò a sua volta di suscitare polemiche. Comencini si lamentava dell’essere stato considerato per anni il Giuda del cinema neorealista solo per averlo girato.

[3] Solo Lazzaro Felice di Alba Rohrwacher (film in cui, guarda caso, un mite è di nuovo protagonista) recentemente sembra aver tentato di ripercorrere i passi di Miracolo a Milano.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.