Il sole spento dell’avvenire



Io credo a quello che vedo
E vedo il bianco negli occhi miei
Nemmeno una voce, nemmeno una luce
Il sole non vive più
Sole spento, sole spento
Sulle labbra di chi mi amava
Illusione di un momento
Sole spento solo per me
Caterina Caselli, Sole spento



Appena usciti dalla visione de Il sol dell’avvenire di Moretti, qualche settimana fa, mi chiesero se mi fosse piaciuto il film. Allora d’istinto risposi seccamente: “no”, ma poi subito dopo aggiunsi: “non lo so”. Mi son serviti un paio di giorni di riflessione per venire a capo della mia titubanza. Si può dire pertanto che il film di Moretti abbia il merito di far riflettere su se stesso, non fosse altro per la complessità dei livelli di lettura di un film difficile benché, in apparenza, la storia sia semplice:

Giovanni è un regista che trova con un nuovo produttore (Mathieu Almaric) la possibilità di girare un film dopo cinque anni; la storia riguarda un funzionario del P.C.I. in crisi (Silvio Orlando) che deve scegliere fra la propria fedeltà al partito e l’amore per una compagna (Barbora Bobul’ova) che, invece, manifesta solidarietà verso un gruppo di artisti circensi ungheresi (artisti che il partito stesso aveva invitato) al momento dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Nel realizzare il film però Giovanni incontra una serie di difficoltà finanziarie e personali che lo spingeranno prima a deconcentrarsi, immaginando un film completamente diverso (un musical che ripercorra la storia d’Italia) e, infine, a cambiare inaspettatamente idea sul tragico finale che aveva previsto per il funzionario del P.C.I.

Sembrerebbe che Il sol dell’avvenire segni il ritorno del regista romano allo stile e ai temi dei film della sua maturità espressiva, quelli in cui aveva accantonato la maschera, falsamente semi-autobiografica di Michele Apicella, per fare spazio a una nuova maschera, forse altrettanto falsa, ma pienamente autobiografica, quella di Giovanni Moretti regista di film; per intenderci: Caro diario e Aprile.

Pronti, azione, si gira (in e- monopattino)

L’immagine chiave di questo ritorno è quella in cui Nanni, quasi a metà film, fa un giro in monopattino elettrico per compiere un sopralluogo in un quartiere di Roma. Chiaramente in tale scena Moretti si autocita, riporta se stesso (e lo spettatore) ai famosi giri in Vespa per Roma di Caro diario (come del resto chiarisce il manifesto francese del film che ne riprende anche lo stile grafico) oppure al finale di Aprile. Non c’è solo questo momento, naturalmente, a riportarci a quei film. C’è una scena in cui Nanni si presenta sul set di un altro regista a interferire con le riprese (in Aprile la “vittima” fu Daniele Luchetti). C’è il film nel film. C’è la fissazione per i sandali e i piedi femminili, la fantasia, sempre un po’ ossessiva, di Moretti per i musical e vi sono i momenti, ormai di culto, di tantissimi film di Moretti, in cui il regista-attore canta una canzone che esce dalla radio.

Vi è dunque ne Il sol dell’avvenire una ripetizione, di situazioni, ambientazioni e temi del cinema di Nanni Moretti, quelli degli anni Novanta, ma non solo. Si può persino dire che il film sia quasi una duchampiana Boîte-en-Valise, un riepilogo, un campionario, del suo cinema precedente. Non che tutto ciò sia un male necessariamente. È tipico dei grandi autori trovare nella ripetizione delle tematiche la via per mettersi a nudo e, in questo spogliarsi come una statua greca, rivelare l’intima vocazione alla classicità. Tuttavia, come saggiamente aveva capito il filosofo francese Gilles Deleuze, una ripetizione non è mai veramente nuda (come la Maya di Goya) ma è sempre anche vestita (come la Maya di Goya) è cioè una ripetizione agghindata di una differenza (o forse di tante differenze).

La prima differenza tra Il sol dell’avvenire e tra Caro diario e Aprile è di tipo qualitativo. Nanni Moretti non canta in auto, ma recita Nanni Moretti che canta in auto. Nanni Moretti non mette in scena le sue nevrosi, ma recita Nanni Moretti che mette in scena le sue nevrosi. Nanni Moretti non va in giro a zonzo per Roma, ma mette in scena Nanni Moretti che va in giro a zonzo per Roma. La ripetizione c’è e purtroppo ha il sapore di qualcosa visto troppe volte, del masticato e rimasticato, come un chewingum. Persino di restituito in modo banale. La scena del monopattino, ad esempio, è significativa. Mentre in Caro diario e in Aprile quando girovaga in Vespa Moretti è ripreso quasi sempre di spalle ed è quasi ci portasse in Vespa con lui, nella scena del monopattino de Il sol dell’avvenire è invece ripreso di fronte e viaggia per la maggior parte del tempo verso lo spettatore, ma senza mai raggiungerlo, anche sul piano del coinvolgimento. Quel che vedevamo in Caro diario o in Aprile aveva dunque una ilare freschezza, un’ironica graffiante sincerità che sono del tutto mancanti ne Il sol dell’avvenire che, al contrario, appare una stella spenta, opaca, incapace di brillare col calore dei film di Moretti degli anni Novanta.


Dì qualcosa da Nanni! Moretti!

A questo punto è chiaro che allo spettatore, specie quello che ha amato Moretti e visto i suoi film precedenti, non possa che salire un senso di disagio e di delusione. Delusione oltretutto cocente, visto che riguarda un film in cui il regista, per parafrasare un suo film, sebbene dica e faccia proprio “qualcosa da Moretti”, fa questo qualcosa in modo del tutto incapace di appassionare, quasi che Nanni reciti nelle spoglie di un prete che non crede alle parole del rituale.

In effetti la scena chiave de Il sol dell’avvenire riguarda proprio un rituale; quello che Giovanni tenta di realizzare assieme ai membri della propria famiglia, ossia sua figlia (Valentina Romani) e la sua compagna, nonché storica produttrice dei suoi film (Margherita Buy). Il rituale dovrebbe essere propiziatorio alla buona riuscita del film che sta per girare, un’innocente scaramanzia che prevede la visione di un vecchio film con Ainouk, mentre tutti insieme mangiano il gelato. Per una serie di motivi però questo rituale non riesce. La compagna che da qualche tempo sta producendo il film di un altro regista deve improvvisamente rispondere al telefono, mentre la figlia decide di correre dal nuovo fidanzato. “Alla fine il mio film andrà male” chiosa Giovanni. Questa scena fa da spartiacque fra una prima e una seconda parte e racchiude in sé il senso stesso del film: fare cinema , secondo Giovanni, non è ormai che allestire e inscenare un rituale stanco, in cui nessuno crede più di tanto, compresi coloro che amano il cinema e neppure lui stesso che è un regista, in fondo, in fondo ci crede poi molto. Da qui in poi allo spettatore dovrebbe dunque accendersi una lampadina: e se Moretti recitasse appositamente la parte dell’attore stanco, del regista spento?

Un’indicazione il film ce la dà nel momento in cui sembra addentrarsi sempre di più nel meta-cinematografico, mentre il piano biografico, quello della quotidianità di Giovanni, si intreccia sempre di più con quello del film che sta realizzando. La vita di Giovanni va progressivamente a catafascio ed il film con lui. Giovanni viene prima abbandonato dalla compagna e poi è scioccato dalla figlia che gli presenta un fidanzato più vecchio di quarant’anni; alle grane familiari s’aggiungono quelle del set; le difficoltà nel tenere a bada la sua prima attrice, Barbora Bobul’ova, che pretende di fare del suo film drammatico una melensa storia d’amore e soprattutto la scoperta che il produttore gli ha mentito riguardo al denaro: il film rischia di svanire e la troupe inizia ad abbandonare gli studi.

Il cinema non è un paese per vecchi

In questo fondersi e confondersi del piano cinematografico, metacinematografico e biografico della vita di Giovanni sta il senso vero e profondo del film di Moretti. Si dirà che non è una gran novità e che Moretti ha già parlato di sé, delle sue passioni ed idiosincrasie nei suoi film, magari anche mettendo in scena film immaginari (il noto pasticciere trozkista di Aprile). Eppure ne Il sol dell’avvenire qualcosa è diverso. Innanzitutto crediamo solamente di aver assistito a un film di Moretti che parla di Moretti, come in Caro diario e Aprile. Non è affatto così.

Moretti in fondo ci ha dato gli elementi per rivelarci a che gioco giocava. Certo, Moretti e la sua compagna, Silvia Nono, recentemente si sono lasciati, esattamente come accade nel film a Giovanni e alla sua compagna, tuttavia Moretti ha un figlio maschio e non ha una figlia e la sua ex non produce film ma si occupa di letteratura.

Mentre il protagonista delle storie di Caro diario e di Aprile era dunque esattamente Giovanni Moretti detto Nanni, il protagonista de Il sol dell’avvenire, invece, non è Nanni Moretti ma Giovanni. Costui è una sorta di nuovo Michele Apicella, cioè un alter ego del regista, simile a lui, ma anche forse molto differente. Persino grottescamente differente. È in questo scarto tra la realtà diaristica e quella cinematografica che Moretti gioca il suo film. Come del resto gli inserti musicali lasciano ampiamente intendere.

Se infatti nei film precedenti le parti musicali erano sempre giustificate da un artificio, un televisore in un bar che rimanda Silvana Mangano, una scena del musical che Nanni sta girando, la radio dell’auto, ecc., qui il piano biografico e quello del musical invece si sovrappongono senza soluzione di continuità. Mentre il musical in Aprile era un film nel film, ne Il sol dell’avvenire il musical è anche un film nel film, ma non solo, è soprattutto il filming del film. Il musical irrompe cioè nel piano diegetico, quello apparentemente autobiografico, che si rivela così improvvisamente finzione e non messa in scena più o meno realistica o magari documentaristica.

Recentemente alcuni grandi autori statunitensi hanno sfornato un terzetto di opere che sono una profonda riflessione sulla natura del cinema e sul senso del fare film oggi. Tarantino, con Once upon a time in Hollywood, Thomas Paul Anderson con Licorice Pizza e, ultimo ma non ultimo, Steven Spielberg con The Fablemans.

Moretti si inserisce col suo film in questo filone. In effetti in primo luogo Il sol dell’avvenire è il tentativo di riflessione sul cinema come arte. Una riflessione che oggi si impone per svariati motivi, non ultimo la progressiva scomparsa delle sale cinematografiche (a Milano ad esempio a breve chiuderà l’Odeon) per l’imporsi delle piattaforme ma non solo. Sono i meccanismi produttivi quelli messi in questione e, con essi, quelli estetici. Non a caso la scena più riuscita nel film è proprio quella in cui Moretti si confronta con un gruppo di giovani producers di Netflix nel tentativo di ottenere il denaro per non mandare a casa attori e maestranze. Il sol dell’avvenire non racconta dunque di Nanni Moretti, ma racconta di un regista che si domanda: “ha senso ancora fare cinema oggi?”; ma anche: “ho ancora voglia di fare cinema?” e infine: “il cinema deve avere un intento etico o è puro intrattenimento? E se sì, qual è l’etica del cinema?”. La soluzione arriva nel film, nel momento in cui Nanni irrompe sul set di un altro giovane regista. La risposta è che l’etica del cinema sta, ad esempio, nel rifiuto ad accodarsi alla banalità estetica, nel arrendersi a una faciloneria della rappresentazione, ancor prima che morale. La banalizzazione estetica dei giovani registi che giocano a fare i film alla Quentin Tarantino, per intenderci.

Un richiamo che non è solo verbale, ma anche dimostrazione pratica. Per Moretti il cinema vive un momento di stanca e lui non si limita a dircelo o ai mostrarcelo, ma trova il coraggio di farcelo vivere. La fatica o la miseria del far cinema oggi di un vecchio regista, ormai stanco di fare film, stanco soprattutto di resistere a un mondo che gli chiede di ripetere sempre quello stesso film, ossia Caro diario o Aprile, non è restituita solo visivamente e a parole, ma è fatta percepire allo spettatore, proprio attraverso il personaggio di Giovanni e attraverso gag trite e ritrite. Scene che lo spettatore, proprio colui che le reclama, alla fine, non potrà che dichiararsi insoddisfatto. Per Moretti il cinema ai tempi di Netflix non è un paese per vecchi, ma ciò che è più importante è che per Moretti per giudicare un film vale esattamente quel che vale, secondo Gianni Berengo Gardin, per le fotografie: non importa che siano belle, importa che siano buone.


Once upon a time in Trastevere

Ma cos’è un buon film che non sia necessariamente anche un bel film? Per Moretti non si tratta di fare solamente della critica al cinema commerciale. Il cinema americano d’azione per intenderci. Il cinema prodotto da Netflix. Non si tratta però nemmeno di cantare la nostalgia per i film impegnati, quelli che ancora proietta a Trastevere al cinema Sacher. Non si tratta neppure di riconoscere i meriti della bellezza e della bontà del cinema coreano attuale. Non si tratta perciò né di prendersela con Quentin Tarantino e nemmeno di glorificare Bong Joon-Ho. Anzi, Il sol dell’avvenire sembra, in un certo senso, persino aderire all’etica cinematografica di Quentin Tarantino. Se guardiamo agli ultimi film di Tarantino, ad esempio, non importa che il cinema sia etico, se con questo intendiamo dire che debba aderire a una tesi ideologica, politica o, persino, mettere in scena verosimilmente una verità storica. Il cinema per Tarantino non è verista. La sua etica non è neorealista. Tarantino non è Luchino Visconti. Anzi, al contrario è revisionista (Inglorious basterds ad esempio) è falsificazionista e, alla fine, ci può mostrare Sharon Tate che si salva e i suoi assassini che bruciano per mano di un attore alcolizzato (e anche piuttosto maschilista). Ora, seppure restino distanze siderali fra Tarantino e Moretti, tuttavia il cambio di finale, un finale antistorico, che Giovanni alla fine sceglie per il suo film, lasciando cioè liberare l’immaginazione e facendo sì che il personaggio di Silvio Orlando possa presentarsi sotto le finestre di Togliatti e avviare quella rivoluzione dolce nel P.C.I. che non avvenne invece nel 1956, ci dicono che anche per Giovanni il cinema non deve essere verista. Anche Moretti non crede nel neorealismo.

Allo stesso tempo Moretti ci dice che il cinema non deve essere fatto da brave persone per essere grande. Giovanni, il protagonista del film, non è esattamente una brava persona: è un uomo impossibile. Se Thomas Paul Anderson con Licorice Pizza ci ha raccontato che a rendere grande Hollywood non sono stati dei grandi idealisti, ma personaggi pieni di difetti, arroganza, arrivismo e persino una certa dose di avidità e senso degli affari, le miserie nevrotiche di Giovanni, persino la cialtroneria del produttore, dicono che in fondo la stessa regola vale per il cinema europeo, ma con forse una sottolineatura significativa in più: un buon film, per essere tale, non solo non deve essere fatto necessariamente da brave e buone persone, ma può essere fatto anche grazie a un cialtrone (un produttore inaffidabile) purché il film abbia una necessità.

Necessità che è, in questo caso, quella di parlare di cosa stia accadendo oggi al cinema. Così se, infine, Spielberg in The Fablemans ci mostra come il cinema possa essere manipolatorio e trasformare un bulletto razzista in un semidio ariano, grazie a sapienti inquadrature alla Leni Riefenstahl, semplicemente per la voglia di mostrare che è quello il suo potere, anche Moretti nel suo finale, mette in moto tutti i suoi attori, quelli del film presente e quelli dei film passati, in una fiumana alla Pellizza da Volpedo che dispiega quella che secondo lui è la vera potenza del cinema. Una potenza che è fatta di una comunità di persone, alcune giovani e altre vecchie, alcune stanche e altre vivaci, alcune serie e altre improvvisate, alcune note e altre meno, ma tutte persone che camminano insieme verso il futuro, verso il sol dell’avvenire cinematografico e che ci invitano ad andare con loro. Così non importa se il film ti sia piaciuto, non importa nemmeno se ti sia piaciuto anche se in fondo non avrebbe dovuto piacerti, importa che tu sappia che il cinema è in marcia e tu puoi marciare con lui e alla fine puoi dire: “il film non mi è piaciuto, perché non è esattamente un bel film, però… non lo so… forse è un buon film”.

di Amedeo Liberti

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Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.