Maurizio Buscarino. Un’intervista da Zogno



AL: Come sta?
MB: Molto benino. Bene è troppo, male è troppo.

AL: Come il viandante, il fotografo entra in contatto con la realtà di un luogo ma al tempo stesso resta, in quel luogo, forestiero. Sta fuori e sta dentro, senza “entrare nel cerchio della danza per danzare”.
MB: Il tema mio, quello del viandante. Nel finale del mio scritto su Kantor racconto proprio quello che dici: il percorso dal nero a un altro nero, passando per la luce nel campo del mio sguardo. Campo è un luogo che prima non c’è, poi diventa qualcosa e poi torna a scomparire. Ogni momento della nostra vita è nel campo del nostro sguardo. Il termine greco theatron significa esattamente “il luogo in cui si vede accadere qualcosa”. Il soggetto dell’azione è chi vede. Questo è il concetto fondamentale che mi ha mosso. Le fotografie sono questo, per me. In qualunque momento della vita. Fin da bambino, sono stato impressionato dal vedere una persona davanti a me, nel campo del mio sguardo. Perché la sua presenza mi dava la sensazione della mia presenza e la sua scomparsa mi faceva avvertire la mia scomparsa. La vita finisce quando si chiude il campo dello sguardo.

AL: C’è una sua fotografia con Ryszard Cieslak, in Apocalypsis cum figuris, dove è evidente il ritmo visivo buio-luce-buio.
MB: L’attore santo di Grotowski. Era tutto buio, alla luce delle candele. Soltanto all’inizio c’erano due grossi fari del primo Novecento in una sala di Palazzo Reale a Milano. Lui entrava e si accucciava davanti a questa colonna con i fari puntati. Avevo letto che la Canon, siamo nel 1979, aveva realizzato un obiettivo per una scena di Barry Lyndon di Kubrick, per permettergli di fare le riprese in luce naturale solo con le candele. Era l’85 mm 1.1.2.

Il Teatr Laboratorium di Grotowski avrebbe cessato l’attività. Mi chiedono di fare delle fotografie ordinandomi di stare fermo durante una prova, di non muovermi, di non dire niente. La notte stessa stampo qualcosa con grande difficoltà. L’indomani porto loro le foto e si riuniscono per discuterne finché Cinkutis, uno degli attori, viene verso di me e dice “Grotowski, dopo aver visto queste fotografie, ha detto che lei è uno di noi e stasera può fotografare col pubblico e può anche entrare in scena, se vuole.”

AL: Verdetto favorevole! E l’obiettivo?
MB: Ho chiamato la Canon, la quale mi ha detto che ne avevano due ancora sperimentali e che me ne avrebbero prestato uno. Il diaframma 1.1.2 è quasi come l’occhio umano.

AL: Quando ha cominciato a fotografare?
MB: Io ho due vite. Una fino a circa trentadue anni, lavoravo nella divisione virologica veterinaria di una multinazionale farmaceutica come propagandista medico-scientifico. Ho visto tutto quello che si può vedere di brutto e di terribile nel rapporto tra l’uomo e l’animale. Poi un giorno non ce la facevo più a pensare di vivere tutta la vita per prendere uno stipendio in quel modo così sono tornato a casa e ho detto a mia moglie “il mese prossimo non c’è più lo stipendio perché farò il fotografo”. E sono diventato davvero un viandante.

AL: In teatro si fanno le fotografie per l’ufficio stampa, quelle che servono. E poi quelle “inutili”…
Facevo la fotografia di servizio per l’ufficio stampa, per permettermi di fare la mia fotografia. L’inutilità è la qualità fondamentale nella fotografia. La perfetta inutilità della fotografia. Ho lavorato molto intensamente, ho lavorato anche tanto per nulla. E però quel qualcosa di inutile che io cercavo nelle mie fotografie, piaceva anche a chi mi chiedeva le foto per gli uffici stampa.

AL: Cercando Maurizio Buscarino sul sito dell’Archivio Etnografico di Storia Sociale di Regione Lombardia, compaiono diverse categorie: Fotografia industriale, Pupi e burattini, Reportage sociale, Still life e, naturalmente, Teatro. Un prospetto che rende l’idea della differenziazione del suo lavoro.
MB: Sì, sempre per il guadagno per vivere. E anche il lavoro industriale mi arrivava da una sorta di risonanza che avevo in ambito teatrale. In Giappone mi ha chiamato la Toho Corporation, la grande casa cinematografica. Avevano visto alcune mie fotografie di Jusaburo Tsujimura considerato il maestro del Bunraku, il teatro delle marionette.

AL: Cosa piaceva delle sue immagini in Giappone?
MB: Erano impressionati. Tsujimura diceva che non poteva dormire nella stessa stanza dove c’erano le mie fotografie perché erano vive. Erano fantasmi. Tutte le fotografie che ho fatto, le ho sempre fatte sapendo che chi guardavo sarebbe scomparso. È una sorta di “purtroppo” quello che dico. Lì c’entra mio padre, la scomparsa di mio padre, la fotografia di mio padre. In ogni persona ho visto la sua scomparsa e ho cercato di fermarla nella fotografia.

AL: La mostra Komedianci! con le fotografie del teatro di Kantor è stata fatta solo a Cracovia?
MB: Solo a Cracovia. È una grande mostra di duecento fotografie, duecento stampe. L’idea è di portarla a Milano, a Palazzo Reale. C’è anche una richiesta a Toronto e un’altra in una città polacca sul Mar Baltico. Missili a parte.

AL: A cosa sta lavorando adesso?
MB: Sto preparando un libro sull’Odin Teatret di Eugenio Barba, saranno circa settanta stampe di fotografie scattate negli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Questo è il vagare gratuitamente che mi pagavo con quelli che mi pagavano. Anche con il digitale bisogna saper stampare, non è così immediato. Se ci metto quattro giorni per tirar fuori questa stampa, vuol dire che c’è qualcosa dentro. Si chiama lavoro. Sicuramente insieme alla fotografia si è diffusa anche una grande ignoranza della fotografia.

AL: Nel ritratto di Adriana Zamboni vedo una forte somiglianza con Eirene, uno dei ritratti del Fayyum.
MB: Tu tocchi uno dei miei riferimenti pittorici: i ritratti romani. Oltre a Caravaggio, il pittore che annuncia la fotografia, che è in cerca della fotografia. E poi tra i fotografi moderni, Edward Sherriff Curtis, il fotografo degli Indiani d’America, e il tedesco August Sander.

AL: Ci sono diversi tipi di sguardo: assente, attento, sorridente, torvo… Qual è il più difficile da sostenere?
MB: Ogni sguardo è lo sguardo di una presenza che non è mai uguale a un’altra. Non ho mai sentito il problema del sostenere uno sguardo. Forse una volta. Ho un ricordo da bambino della copertina di Water Molino per la Domenica del Corriere con Darix Togni che mette la testa dentro alle fauci del leone. Un giorno Livio Togni mi chiama per fare delle fotografie e prometto di entrare nella gabbia delle tigri nella pista del circo. Ma il mio ricordo era quello del leone in copertina. Così sono entrato, nel senso che un indiano con il turbante mi ha aperto il cancelletto e mi ha spinto dentro. Ho fatto dei passi avanti, la tigre stava arrivando dal tunnel con Togni vestito da gladiatore, armato di lancia biforcuta e frusta piombata. Sono andato avanti, ho fatto dei passi verso di loro e mi sono fermato a due metri dalla tigre che mi fissava. Quello è lo sguardo che ho fatto fatica a sostenere!

Non riuscivo a sollevare la macchina fotografica per portarla allo sguardo perché ero paralizzato. Alla fine sono riuscito e ho fatto degli scatti. Poi ho cominciato ad arretrare finché sono arrivato a quel cancelletto e l’indiano col turbante mi ha preso per le spalle e mi ha tirato fuori perché ha capito che ero pietrificato dalla paura. Lo sguardo è contatto.

a cura di Anna Laviosa

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