Uno specchio sul mondo

Dagli albori della fotografia agli scatti contemporanei di Negar Takbiri  

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… AMARO. 

Ebbene sì, il cacao Droste si trova tuttora in commercio ed esiste anche nella versione senza zucchero. Già nei primi anni del Novecento i pubblicitari avevano compreso quanto la ripetizione dell’immagine di un prodotto fungesse da antidoto alla scarsa attenzione del consumatore. In particolare, inghiottire il primo piano di una scatola di cacao in un campo lungo lontano e inarrivabile deve aver sollecitato il desiderio di chi già pregustava l’aroma delle fave di Theobroma.  

Facendo un passo indietro, l’immagine è diventata inseparabile dal brand a partire dalla diffusione della litografia. Inventata nel 1796 da Alois Senefelder nelle vicinanze di Monaco di Baviera, la litografia sorpassa xilografia e incisione: la riproduzione di un’immagine tramite la tecnica litografica, infatti, diventa più semplice, più veloce e più versatile, tanto che grazie a essa per la prima volta la grafica riesce a tenere il passo della parola stampata. Tuttavia, il suo momento di gloria inizia a tramontare già entro la prima metà del XIX secolo con la nascita del dagherrotipo. Nel 1839 il governo francese, anticipando la concorrenza d’oltremanica, pubblica il brevetto di Louis Jacques Mandé Daguerre sulla Gazette de France. Questo «specchio dotato di memoria», come è stato definito dal medico e scrittore statunitense Olivier Wendell Holmes, si è però ossidato rapidamente, annerendo nell’oblio. Nei primi anni Sessanta dell’Ottocento la dagherrotipia in Europa, a eccezione di quella stereoscopica utilizzata per immagini di nudi particolarmente realistici, scomparve del tutto. La sua sorte era stata segnata dal fatto di produrre immagini uniche e impossibili da riprodurre. Oggetti preziosi, ma poco utili. Nonostante la lucente nitidezza del dagherrotipo, l’inglese William Henry Fox Talbot ottiene così la sua rivincita: il progresso tecnologico prosegue con le ristampe illimitate rese possibili dalla sua calotipia, tecnica che produce un negativo su carta dal quale per contatto si ricava un positivo, sempre su carta.  

Donna curva su uno specchio, dagherrotipo stereoscopico attribuito a Félix Jacques Moulin, 1851-1855

Da sempre il fascino gorgonico della fotografia dipende, in parte, dalla «sua doppia indicità, cioè dal fatto, ad essa peculiare, di puntare sia verso l’esterno, al mondo che sta di fronte all’apparecchio, sia verso l’interno, al fotografo che sta dietro l’apparecchio»[1]. 

Inseguiti da oggettività meccanica e immagine illusoria, specchio e fotografia si rincorrono sul nastro di Möbius fuggendo in egual misura dal presupposto che li acclama quali evidenze scientifiche e dalla letteratura fantastica che li dipinge come «geroglifici dell’inganno, della falsa percezione, del trucco malefico, del ribaltamento della verità, dell’ingannevole soglia verso un mondo rovesciato»[2].  

O meglio, come ha ben sintetizzato Richar Avedon, tutte le fotografie – come gli specchi – sono precise, nessuna è la verità.

Nella storia della fotografia sono numerosissimi gli autoritratti allo specchio. Per esempio, il riflesso di Eugène Atget su una vetrina (1914), le Distortions di André Kertész negli anni Trenta, le smorfie grottesche di Weegee o il malizioso sguardo di Brassaï (L’armadio a specchi, 1932). Ma è nel genere femminile che lo specchio trova una maggiore diffusione. Per citare solo i nomi più conosciuti: Gertrude Käsebier, Ilse Bing, Berenice Abbott, Gisele Freund, Lisette Model, Diane Arbus, Francesca Woodman e soprattutto Vivian Maier, che aveva per gli specchi una vera ossessione.  

Li ritrovo come elemento ricorrente nel portfolio della giovanissima fotografa iraniana Negar Takbiri. Vedendo molte somiglianze con le immagini di Vivian Maier, le chiedo se le sia stata di ispirazione: «Quando ho scattato le mie prime foto – risponde – non conoscevo Vivian Maier. Poi ho visto una sua foto online, mi sono documentata e ho capito quanto il suo mondo fosse simile al mio. Il suo mondo era pieno di segreti e misteri. Così ho comprato due dei suoi libri».  

Osservo le sue fotografie ascoltando A Crack in the Mirror di Joan Baez.  

Le sue immagini hanno tanto la potenza dell’istantaneità che calamita uno sguardo distratto quanto qualcosa di indefinibile, che sfugge all’interpretazione e rifiuta di essere etichettato con un significato. Siamo certi di quello che vediamo (sì, quelle sono proprio teste di pesci decapitati) eppure sembra che qualcosa ci sfugga.

«È uno specchio che riflette l’artista mentre scatta il ritratto oppure è una finestra attraverso la quale può conoscere meglio il mondo?»[3]

Photo courtesy Negar Takbiri, ©

Takbiri non cerca conferme, ma esattamente l’opposto: il suo sguardo esplora lo spazio come un aquilone che si srotola da terra per annusare l’aria più in alto.  

Lo specchio rotto è un fermo immagine che richiama l’attenzione dell’osservatore e gli chiede di rianimare i suoi frammenti facendo ripartire il tempo. È l’immobilità che sogna la «rapidità […] di una folla di idee simultanee che fanno ondeggiare l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte o non ha tempo di restare in ozio e priva di sensazioni»[4]. 

I suoi specchi, pur riflettenti, sono soglie permeabili come il muro d’acqua di una cascata. Si può notare una composizione rigorosa in molti suoi scatti. Ad esempio al vertice di un quadrilatero ittico, dove un occhio ciclopico, tagliato da un’affilata lama d’ombra à la Chien andalou, spicca nello specchio ovale come un’unica nota sul pentagramma. Oppure sulla diagonale di un tronco dove l’occhio è al centro di un quadrante che segna le 13 e 35 mentre i rami secchi di un bosco d’inverno fanno eco alle crepe sul vetro.  

Se orizzontali strisce speculari srotolano dettagli del viso in una sequenza di close-up cinematografici, in un’altra immagine l’occhio risale dal basso seguendo l’indicazione della mano verso la verticalità degli alberi spogli finché la scansione si inceppa quando i due riflessi del volto si sovrappongono. La lettura si complica piacevolmente di fronte a una fotografia articolata su diversi piani di profondità. Solo in un secondo istante ci accorgiamo di un volto che esce dall’ombra. È come spiare una scena e scoprire all’improvviso che qualcuno ha già avuto la stessa idea e ha allargato l’inquadratura per includerci nella scena stessa.  

Takbiri elabora talvolta le sue immagini in Photoshop o con l’applicazione Snapseed, preferendola a iDroste, che esaspera la ripetizione dell’immagine alternando a perdita d’occhio soggetto e sfondo, vuoti e pieni, nascondigli e smascheramenti, apparenza e realtà, oggettività e soggettività. Opposti che vorticano in una mise en abyme onirica, come nei sogni fasulli o nei ricordi, come quando nella prima infanzia mio padre…  

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Negar Takbiri nasce a Teheran, in Iran, nel 1993. Laureata in fotografia presso l’Art and Architecture Azad University, lavora attualmente come editor per la rivista Ghaabemag. Ha già rilasciato alcune interviste (The Smart View e Asahi Globe) e ha partecipato a diverse mostre collettive. «Il mio scopo – spiega – è che chi osserva le mie foto vi affondi dentro mentre le guarda e si rispecchi nel mio mondo». Instagram: @negartakbiri

Note

[1] R. Kelsey e B. Stimson, The Meaning of Photography, Clark Art Institute, Williamstown 2008, p. XI.

[2] M. Smargiassi, Un’autentica bugia. La fotografia, il vero, il falso, Contrasto, Roma 2009, p.88.

[3] J. Szarkowski, Mirrors and Windows: American Photography since 1960, MoMA, New York 1978, p. 25.

[4] G. Leopardi, Note dello Zibaldone, 3 novembre 1821.

di Anna Laviosa  

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