Mise en abyme a colazione

Di scudi, specchi, enigmi e lattine di cacao

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… blasoni e stemmi. Per diversi secoli si è cercato di risalire alle loro origini: per gli araldisti medievali e cinquecenteschi gli stemmi erano la continuità degli emblemi delle famiglie patrizie greco-romane; per gli studiosi tedeschi derivavano dalle insegne barbariche e dall’emblematica germano-scandinava; infine si ipotizzò che provenissero da una tradizione musulmana portata in Occidente dopo la prima crociata[1]. Gli studiosi contemporanei ora concordano nell’individuare le radici dell’araldica in due cause principali: la trasformazione della società feudale e l’evoluzione dell’armamento militare tra la fine del XI e i primi decenni del XII secolo. Gli emblemi erano funzionali a riconoscere il cavaliere in armatura nei tornei e nelle battaglie, ma soprattutto a fornire nuovi elementi di identità in una società che stava cambiando, permettendo di collocare i singoli individui in gruppi e questi in un nuovo sistema sociale. Nati come simboli personali, gli stemmi diventano ereditari e famigliari dalla fine del XII secolo. In origine solo appannaggio di principi e grandi signori, il loro utilizzo si estenderà poi a tutta l’aristocrazia fino a comprendere gli enti morali, le donne, gli artigiani, le città, le corporazioni e le istituzioni religiose.

Stemma di Federico IV di Danimarca e Norvegia, re dal 1699 al 1730

Lo stemma si compone di due elementi: figure e colori (oro, argento, azzurro, rosso, nero, verde), disposti nello scudo secondo regole ben precise e vincolanti. La struttura dei primi stemmi è semplice: una figura di un solo colore è posta su un campo di colore diverso. Col passare dei secoli diventano più complessi e lo scudo si divide in “quartieri”, permettendo di associare stemmi diversi nello stesso perimetro. La parte centrale si chiama abisso e può ospitare una figura o un altro scudo più piccolo detto appunto in abisso[2].

Poilittico Stefaneschi, particolare, il cardinale Stefaneschi
che offre il trittico a san Pietro, Giotto, 1320

L’espediente figurativo della ricorsività è stato usato nel Medioevo anche in pittura con fini encomiastici. Una delle prime e più famose occorrenze è nel Polittico Stefaneschi. Eseguito nel 1320 circa da Giotto e aiuti su commissione del cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi, il trittico originariamente doveva essere posto sull’altare maggiore della basilica di San Pietro in Vaticano. Nel pannello centrale possiamo vedere ritratto il cardinale Stefaneschi che offre in dono a San Pietro il polittico stesso.

Ritratto dei coniugi Arnolfini, olio su tavola di Jan van Eyck, 1434

A partire dal Rinascimento la mise en abyme si slega da una funzione strettamente celebrativa per aprirsi a un discorso metapittorico. Nei Coniugi Arnolfini (1434) Jan Van Eyck ritrae una coppia nell’ambiente intimo di una stanza. La posa solenne, la serietà degli sguardi, le mani congiunte fanno pensare che si stia celebrando il loro matrimonio. Uno specchio posto sulla parete di fondo permette di duplicare la scena, vedendola però da un punto di vista opposto. Non si ripete semplicemente quello che abbiamo già visto: oltre i protagonisti, riflessi di spalle, ci appare quello che vedono loro: i due testimoni delle loro nozze. La firma del pittore sopra lo specchio ci dà un indizio sulla loro identità: «Johannes de Eyck fuit hic» suona più come una disposizione notarile che come un autografo. Dipingendo con un’esattezza fotografica degna di un documento ufficiale, il primo eterno testimone di questa unione è proprio Van Eyck. E l’altra non possiamo che immaginare di essere noi.

Las Meninas, Diego Velázquez, 1656

Il gioco di specchi si fa più intricato in Las Meninas (1656) di Diego Velázquez. Al centro del quadro in ampia gonna vediamo l’infanta di Spagna Margherita, attorniata dalle sue damigelle d’onore, una nana, un cane e altri membri della corte, mentre al suo fianco il pittore – autoritrattosi all’opera – sta dipingendo una grande tela; sullo sfondo, di nuovo uno specchio e di nuovo due figure riflesse: Filippo IV e sua moglie Marianna. A dar retta a Foucault lo specchio non duplicherebbe la raffigurazione, ma al contrario restituirebbe uno spazio che è per definizione escluso dai confini della cornice, quello antistante alla scena, in cui si colloca la coppia reale che osserva. Ma, squadra e righello alla mano, siamo costretti a dargli torto[3]. Seguendo la linea delle lampade sul soffitto ritroviamo il punto di fuga nella figura che sta sulla soglia della porta aperta a destra. Si tratta del ciambellano della regina, per coincidenza un omonimo del pittore: José Nieto Velázquez. Ma se è di fronte al suo sguardo che la costruzione prospettica invita l’osservatore a collocarsi, allora lo specchio deve riflettere qualcosa che sta più a sinistra… E non serve uscire dal quadro per trovarla: è proprio la grande tela che Velázquez (Diego) sta dipingendo!

René Magritte: L’elogio della dialettica (1937), La chiave dei campi (1936), La riproduzione vietata (1937)

Il sottile gioco dell’immagine nell’immagine di Velázquez va in completo cortocircuito con René Magritte, che nelle sue ironiche meta-raffigurazioni semina dubbi sul rapporto tra realtà e rappresentazione. Ne La riproduzione vietata (1937) un uomo allo specchio non è riflesso ma paradossalmente replicato; nell’Elogio della dialettica (1937) la finestra di un palazzo non si apre su una scena d’interno, ma dà in modo impossibile un altro palazzo pieno di finestre dalle tende socchiuse; ne La chiave dei campi (1936) i vetri della finestra sono caduti in frantumi ma riproducono ancora il paesaggio esterno.

Galleria di stampe, M.C. Escher, 1956

Esiti ugualmente paradossali hanno le immagini replicate all’infinito di Escher. Le mani che si disegnano a vicenda cominciano e non completano mai un percorso ciclico infinito, così come la Galleria di stampe (1956) dà avvio a una proiezione infinita che genera un vero e proprio rompicapo visivo. Il disegno mostra un ragazzo che osserva la stampa di un paesaggio marittimo in una galleria d’arte; il paesaggio contiene a sua volta la galleria e il ragazzo che osserva la stampa, il cui paesaggio contiene di nuovo la galleria… Escher ha applicato una trasformazione geometrica che contorce il quadro facendolo attorcigliare su se stesso, ma al centro, non riuscendo a completare lo spazio, ha lasciato uno spazio bianco con la propria firma. Non era neanche sicuro che il rompicapo si potesse risolvere: solo nel 2003 due matematici dell’Università di Leida, dopo innumerevoli calcoli, disegni e proiezioni, sono riusciti a progettare un software in grado di farlo[4].

Sembra quasi scontato che la soluzione sia arrivata dall’Olanda, visto che lì i bambini con la mise en abyme ci fanno colazione. O forse – girando le spalle a Gide e adottando un termine olandese DOC, coniato negli anni Settanta dal giornalista Nico Scheepmaker – sarebbe meglio dire con l’effetto Droste. Sin dal 1904 sulla confezione del cacao in polvere Droste, una delle marche di cioccolato più popolari in Olanda, compare un’illustrazione di Jan Misset divenuta celeberrima: un’infermiera con un curioso cappello bianco pentagonale e una lunga veste bianca e nera con una fascia bianca sul braccio sinistro. In mano regge un vassoio, sul quale è appoggiata una tazza di cioccolata, la medicina più buona che sia mai stata inventata. Di fianco, c’è una confezione di cacao in polvere Droste, su cui compare un’infermiera con un curioso cappello bianco pentagonale, che regge in mano un vassoio con una tazza e una scatola. E se l’occhio ci permettesse di mettere a fuoco cosa compare su quella scatola… Ma avete capito ORAMAI…

Effetto Droste

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Note

[1] M. Pastoreau, Figure dell’araldica, Milano 2017, p. 11.

[2] P. Guelfi Camajani, Dizionario araldico, Milano 1940, p. 4.

[3] L’interpretazione di Foucault è contenuta nel saggio Le damigelle d’onore, in Le parole e le cose (1966). Quella per cui propendiamo noi è, invece, di Snyder e Cohen, tratta da Riflessioni su Las Meninas: il paradosso perduto. Risposta critica (1980).

[4] Si possono vedere i risultati del lavoro qui: escherdroste.math.leidenuniv.nl.

di Ilaria Iannuzzi e Marco Saporiti

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