Sull’apparente necessità del verde e del viola sulla cresta del maschio dell’anatra sposa

Il rettore aveva poi richiamato la mia attenzione su quella che definiva la mia tendenza a fornire un’immagine debole del mio io. Quindi aveva suggerito calorosamente che aumentassi di peso. […] Se avessi potuto imbruttirmi, la mia carriera ne avrebbe tratto enormi vantaggi.[1]   

Questo il consiglio che Jack Gladney, l’acclamato professore universitario protagonista del romanzo Rumore Bianco di Don DeLillo, si sentì rivolgere un giorno per il bene e la prosperità della sua cattedra. Fondatore di una nuova e fortunatissima disciplina storica, gli “studi hitleriani”, Jack era percepito quasi come una leggenda nel mondo accademico, riverito dai colleghi e venerato dagli studenti. La sua figura pubblica, però, per quanto carismatica e di successo, non era ascesa ancora al sommo delle proprie potenzialità, o perlomeno, così riteneva il rettore, il quale, ricordava Gladney:    


Voleva che “mi espandessi” per essere all’altezza di Hitler. […] avevo un gran bisogno di ingrossarmi, […] di darmi una parvenza di eccesso malsano, di infarcimento ed esagerazione, di goffa imponenza […].[2]   

Una stretta consonanza, non solo intellettuale, ma pure estetica e finanche fisica, tra uno studioso e la sua materia, era stimata dunque fattore indispensabile per rendere completa la loro comunione. Beninteso, con ciò il rettore non intendeva certo suggerire che per tenere un seminario su Hitler un docente avrebbe dovuto assumerne le sembianze; ma che tra un’insegnante e la sua disciplina dovesse manifestarsi, anche esteriormente, una certa qual aria di famiglia, questo sì, lo reputava necessario. Pertanto, un professore seriamente calato nelle proprie ricerche avrebbe dovuto, fin già nella parvenza e di lontano, figurare come un’emanazione e un frutto del suo campo di studi, e viceversa.      


Ben prima, però, di tali premurose raccomandazioni rettorali, già Marcel Proust aveva licenziato molte pagine che avrebbero potuto, forse, altrettanto giovare alle indagini di Jack circa il commercio tra la vocazione di un uomo, il suo ambiente e la sua forma. Così, nella Recherche, descrivendo i rapporti che correvano fra Odette, gli abiti che questa indossava e il paesaggio campestre che la circondava, Proust ebbe a definirli come retti da un vincolo necessario:

Persuaso com’ero a priori che, in virtù della liturgia e dei riti nei quali Madame Swann era profondamente versata, la sua toilette fosse unita alla stagione e all’ora da un legame necessario, unico, i fiori del suo flessibile cappello di paglia, i piccoli nastri del suo vestito mi sembravano nascere dal mese di maggio ancor più naturalmente dei fiori nei giardini e nei boschi […].[3]       

     



Lei che obbediva addirittura:

Con degnazione al mattino, alla primavera, al sole, i quali non sembravano lusingati quanto avrebbero dovuto del fatto che una signora così elegante avesse deciso di non ignorarli e avesse scelto un vestito più chiaro, più leggero […] adottando per loro tutti i riguardi.[4]         

E poi ancora, più avanti, le mise di Madame de Guermantes:        
           
Ciascuno dei suoi abiti mi sembrava una sorta d’atmosfera naturale, necessaria, la proiezione d’un determinato aspetto della sua anima. […] Mi pareva, quel vestito, la materializzazione, intorno a lei, dei raggi scarlatti d’un cuore che non le conoscevo e che, forse, avrei potuto consolare; rifugiata nella luce mistica di quella stoffa dolcemente ondeggiante, mi faceva pensare a una santa della cristianità primitiva.[5]

Legame necessario. Atmosfera necessaria. L’abbigliamento, insomma, non tanto come utile (necessaria a fini pratici) concordanza fra tempo atmosferico e grana dei tessuti, volta a garantire un’adeguata traspirabilità; ma, piuttosto, abbigliamento come punto mediano ottimale (necessario perché migliore degli altri) tra la persona (proiezione d’un determinato aspetto della sua anima) e il mondo (il mattino, la primavera e il sole).

           


Ora, però, è lo stesso Proust a rilevare che l’atmosfera “necessaria” che circonfondeva queste due donne straordinarie solo “sembrava” tale. Sembrava necessario il clima che i loro abiti si portavano dappresso, e necessario sembrava pure il legame tra le loro toilettes e la stagione; ma, sia Odette che Oriane, avrebbero potuto anche indossare qualche cos’altro (qualche cosa di equivalente rispetto a ciò che, effettivamente, avevano poi scelto di vestire) e destare comunque, in chi le avesse scorte, la medesima (equivalente) sensazione di necessità. Ha scritto Musil:     

Anche Dio preferisce parlare del mondo da lui creato servendosi del congiuntivo potenziale (hic dixerit quispiam…) perché Dio fa il mondo e intanto pensa che potrebbe benissimo farlo diverso.[6]         

Ciò detto, tuttavia, e quale che ne fosse la natura, l’”atmosfera necessaria” che accompagnava le due dame, tale (necessaria) e non altra, apparve a chi poté contemplarle. E questo perché, per esempio, entro certi limiti, è dato completare un abito tanto con questo, quanto con quell’altro accessorio (essi sono intercambiabili), e comunque (in entrambi i casi) suscitare l’impressione che, rispettivamente, solo questo o solo quell’altro, sia l’accessorio giusto (necessario poiché migliore). Necessario, qui, significa avente facoltà di mantenere l’incanto, in un’accezione da statica delle strutture: necessario è ogni elemento del vestiario in grado di suscitare la sensazione che, rimuovendolo o sostituendolo con altro, l’equilibrio che ora è dato mirare (“perfetto così!”) andrebbe immedicabilmente perduto. Ma questa è, appunto, “solo” una impressione, e non di rado quell’altro accessorio (non uno qualsiasi, attenzione, ma quell’altro sì) può con successo sostituire questo, e così mantenere l’apparenza della necessità.


In fatto d’accessori, poi, anche Jack Gladney era col tempo riuscito a trovare i suoi, dimodoché, oltre a mettere su peso, si era infine anche risolto ad adottarne alcuni in grado di approssimarlo ulteriormente “all’altezza di Hitler”. Così, durante le sue ore in università, aveva cominciato a portare una lunga toga nera, che usava abbinare a un paio di occhiali, neri ugualmente, e dalla montatura enorme.

Cos’altro mai avrebbe potuto indossare un professore di studi hitleriani? Invero, moltissimi altri abiti e complementi vari, naturalmente; ma, dopotutto, era “perfetto (anche, e non necessariamente solo!) così!”. Un giorno, però, mentre si trovava a fare compere dal ferramenta, vestendo abiti civili in luogo della consueta divisa d’ordinanza da storico del nazismo, gli accadde d’incontrare un collega che gli disse:     

– Non ti ho mai visto fuori dal campus, Jack. Sei diverso, senza occhiali e toga. […] Sei una persona completamente diversa.   
– In che senso, Eric?         
– Non ti offendi? […]       
– Non mi offendo.             
– Hai un aspetto assolutamente inoffensivo, Jack. Un individuo grosso, inoffensivo, insignificante.[7]              

La “parvenza di eccesso malsano, di infarcimento ed esagerazione” che nel campus aveva reso Jack temibile e temuto, e ch’era così bene supportata dagli occhiali e dalla toga, senz’altro lo sarebbe stata anche, in alternativa, da molti altri vestiti e accessori in qualche modo a essi affini (equivalenti), e perciò parimenti in grado di sembrare, ciascuno, l’unico abbinamento plausibile col fisico e con gli interessi del professore. Ma il numero di tali possibili permutazioni, per quanto grande, non è infinito, e solo entro certi limiti l’equivalenza fra capi è in grado di sostenere l’apparenza della necessità. Superata quella soglia (fuori dal campus) questo non va più tanto bene quanto quell’altro. Questo e quello non si equivalgono più (sei una persona completamente diversa).         

Così Walt Whitman

Nel mio vagare tutto il giorno, il mio passo talvolta 
spaventa l’anatra sposa e il suo maschio,    
S’alzano insieme e volano in cerchio lentamente.     

Io credo in queste alate intenzioni,
E riconosco che il rosso, il giallo e il bianco agiscono            
dentro di me,      
E ho idea che il verde e il viola e la cresta piumata siano        
intenzionali,
E non disprezzo la tartaruga perché non è qualcos’altro […].[8]


Mentre era intento a creare il mondo, anche della cresta verde e viola del maschio dell’anatra sposa, Dio avrà pensato che avrebbe benissimo potuto diversamente ornarla: non era necessario che il verde e il viola fossero tali.

Epperò, tali furono e sono. Una cresta verde e rossa, anziché verde e viola, sarebbe stata forse la stessa cosa? Certamente no, non la stessa. Eppure, è probabile che un’uguale apparenza di necessità avrebbe investito anche questa coppia alternativa, e fatto dell’inedito binomio verde/rosso sulla testa del maschio dell’Aix sponsa qualche cosa di (apparentemente) necessario al pari della usuale coppia verde/viola (un suo equivalente).

La cresta piumata che non fu, se mai fosse stata, si sarebbe mostrata altrettanto calzante, intenzionale e necessaria, di quella che invece vide la luce, e che fu poi veduta da Walt Whitman.

Ma che dire allora della diade verde/giallo? E di quella verde/blu?

Chi mai si sognerebbe di alterare le cromie di un pavone? Il verde e il blu del suo piumaggio sono sua caratteristica costitutiva (necessaria). Tuttavia, tale appare, pure, se lo si osserva, il bianco di un pavone bianco. Quando questo gioco di sostituzioni funziona, significa che ci si sta muovendo entro i confini di un territorio ove l’equivalenza è possibile. Là, vige la necessità apparente che permette di desiderare – desiderio, questo, soddisfatto per definizione – che ciò che c’è ci sia, e che sia esattamente così com’è, nonostante si sappia che avrebbe anche potuto benissimo essere diverso (ma sarà poi vero? e in ogni caso: è così com’è e non altrimenti). Per chi la sperimenta, l’apparenza della necessità viene vissuta non come apparenza, ma come apparizione di quanto è necessario.     
L’apparenza della necessità fa mormorare a chi l’avvista, ammirato, “non disprezzo la tartaruga perché non è qualcos’altro”.      

   
di Thomas Cucchi


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Bibliografia:

DE LILLO, Don, Rumore bianco, Torino, Einaudi, 1999.     
MUSIL, Robert, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 2021.            
PROUST, Marcel, Alla ricerca del tempo perduto, All’ombra delle fanciulle in fiore, vol. II, Mondadori, Milano, 2002.
PROUST, Marcel, Alla ricerca del tempo perduto, La parte di Guermantes, vol. III, Mondadori, Milano 2002.    
WHITMAN, Walt, Foglie d’erba, Rizzoli, Milano, 2012.


[1] D. DeLillo, Rumore bianco, Torino, Einaudi, 1999, pp. 21, 22.

[2] Ibid.

[3] M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, All’ombra delle fanciulle in fiore, vol. II, Mondadori, Milano, 2002, p. 255.

[4] Ibid.

[5] M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, La parte di Guermantes, vol. III, Mondadori, Milano 2002, p. 172.

[6] R. Musil, L’uomo senza qualità, vol. I, Einaudi, Torino, 2021, p. 16.

[7] D. DeLillo, op. cit., p. 103.

[8] W. Whitman, Foglie d’erba, Rizzoli, Milano, 2012, pp. 95, 97.

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