Il dono dell’Aquila e la scuola del Merlo

Sulla digestione, fra liuti, pianoforti ed esteti persiani

Nel 1805, in un carico di doni da parte di Napoleone allo scià di Persia Fath ‘Ali Shah Qajar fa per la prima volta il suo ingresso alla corte di Tehran un pianoforte.

Tenuto per anni fra i sontuosi saloni nella residenza della famiglia reale come misterioso oggetto d’arredamento, del destino poi di questo strumento non si hanno più tracce.

Né resta nulla sui tentativi che i musicisti del sovrano possono aver compiuto attorno ai meccanismi dello strumento europeo, cercando di capire come accordarlo e come trasferirvi il loro linguaggio musicale.

I primi risultati nello sviluppo di una musica persiana sul pianoforte risalgono alla metà del secolo, quando il pianoforte di cui oramai prenderanno lezione i membri della famiglia reale avrà trovato un ruolo nella sua affinità con il santur persiano, accordato quindi secondo un’intonazione indigena, piuttosto lontana da quella con cui Beethoven lo avrebbe tenuto accordato in casa propria.

In quegli anni, un po’ come ancora oggi, il pianoforte era lo strumento di riferimento per la composizione e l’esecuzione della musica legata alla tradizione europea.

Per questi musicisti, ad essa estranei, il sottoporsi alla sfida di trovare un dialogo fra loro arte e il mezzo della tastiera, dev’essere stata forte la tentazione di essere digeriti e inglobati dalla gestualità musicale, dalle sonorità e dal sistema di intonazione da cui quello strumento nasceva e che portava nella genetica della sua costruzione e funzionamento.

Le voci delle tradizione musicale persiana

Ascoltando le registrazioni delle improvvisazioni del pianista iraniano Morteza Mahjubi ormai in pieno Novecento, ci possiamo fare una buona idea di come il pianoforte sia riuscito ad adattarsi ad esprimere le sonorità della musica persiana.

Pare Mahjubi portasse sempre con sé la chiave con cui accordare il pianoforte durante i concerti per assicurarsi di avere a disposizione l’intonazione più adatta ai complessi sistemi scalari della tradizione, rendendo possibile l’imitazione raffinatissima di un canto di voci non del tutto addomesticate da sistemi artificiali di intonazione, voci che fiere e commosse oscillano negli spazi liberi fra le nostre note “fisse”, stelle di un cielo musicale al di fuori del quale il nostro godimento sonoro perde la rotta, si smarrisce in un mare monotono di ritmi intricati e melismi cantilenanti.

Usiamo parlare di “microtonalità”, facendo riferimento quindi a suddivisioni non usuali del “tono”, la nostra unità di misura della distanza fra l’altezza delle note. Espressione che ha inevitabilmente come punto di riferimento l’esperienza musicale euro-colta… cosa di più limitato per ciò che si propone di descrivere! La sua musica rappresenta qualcosa di unico che nessun compositore europeo era mai stato capace di cogliere sulla tastiera.

Il Merlo e la musica del liuto

Tornando indietro di mille anni facciamo un percorso a ritroso rispetto a quello del primo pianoforte, seguendo il sole da oriente a occidente siamo sulla strada percorsa del musicista Zyryab, “il merlo”, che secondo la leggenda, in esilio dopo aver sfidato e vinto il suo maestro in una sfida canora, da Baghdad arriva a Cordoba in quell’epoca sotto la dominazione araba.

Zyryab fu un virtuoso dell’oud – strumento da cui deriva il nostro liuto –, raffinato esteta e cultore della ritualità di corte; dal suo passaggio si fa risalire l’arrivo della pratica di imbandire la tavola con la tovaglia, di servire il vino nei bicchieri di vetro, e addirittura di suddividere e ordinare le portate come facciamo tutt’oggi, nonché di varie ricette della tradizione culinaria andalusa.

Il titolo del disco Zyryab (1990) di Paco de Lucia è un omaggio al leggendario musicista, capostipite mitico della tradizione flamenca andalusa.

Dall’altro lato dei mari, in un gioco di riflessi, l’ascendenza araba della musica tradizionale spagnola è l’ispirazione dell’oudista iraniano Munir Bashir in Flamenco roots (1998).

Nella musica di Bashir suonano inconfondibili i suoi respiri, le sue pause, che sono abissi, aprendo spazi di silenzio fra slanci di enunciazioni vibranti.

Il legno che unisce Oriente e Occidente nella musica

È di estremo fascino come l’oud oltre ad aver nutrito la tradizione musicale spagnola sia poi penetrato nella cultura del rinascimento europeo fino a diventarne il volto stesso.

Ha caratteristiche costruttive diverse, ma parte dallo stesso principio: un corpo a doghe ricurve, prodotto di una cultura di navigatori esperti nell’arte della costruzione navale, dal quale si protende come un collo la tastiera con le corde originariamente di seta.

Oud, che in arabo significa “legno”, si trasforma da al‘oud, a liuto, in italiano.

Lo stesso strumento che l’influenza araba aveva portato ovunque, da Cordoba a Palermo a Costantinopoli, veniva adattato alla musica delle architetture vertiginose del contrappunto, e il manico nudo ora era diviso perpendicolarmente con lacci di budello per fissare l’altezza delle note: è da questo passaggio che in questa evoluzione smette di avere un ruolo altrettanto predominante la ricerca di quelle sensuose nuances dell’intonazione, che nel flamenco, con la chitarra provvista di tasti ma fedele alla sua ascendenza mediterranea viene mantenuta esercitando una pressione sulla corda alla quale il liuto non risponde con altrettanta energia.

L’organismo offre la musica all’umano

Nell’assorbire il gesto uno strumento si comporta come un organismo: l’organismo domanda il nutrimento, e il nostro sporgerci sul corpo sensibile dello strumento musicale è un porgere la mano in offerta, come si offrirebbe qualcosa ad un affamato.

Ci risponde la sua capacità di digerire quell’offerta: alla mano fatta scivolare sulle corde ci risponde ciò che la tensione fra le corde accoglie e restituisce.

Pensiamo all’impressione che ci fa la vista di uno strumento musicale quando lo abbiamo davanti “a riposo” da completi profani della sua arte. Nel caso sia una chitarra o un cordofono affine, la buca sulla tavola armonica ci guarda come fosse una bocca spalancata, aperta su un vuoto misterioso che custodisce un silenzio che non è semplice quiete, ma una fame che ci richiama; lo strumento domanda d’essere nutrito della forza di un gesto sulla tensione delle sue corde.

La mano inesperta nei suoi tentativi si chiederà: «sarà troppo? Sarà troppo poco? Sarà capace di digerire la mia offerta?», e la reazione dello strumento prosegue la relazione circolare che nasce da queste domande, da questa inquietudine. Uno strumento entra nell’attenzione di una cultura come un mendicante, con la tensione nella fame di un mendicante che domandi un pasto.

Alla luce di questa considerazione può non sorprenderci la quantità di decori diversi che sono stati utilizzati nella storia sugli strumenti musicali per orlare i bordi di queste voragini, per coprirle con complessi arabeschi concentrici, opere d’arte, che ricordano in piccolo i rosoni delle cattedrali – da cui il nome di rosetta.

Il gesto musicale è rito, attenzione alla cultura

Questo tentativo di dividere il vuoto, la fame, in parti simmetriche e ordinate è di fatto un’esorcizzazione o una sublimazione di questi sentimenti; le azulejos moresche portoghesi, che coprono gli edifici di arabeschi, per fare un parallelo, ricordano questa risposta del tutto umana nei confronti del vuoto: un popolo sottoposto alla vista costante dei confini del mondo, del vuoto oltre la fine della terra, restituisce la forza che quell’orizzonte imprime coprendo le pareti di decori, dividendo geometricamente la superficie uniforme, frammentandola in giochi di linee simmetriche e contrasti cromatici – dove non sia il semplice azzurro (da cui il nome), richiamo per simpatia al colore dell’orizzonte.

Elementi con caratteristiche “puramente simboliche” sugli strumenti musicali – come le aggiunte decorative sulla tavola armonica –, o gesti rituali che possono apparire inessenziali, sono le tracce necessariamente visibili della metabolizzazione di queste esperienze.

Ormai, per noi, mangiare su un tavolo che non sia coperto da una tovaglia è assurdo; e non lo sarebbe così tanto se la ragione fosse unicamente di natura pratica.

Zyryab sottoponendola dapprima alla cultura dell’iberica Cordoba nell’avviare la diffusione della divisione rituale del pasto apportava un’attenzione in più ad aspetti che non riguardano direttamente la sostanza del nutrimento, ma che preludendo all’atto in sé, – ruolo del resto anche del sapore, che mai oseremmo dire inessenziale – preparano la disposizione alla digestione e quindi alla qualità del nutrirsi stesso.

Autore