Immagini di mitezza nelle raffigurazioni degli asceti medievali
Pensando al tema del Mite suggeritoci dall’I Ching, il pensiero va alle figure dell’eremita e dell’anacoreta – così importanti e fondamentali per molte religioni. La loro caratteristica è quella di vivere in maniera solitaria o in piccoli gruppi lontano dalla vita in comunità. Ritirati quasi completamente dal mondo, trascorrono una vita totalmente dedita alla lode di Dio e, attraverso la penitenza e la preghiera, anche al servizio di tutta l’umanità.
Fra il Trecento e il Quattrocento, specificamente in Toscana, la raffigurazione delle vite degli anacoreti e degli eremiti nel deserto ebbe molto successo e diffusione. Queste pitture (sia murali che su tavola), chiamate “Tebaidi”, vedono dipinti luoghi immaginari dove eremiti e santi, assieme ad animali e diavoli, danno vita a brevi storie disposte in piccole scene nel paesaggio.
Sono denominate “Tebaidi” perché si sosteneva che nel deserto presso Tebe in Egitto fossero vissuti questi personaggi in solitudine eremitica. Tuttavia, l’origine dell’uso di questo termine non è chiara. Nella volgarizzazione trecentesca delle Vitae Patrum e in quella quattrocentesca del Pratum Spirituale la parola indica la regione egiziana e non l’iconografia pittorica. In alcuni testi successivi, come il poema in volgare pisano ispirato alle epigrafi del Camposanto di Pisa, queste sono chiamate «storie degli anacoreti». È solo in una lettera scritta da Giuseppe Pelli Bencivenni nel febbraio 1780 per l’acquisto di un dipinto di Gherardo Starnina da parte delle Regie Gallerie che quest’opera viene descritta come «una Tebaide di antichi monaci». L’accostamento fra il termine “Tebaide” e questa raffigurazione prenderà piede nella letteratura artistica recente e si intenderà riferito a un’iconografia comprendente la raffigurazione di monaci in atteggiamenti diversi, in un paesaggio solitamente attraversato da un fiume e con una ricca vegetazione.
Le varie situazioni nelle quali si ritrovano i personaggi di queste composizioni non sono di pura invenzione del pittore; dipendono, bensì, in modo più o meno diretto, da diverse agiografie raccolte sotto il nome di Vitae Patrum, riferite ad autore anonimo o, in maniera arbitraria, a S. Girolamo, che circolavano sia in greco e in latino sia in volgare. Parallelamente alla loro diffusione attraverso la predicazione francescana e domenicana nasce la necessità di rendere attraverso le immagini il concetto dietro le storie.
Presso la National Gallery of Scotland di Edimburgo è conservato in prestito un trittico, opera di Grifo di Tancredi, in cui nel registro basso del pannello centrale sono raffigurate le esequie di un santo monaco attorniato da anziani dello stesso rango; dietro a questa scena vediamo altri personaggi (eremiti, monaci, infermi) in un paesaggio scosceso ricco di vegetazione e animali di vario genere; in alto vediamo l’anima del defunto salire in cielo. Nei pannelli laterali troviamo Cristo alla colonna, la Crocifissione, Cristo deriso, la Discesa al Limbo e le Tre Marie al sepolcro. La composizione è chiusa da una cimasa con Cristo benedicente tra angeli. Un ruscello scorre tra le rocce e vediamo sia un monaco pescare che dei leoni abbeverarsi accanto a papere; tra le rocce un monaco esce dalla sua grotta per nutrire un cinghiale e da una chiesa escono monaci anziani (uno di loro suona la campana) mentre un monaco più giovane percuote un semantron, uno strumento usato negli eremi in Egitto e in Palestina per chiamare i religiosi a raccolta. Al centro della composizione vediamo uno stilita che osserva la scena dove diversi eremiti fanno capolino da grotte, mentre dei demoni cercano di introdurre donne nelle spelonche e confratelli si aiutano a vicenda.
Non conosciamo la committenza dell’opera. Tuttavia, il programma iconografico colto improntato ai temi dell’eremitismo, unito alla grandezza del tabernacolo e alla ricercatezza dei materiali, fanno pensare alla committenza di un alto prelato. La tematica trattata e gli abiti dei monaci fanno pensare all’ambiente domenicano.
Al Szépművészeti Mùzeum di Budapest si conserva la parte sinistra di un pannello raffigurante una Tebaide che possiamo ritenere debitrice all’opera del Grifo. La tavola di Budapest è oggi attribuita all’Angelico. In un paesaggio attraversato da un fiume, in cui è presente un’alternanza di radure e spuntoni di roccia, vediamo in primo piano le esequie del santo eremita attorniato da confratelli mentre nel paesaggio sono disposte, con un nuovo spirito di rappresentazione spaziale, le diverse scene di vita eremitica. Oltre a queste scene, già presenti nel dipinto del Grifo, qui è possibile vederne altre tratte dal Prato dei santi di Giovanni Mosco, tradotto dal latino assieme alle Vite dei Padri nel 1423 dal frate camaldolese Ambrogio Traversari, grazie alla copia completa di questo dipinto conservata agli Uffizi (l’opera è quella menzionata nella lettera del febbraio 1780) poiché la parte destra dell’opera di Budapest risulta dispersa. Questo paesaggio mette in scena in metafora il Prato dei santi dove le vite degli eremiti, esempi di virtù, sono paragonate a piante e fiori in un giardino.
Quelli che a noi sembrano elementi “arcaicizzanti” rispetto al periodo in cui ci troviamo sono invece una precisa volontà del pittore di andare a recuperare elementi figurativi capaci di evocare quella “classicità cristiana” che nei circoli eruditi fiorentini del tempo stava vivendo una grande riscoperta.
A Firenze, presso la Galleria dell’Accademia, troviamo conservata una tela attribuita a Paolo Uccello in cui vediamo monaci e religiosi attenti alle loro attività spirituali in un’ambientazione fatta di grotte, boschi e anfratti attraversati da un fiume.
In primo piano, a destra, vediamo in cattedra un santo benedettino (probabilmente Benedetto o Romualdo) attorniato da monaci che ascoltano la sua parola. A sinistra, l’episodio dell’apparizione della Vergine a S. Benedetto. Poco sopra, in una grotta, tre monaci fanno penitenza e pregano, mentre all’esterno un monaco boscaiolo e un asino si preparano a guadare il fiume. Altri frati stanno salendo una scala per raggiungere un gruppo di confratelli intenti a flagellarsi sotto un crocifisso. Accanto a questi, fuori da una chiesa con il monogramma di San Bernardino sulla facciata, un francescano dibatte con due laici. Al centro della composizione si apre una grande grotta al cui interno sono raffigurati S. Girolamo in penitenza davanti a un crocifisso e, al di sopra, S. Francesco che riceve le stimmate sotto un arcobaleno; a destra il paesaggio si apre verso campi coltivati, un castello e una chiesa sovrastati da un cielo tumultuoso.
La struttura è chiaramente quella delle Tebaidi classiche, ma i personaggi rappresentati appartengono alla cultura monastica occidentale e non a quella degli eremiti nel deserto egiziano: per questo l’opera può essere considerata una Tebaide “rivisitata”. Siamo davanti a due possibilità interpretative: la prima, secondo Alessandro Parronchi, è legata al De oculo morali di Pierre Lacepierre de Limonges, un trattato medievale che tenta di illustrare le leggi prospettiche attraverso metafore e storie esemplari di vite dei santi, di cui quest’opera sarebbe una trasposizione figurata; la seconda, di Alessandra Malquori, interpreta la tela come una raffigurazione della via perfectionis, poiché sarebbe possibile identificare un percorso ascensionale attraverso i vari episodi dipinti. Al di là del vero scopo dell’opera, definita da Roberto Longhi un «Luna-Park eremitico», qui Paolo Uccello vuole creare, attraverso soluzioni prospettiche trasfigurate, un paesaggio surreale, per accentuare l’atmosfera sospesa dell’esperienza ascetica nel deserto.