Il Winterreise di Franz Schubert

Canto dell’eterna distanza

Il passo del viandante è la sua musica; quel suono è la musica della sua strada.

Robert Walser, che ha vissuto e alla fine ha reso la sua vita al camminare, ne La passeggiata disegna l’esperienza dell’incontro intimo con la bellezza. Attraversa i presagi sonori della strada, poi del bosco con la sua vita invisibile, fino allo scoperta, cuore del racconto, d’un canto spontaneo, da una fanciulla alla finestra. Canto nel quale le note fluivano giovani e innocenti al pari della felicità stessa.

Sempre e ovunque il suono ci racconta di qualcosa che non è qui, che non è fra noi: ci racconta dell’interno invisibile degli oggetti; di un altrove che superando le barriere raggiunge l’immaginazione, destata da un passo tradito oltre la cortina.

Quella di Walser è l’opera di un romantico fuori tempo massimo, nostalgico dell’epoca in cui la letteratura tedesca godeva del più felice connubio con quella musica che, vivificandone l’essenza, amplifica come una eco il suo senso sublime, raccolto in pochi brevi versi nelle parole del poeta Clemens von Brentano:

Parla da lungi

Mondo segreto,

Che di congiungerti

A me sei lieto.

Se a qualcuno si deve l’idea del concept album come percorso fra i ricordi e i pensieri diversi, è  all’arte delicata e dedicata di Franz Schubert.

Sentieri di versi, rischiarati dall’inanellarsi di musiche diverse, nell’invenzione musicale che intreccia suono dello strumento e suono della parola, della poesia e del canto. Al tempo di Schubert si parlava di ciclo di Lieder (canzoni, in tedesco),  raccolte di brani su testo di poeti noti o ignoti, pubblicate in partitura per il consumo privato e salottiero.

Schubert ne compose due da raccolte del  poeta Wilhelm Müller, il secondo dei quali, il Winterreise, il Viaggio d’inverno, nel 1827, ad un anno dalla morte.

L’antecedente più nobile lo si deve a Beethoven, suo contemporaneo, da lui profondamente stimato. Nel ciclo All’amata lontana, del 1816, su testo di Alois Isidor Jeitteles (studente di medicina, poeta “a tempo perso”), sono raccolti sei brani, come un dono a un amore lontano. La vista, nell’evocazione appassionata dei ricordi felici, si perde fra le montagne e la campagna, in una distanza che ha le tonalità del blu e dell’azzurro. Uno sforzo sublime coinvolge il poeta teso nella distanza. L’eco risponde nelle note del pianoforte alle rime declamate con quieta nostalgia, verso montagne lontane, perse nel blu, e un entusiasmo irrefrenabile sembra trasportarci a volo nell’aria nel cielo azzurro, come il treno dei desideri si fosse lanciato indietro per davvero… mistico slancio amoroso benedetto e suggellato dal timbro della corrispondenza postale.

Il Charlie Brown dell’ultima striscia di Schultz, seduto sul divano, pensando alla cassetta delle lettere in giardino sotto la pioggia e alle tanto attese lettere d’amore che non arrivano mai, confessa a Sally che ricevutane una per davvero non saprebbe cosa fare.

Delicato quadro di devozione al Fernweh – letteralmente il dolore per la lontananza, parola di invenzione ottocentesca, opposto del composto nostalgia – più specifico ancora della romantica Sensucht, evocato nel canto commovente della goethiana Mignon, lirica affettuosamente ripercorsa in musica da Schubert, Schumann, Wolfe.

Nostalgia di mondi solo immaginati, d’una infinità celata oltre l’orizzonte, spirito capace di echeggiare da brevi incisi interrogativi come: “conosci tu la terra dove…”.  Pervasivo nella letteratura musicale con le “quinte dei corni”, richiamo sonoro per eccellenza dell’autentico Fernweh, da Mozart fino a Mahler.

Un simile sentimento si amplifica come la voce che corre giù per le vallate immense riempiendo le distanze vertiginose. Se per l’Amata immortale, misteriosa figura destinataria delle lettere rinvenute fra le carte testamentarie di Beethoven, su cui tante speculazioni si sono fatte, un nome certo non ci sia, è perché così dev’essere. Unica certezza è che solo una distanza incolmabile può rendere un amore similmente immortale.

Sempre del 1816, di Schubert, il lied Der Wanderer, Il viandante; gemma solitaria, è la chiave di questa prospettiva.

Il ritmo del pianoforte ricalca quello del passo del Wanderer: codice e analogia allo stesso tempo, su cui la voce canta la ricerca senza fine, la nostalgia di un’altrove che non ha luogo. Il testo, di Georg Philipp Schmidt von Lübeck (anche questi all’epoca studente di medicina), omaggia i versi famosissimi di Goethe, dove l’immaginazione della piccola Mignon si spinge vagabonda fra le terre del sud. Al culmine della commozione il poeta chiede e ripete: “Dove sei, mia amata terra?”, una voce misteriosa risponde: “là dove tu non sei”.

Ben prima di diventare la capitale della moderna progettazione industriale, la cittadina sassone di Dessau dava i natali a Wilhelm Müller, poeta tra i favoriti di Schubert, che ne musicò le liriche nei suoi due memorabili cicli. L’autore sarebbe poco ricordato oggi, se non fosse per questi, forse il dono più caro che il musicista può fare al poeta: poggiare il suo pensiero su ali dorate cantando al suono della cetra – o del moderno pianoforte, soffiando nelle sue parole la vita.

Il Winterreise abbraccia un arco di ventiquattro brani. Questo viaggio d’inverno inizia nel lamento dell’amore perduto, con le sue promesse, i suoi sogni all’ombra del tiglio; nomi e date incise nella corteccia, e poi sul ghiaccio.

Un inverno che è assenza e separazione dalle gioie e dalle speranze. Nel dolore il sentimento tenta di alzare la temperatura e di scoprire con le lacrime il verde sotto la neve; sforzo estremo per impedire ai frammenti della memoria di disperdersi nell’inesorabilità del sentimento tradito.

Das Mädchen, la ragazza, quasi non ha volto, come fosse ella stessa il volto del mondo, il volto di una fedeltà insostenibile che si avvia a trasformarsi, abbandonando una vita che dalle prime note è sottoposta a un fermo congedo, in un’ultima visita notturna dell’amante rifiutato alla porta dell’amata, per scrivere sulla sua soglia soltanto: Gute Nacht, buonanotte.

Nel gioco di assonanze fra la parola amore e la parola vita (Liebe, Leben), il dialogo con l’amata diventa un dialogo con la vita stessa. Lo Zarathustra di Nietzsche parla attraverso il canto alla Vita, come fosse un’amante;  l’anonimo camminatore del Winterreise, resta in dialogo con il ricordo dell’amata, die Liebchen, nel suo vagabondare per valli, fiumi e torrenti.

Fuochi fatui lo spingono fra crepacci selvaggi; come i pastori innamorati dei madrigali del Cinquecento,  fra i duri sterpi e i sassi, unica compagnia. Quelli, giovinetti arcadici da una mitica età dell’oro della poesia rinascimentale; lui, esule della città fra le foreste del gelido nord, fuori dal tempo, in un clima spirituale ed estetico che ha del postmoderno.

La strada irride con ironia le sofferte certezze. Gli estremi toccati, loci di una anatomia dell’ossessione come l’ha definita il cantante Ian Bostridge sono i tentativi falliti di approdare a una continuità del sentimento, una fedeltà che si sfalda e irrigidita resta sepolta dal tempo che cala come le falde di una nevicata.

Tornano cerchi, gesti ciclici, giri di note, l’oscillare come in un pendolo dell’armonia che culla, come il ritmo del passo nutre il coraggio del viandante, unico “luogo” dove nascondere la distanza, chiudendo il tempo nella certezza di un ritorno, d’una ciclicità.

Quella ciclicità che la natura sfiora senza realizzarla mai, quel sogno d’eternità che non ha luogo in nessun luogo, come nascosta oltre una cortina impenetrabile. E dove il canto spezzato del gallo rompe l’incantesimo d’un sogno di primavera, la vibrazione misteriosa di una corda chiama come a chiamare fosse lo stesso mistero della continuità preclusa.

Il viaggio si chiude sull’incontro con il suonatore di organetto o ghironda nel cui meccanismo a manovella torna il movimento ciclico, con quel suono di quinta vuota, che resta presenza costante per tutto il brano. Lui, il Leiermann, è la pietra filosofale dell’alchimia sofferta del Wanderer; è il portatore del canto della realtà, il vecchio misterioso con le dita contratte dal freddo: i cani gli abbaiano, i passanti lo ignorano.

Ancora una volta, alla fine del viaggio, è il suono il passaggio da un mondo ad un altro. Un lungo percorso per integrare il senso dell’irreversibile nel passo della mente, che tenuta per mano dalla memoria vuole il ritorno come compagno di ogni variante dell’esistenza. La voce solitaria del viandante che fin ora si è impressa come inchiostro corvino contro un paesaggio glaciale ora tende la mano a quello sfondo, al sostegno della sua armonia:

“Se venissi con te, accompagneresti i miei canti con il tuo organetto?”

di Alessandro Guarneri

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