De Siderale di Edo Rovito: sogni e riflessioni di un giovane cantautore

Come in The Commitments, il film tratto da un romanzo di Roddy Doyle, tutti almeno una volta, nella propria vasca da bagno, si sono immaginati di farsi intervistare. Edo Rovito ed io abbiamo immaginato di intervistare l’Edoardo della vita precedente, quella in cui era un pescatore libero in un’isola deserta, e non un giovane cantautore esordiente di cui è appena uscito il primo ep, De Siderale. Ma abbiamo comunque parlato di musica.

Com’è nato il tuo ep, ora su Spotify, De Siderale?

L’ep è un progetto che mi porto avanti da quando ho 15 anni, l’età in cui ho iniziato a scrivere canzoni. Vento nel 2010, Eterno nel 2016, Gaia e l’universo nel 2018. Oltre il mare e Viola le ho scritte nell’ultimo anno. Ovviamente nel corso degli anni si può tornare sui testi e modificarli prima della registrazione. Ci sono aspetti che nel tempo ho limato e scolpito in maniere differenti.

Quali sono i tuoi modelli nella musica italiana?

Non userei il termine “modello”, ma spunto. Non si tratta, nel mio caso, di attingere coscientemente da un artista, ma più di venire condizionato dai propri ascolti e quindi ritrovare nella propria musica delle tracce di ciò che ascolti. A me piace pensare che scrivere canzoni sia come rielaborare: a livello musicale probabilmente tutto è stato già fatto, e quando si produce arte si rielabora sempre e comunque ciò che già esiste. I miei ascolti li ho raccolti anche su Spotify in una playlist dedicata, in cui ci sono 42 canzoni per me quasi sacre: da Rancore a Jimi Hendrix passando per i The Clash e Luigi Tenco. Dovendo fare un podio personale, come italiani sceglierei Battiato, De André e Rino Gaetano. Sono secondo me i più grandi di tutti e gli autori a cui sono più affezionato. Nella musica straniera, però, non riesco a scegliere, sarebbero troppi.

Nella tua vita personale invece ci sono state figure che ti hanno aiutato a scoprire la musica e a realizzare che era la tua dimensione, ispirandoti a livello umano?

La prima interazione che ho avuto con la scrittura di canzoni e con il mondo del cantautorato è stata con Alessio Lega, che mi ha motivato e mi ha fatto suonare ad alcuni suoi concerti. Un’altra fonte per me è stata mia sorella, che avendo qualche anno in più mi ha fatto scoprire già da bambino un mondo di ascolti: i Placebo, i Franz Ferdinand, i Led Zeppelin, i Pink Floyd.  

Secondo te, al giorno d’oggi, nella crisi culturale contemporanea, qual è il ruolo del cantautore?

Il ruolo di qualsiasi artista oggi giorno – oltre a comunicare ciò che ha dentro, imprimendolo e manifestandolo nel mondo – è di essere una forma di rottura nei confronti di questo stato delle cose. Dal mio punto di vista un artista dovrebbe essere questo. Un artista dovrebbe porsi come critica allo stato delle cose, dovrebbe essere imprescindibile. Purtroppo non è così perché questo moribondo gigante Capitalista è onnivoro e affamato e si nutre di forme d’arte che arte non sono, ma che vendono.

Quando prima ti ho chiesto quali fossero i cantanti che più apprezzi e più ti hanno ispirato mi hai nominato solo artisti del passato. Ci sono autori contemporanei che stimi e che pensi facciano ciò che auspichi tu, e quindi rendendosi di rottura rispetto alla crisi culturale della società attuale?

Sì. Io ho una venerazione per la scrittura e la musica di Rancore e Brunori Sas, che hanno scritto e scrivono canzoni incredibili. Quindi tutto ciò non è morto, non è finito. Esiste una musica ancora capace di veicolare contenuti.

Cosa pensi dei talent show?

Sono un tritacarne. In Eterno alla fine della prima strofa ne parlo apertamente: «E non capisco bene / Chi se ne va a cantare / Davanti a tipi illustri / Che stanno a giudicare / Come in un tribunale». C’è tutta una corrente che porta la musica su un piano gretto, basso. Basse frequenze, bassi contenuti. È una mercificazione in cui ragazzi bravissimi finiscono dentro un tritacarne.

Per te la musica ha un ruolo politico?

Sì, ha anche un ruolo politico. A dire il vero, però, io ho un’avversione per il termine “politico”, che mi rimanda alla gestione dall’alto dello stato e del governo, e non alla dimensione umana del popolo. È una mia lettura del termine, che riguarda proprio il mio lessico. Io penso purtroppo che ormai il popolo non faccia più politica, perché si limita solo a votare. Ho scritto una canzone che sto attualmente registrando su questo tema, si chiama Respiro. Il mio scrivere canzoni ha proprio due scopi precisi: emozionare, se riesco, le emozioni sono un aspetto importante della vita, e alimentare il fuoco di dissenso sacrosanto che ha bisogno di voce e spazio. Come dice Calvino nelle Città invisibili, «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Nei brani di questo EP ti sembra di aver affrontato questo tema?

Un po’ in Eterno. Però ho voluto dividere il progetto tra esaltazione della bellezza e critica di aspetti disfunzionali. Tutto l’ep ha a che fare con il tema del desiderio. Desiderare deriva etimologicamente dalla composizione della particella privativa “de” con il termine latino sidus, sideris (plurale sidera), che significa stella. Dunque “desidera”, da cui “desiderio”, significherebbe, letteralmente, “condizione in cui sono assenti le stelle”. È Massimo Recalcati a citare Giulio Cesare e l’etimologia della parola desiderio: viene da ‘desiderantes’, ossia i guerrieri che, dopo la battaglia, aspettavano il ritorno dei loro compagni contemplando il cielo stellato. Quindi dobbiamo a Giulio Cesare questo termine, o al suo ghost writer, che era bravissimo. È il desiderio a muovere il mondo e dare un senso alla vita, e nella vita, secondo me, l’obiettivo è diventare sé stessi e trovare l’armonia con il mondo e la propria anima.

Proprio una tua canzone parla dell’anima, ed è anzi una lettera che la tua anima ti scrive, e che parla anche del diventare davvero sé stessi

Ha preso forma scrivendola, inizialmente non sapevo che avrebbe assunto una forma epistolare. Mi viene in mente la metafora della carrozza del filosofo Georges Ivanovic Gurdjieff: la carrozza rappresenta il nostro corpo; i cavalli sono le emozioni, con un polo negativo e un polo positivo; il cocchiere raffigura la mente, la parte cosciente che cerca di trainare la carrozza; il passeggero è la nostra anima. La carrozza va sempre, non si ferma, non fa pause, e noi nel mentre non riusciamo facilmente a parlare con il passeggero, dobbiamo trovare dei modi per riuscirci, ma non parla la nostra stessa lingua. Noi siamo tutto questo, e l’arte è secondo me il modo più potente di comunicare con il proprio passeggero.

di Francesca Fulghesu

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