Il mangime del corpo 

Tecniche teatrali di riappropriazione del Sé 

Quanto è complesso comunicare nel XXI secolo? 

L’era dell’umanità digitalizzata e dell’individualismo dettato dal post-pandemia ha fatto perdere agli umani la connessione con loro stessi ma soprattutto con la collettività, l’umana esperienza che noi tutti condividiamo. 

Solidarietà: Si tratta di aggregarsi ad altri per completarsi e favorirsi reciprocamente rimanendo uniti, trarre nutrimento per la propria anima dal flusso imperituro della collettività. 

In questo mondo di mis-comunicazione e assenza di solidarietà esiste un luogo di dialogo d’anime che si chiama teatro. 

Secondo la Treccani, il teatro è un edificio costruito e attrezzato per ospitare la rappresentazione di opere drammatiche o anche spettacoli di altro genere, ma è anche lo spettacolo a cui si assiste.   

È un’arte: complessa, profonda, infinita. 

In senso figurato, infine, il teatro è il luogo dove avviene un fatto e, in questo caso, il fatto è che il teatro fa bene all’anima. Fare teatro può essere un tramite per approfondire la propria conoscenza e ci permette di esplorare le nostre potenzialità in una maniera che magari non pensavamo mai nemmeno di immaginare. 

È un viaggio, lungo il quale l’Io si arricchisce di nuove sfumature e significati, che noi viviamo attraverso i personaggi. Nutrire e curare l’anima attraverso un non-Noi che ci guida nella sperimentazione. 

Quando si fa teatro, non necessariamente a livello recitativo ma anche solo per divertirsi, per giocare (e in questo l’inglese ci viene in aiuto: play è anche la rappresentazione teatrale), possiamo essere chi vogliamo, vestire qualsiasi panno, anche quelli che magari ci stanno scomodi. 

L’esplorazione nel vestito sicuro del personaggio ci permette di vedere e sperimentare parti di noi in maniera protetta, in assenza di giudizio. 

Teatro è anche uno spazio privo di pericoli, dunque.  

 «Il teatro è questo: l’arte di vedere noi stessi!», Augusto Boal, regista teatrale e scrittore brasiliano.  

Il teatro amplifica la sua valenza terapeutica nei casi in cui, per un qualche motivo, la comunicazione si interrompe e diventa difficoltoso intravedere l’Io. Si tratta delle situazioni di disagio emotivo, di disturbi psichiatrici che sempre più affliggono le persone, anche frutto dell’epoca moderna. 

Qui avviene la magia: il teatro si trasforma e diventa un punto di incontro, trasformando la persona e la propria realtà attraverso l’utilizzo del personaggio. Lo spazio e il tempo si annullano nel qui ed ora teatrale e tutte le dimensioni fondono i propri confini. La possibilità di esplorazione in ambito protetto consente alla persona di essere considerata ancora prima della malattia. 

Poter interpretare un personaggio, essere qualcun altro in maniera sicura ma comunque al di fuori della comfort zone vuol dire accogliere le diverse sfaccettature dell’Io che emergono, poterle osservare non giudicandole trasformandole in qualcosa di meno spaventoso. Si tratta di dare vita a parti nascoste, rimosse perché dolorose o troppo terrificanti, ma in un luogo dove tutto è possibile perché nessuno giudica.  

In questo spazio scenico, grazie al deus ex machina Jacob Levi Moreno (teatrante, psichiatra e inventore dello psicodramma), fa la sua comparsa la teatroterapia. 

Il teatro racconta le fragilità di ogni persona ma soprattutto di quelle che soffrono di disagio psichico; lo scopo della teatroterapia è il nutrimento dell’anima, ossia favorire il percorso di crescita e di superamento della malattia delle persone che ne soffrono. 

Il paziente è il protagonista e, diretto dal terapeuta-regista, esplora il suo mondo e quello dell’altro, concentrandosi sull’improvvisazione e sulla presenza del momento.

Il teatro terapeutico, perciò, diventa della spontaneità e della coralità.  

Il punto di partenza del nutrimento è il corpo. Il corpo è uno strumento di relazione con noi stessi e con gli altri attraverso il quale noi comunichiamo con il mondo. 

Partendo dalla concezione psicosomatica per la quale corpo e mente sono collegati, nutrire il corpo significa crescere e svilupparsi e l’obiettivo di creare l’armonia tra le due parti favorisce la crescita della persona.

Nel copione della teatroterapia, il linguaggio del corpo è dunque metafora dell’essere e dell’affermazione del Sé.

Il teatro è un luogo sicuro in cui poter essere sé stessi e potersi esprimere senza mettere a rischio la propria autostima e senza giudizio. 

I dialoghi interiori che sono parte dell’individuo e che avvengono tra i diversi personaggi entrano in scena nello spazio terapeutico teatrale.  

È uno spazio magico, una nuova dimensione artistica nella quale avviene il processo psicoterapeutico della conoscenza di Sé in ambito protetto. È così che la mente inizia a sentire, e si riattivano i meccanismi di riappropriazione della propria persona, partendo da ciò che gli è più stretto, ossia il corpo. 

Il meccanismo terapeutico si attiva quando ci si allontana dalla routine e si attiva il nostro corpo attraverso i cinque sensi che il corpo ci mette a disposizione. Il teatro è quindi un veicolo di un movimento che comprende tutto l’essere e che innesca meccanismi in grado di comprendere ogni sistema della persona. Lo scopo della teatroterapia è dunque quello di rendere l’attore-paziente consapevole di sé stesso attraverso una crescita umana. 

 

Il teatro come strumento terapeutico nell’ambito della salute mentale ha quindi l’obiettivo della crescita della persona, della comunicazione delle proprie emozioni e di educare a un migliore rapporto con sé stessi e con gli altri. Il teatro diventa dunque luogo di scambio e di ridefinizione degli spazi, in cui le persone possono incontrarsi, sperimentarsi, ma soprattutto comunicare. 

Ogni essere umano ha il diritto di essere parte di un mondo e il teatro rielabora il concetto di persona, con-fondendo i piani di realtà e supportando le complessità, i diritti e la dignità. 

Il linguaggio della creatività è comprensibile a tutti e il suo utilizzo come forma comunicativa permette la creazione di connessioni, interne ed esterne, che restituiscono dignità e valore alla persona che magari per anni ha recitato la parte dello scemo del villaggio. 

Nel teatro i pazienti sono attori, persone poliedriche da considerare come tali e non come un insieme di sintomi, e questo consente di attivare cambiamenti individuali, ma anche sociali volendo un po’ ingrandire l’occhio di bue. 

Al di là della condizione personale, la recita è infatti anche una sorta di rito ed esso cresce all’interno della persona e si espande al di fuori, all’energia delle diverse persone che la compongono e quindi costruisce una rete, dei rapporti collettivi destinati a modificare radicalmente la struttura di ciò che ne fa parte. 

Ed è dunque finita la prima. Tutte le tecniche, gli attori, le persone, le emozioni, le pratiche, la fatica, vanno in scena. Gli spettatori diventano parte del processo di cambiamento, gli attori, ormai non più pazienti, si inchinano, gli applausi scrosciano e il sipario si chiude. Il senso dell’Io dell’attore si è rafforzato, l’autostima è alle stelle, il paziente è una persona ora, non più un malato o un emarginato. 

Il pubblico ha assistito a una performance, la trasformazione di un individuo all’interno di un contesto magico, e si responsabilizza attivamente per far sì che la persona che soffre di disagio psichico continui a essere considerata tale e non solo un matto. 

La salute mentale in scena in teatro diventa quindi una questione che può raggiungere chiunque, l’intera società, che si fa così comunità attiva e partecipante nel cambiamento del singolo. 

In questo modo, oltre a cambiare la persona, si modifica anche il copione, ossia la modalità in cui la società si approccia al disagio psichico, in uno scambio continuo in grado di portare nutrimento sia alla persona che alla collettività. 

di Stefania Alghisi 

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