Rivoluzione o insurrezione?

Ovvero del furore razionale




«Quando la moltitudine ingiustamente oppressa, tratta dall’ira e spinta dal furore, si delibera a vendicare gli oltraggi ricevuti subito ne nasce la democrazia»[1]. Così scriveva Tommaso Garzoni, famoso intellettuale del Cinquecento, esprimendo un’idea che trova e ha sempre trovato un largo consenso. L’idea cioè che i grandi cambiamenti sociali siano l’esito di un’esplosione di rabbia popolare incontrollata e incontrollabile.

Indignazione, malcontento, ira, furia… Un crescendo di sentimenti che portano alla ribellione violenta, allo scontro frontale con lo statu quo, al suo abbattimento.

Un’idea che, come abbiamo detto, ha trovato e trova largo consenso. Che è, si potrebbe dire, perfino di senso comune. Indignatevi!, ingiungeva non a caso Stéphane Hessel qualche anno fa, in un pamphlet che ha riscosso non poco successo.

Ma cosa c’è dietro quest’opinione? Da cosa nasce l’idea che la ribellione scaturisca dalla rabbia, dal furore?

A voler rispondere in modo tranchant, e con un certo gusto per la provocazione, si potrebbe rispondere che c’è il timore tutto aristocratico nei confronti di ciò che non si capisce e, quindi, che non si controlla. Forze demoniache si agitano nel sottosuolo della società, e sono pronte a erompere con violenza portando morte e distruzione in ogni dove. Questo è l’incubo che ossessiona, e ben si capisce, i sonni dei ceti dominanti di ogni epoca. Che i subalterni – la common people, come la chiamavano i ricchi parlamentari e i lord inglesi del Seicento che muovevano guerra a Carlo I, il populace come diranno invece i borghesi in Francia centocinquant’anni dopo mentre si apprestavano a tagliare la testa a Robespierre e ai suoi – osino sollevarsi, rifiutino di stare al “loro” posto, pretendano di sostituirsi ai “grandi”, ai “migliori”, a chi avrebbe l’indiscutibile onore e onere di governare. Una paura che, per altro, serpeggia anche nella nostra società, nonostante si riempia la bocca con la parola “democrazia” e con la frase che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali»[2].

Ebbene, come spesso accade con le idee che divengono moneta corrente, anche questa è sostanzialmente falsa. Non che non ci sia un aspetto emozionale legato alla lotta politica, ma chi volesse ridurre quest’ultima alla tacitiana ira et studio compirebbe un grave errore. L’errore cioè di confondere la trasformazione sociale con l’atto insurrezionale in sé, la rivoluzione con la presa della Bastiglia o del palazzo d’Inverno. Ma la rivoluzione è essenzialmente un processo. Un processo dialettico, comprensibile solo se ci si dota di uno sguardo capace di cogliere la particolare struttura ontologica della temporalità.



Benjamin, nelle sue note sulla storia, parlando della rivoluzione ebbe modo di descriverla come un «compendio storico accelerato»[3]. L’espressione è più che appropriata. Da una parte il passato, un cumulo di macerie che si ammassa ai nostri piedi. Dall’altro una virtualità di possibili futuri, dei quali uno solo si realizzerà. In mezzo il presente, un “buco bianco” che presentifica ciò che fu in funzione di ciò che verrà.

Presentifica, e non attualizza. La «presentificazione – come scrive Tomba – è l’opposto della sua attualizzazione. Quest’ultima tende a cancellare le differenze e le rotture storiche, mentre la presentificazione riapre nell’attimo di una lotta presente la possibilità di dare un’altra storia al corso della modernizzazione capitalistica»[4].

Il presente quindi, come il passato, non giace inerte, ma viene vivificato da un progetto teso verso il futuro. Ciò che verrà non è prevedibile, ma solo profetizzabile. Si può soltanto dire ciò che sarà. O meglio: che sarà a condizione che… I verbi si declinano al futuro ottativo, il futuro del possibile.

In realtà si può prevedere «scientificamente» solo la lotta, ma non i momenti concreti di essa, che non possono non essere risultati di forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili mai a quantità fisse, perché in esse la quantità diventa continuamente qualità. Realmente si «prevede» nella misura in cui si opera, in cui si applica uno sforzo volontario e quindi si contribuisce concretamente a creare il risultato «preveduto». La previsione si rivela quindi non come un atto scientifico di conoscenza, ma come l’espressione astratta dello sforzo che si fa, il modo pratico di creare una volontà collettiva[5].

La peculiare circolarità dei tempi storici è portata alla luce già da Marx, nell’incipit del 18 Brumaio.

La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio[6].

Sul proscenio della storia si aggirano uomini in maschera, in un gioco di travestimenti che rendono comprensibile ciò che altrimenti sarebbe nietzscheanamente mera fattualità. E paradossalmente è proprio nella crisi rivoluzionaria, nell’interruzione della normalità vivificata di un progetto politico radicalmente altro dall’esistente, che più si impone il recupero di ciò che appariva dismesso. Le toghe romane di cui si vestivano i rivoluzionari francesi del 1789, la ribellione di Spartaco nel cui nome i proletari tedeschi tentarono l’assalto al cielo nel 1919…



Ma se gli abiti del passato nascondono, ammantano la vera sostanza della rivoluzione, al tempo stesso pongono le condizioni per un loro disvelamento. La nuova configurazione sociale, che sorge dalle ceneri del passato, può dispiegarsi in tutta la sua peculiarità, sviluppando pienamente le proprie tendenze e controtendenze.

L’Angelus novus rimane imbrigliato dalla bufera che soffia dal Paradiso e, nonostante abbia lo sguardo rivolto alle macerie del passato, viene spinto «inarrestabilmente nel futuro»[7]. La maschera, levatrice del movimento progressivo, può cadere, lo spirito evocato sparire. Al di sotto della sgargiante rappresentazione politica si cela contenuto materiale e sociale della lotta, un contenuto che risolve su un piano più elevato le contraddizioni ereditate dal passato, conservandolo e al tempo stesso superandolo razionalmente[8].

Razionale, cioè è orientato secondo un fine soggettivo. Ma razionale anche nel senso che risponde ai bisogni storici, che permette di sciogliere le contraddizioni oggettive, che sono maturate nella forma della crisi.

Ecco che allora il cerchio si chiude. Ciò che all’inizio appariva come l’irrompere dell’irrazionalità e dell’emozione si rivela, a uno sguardo più attento, nient’altro che la tensione verso un mondo che verrà.

Note
[1] A. Barbero, Democrazia… un viaggio nei secoli, «La città possibile», n. 34, 2018, p. 20.
[2] Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1789, art. I.
[3] W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, p. 49.
[4] M. Tomba, Strati di tempo. Karl Marx materialista storico, Jaca Book, Milano 2011, p. 10.
[5] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, Q11, §15, p. 1403.
[6] K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, trad. di P. Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 44-45.
[7] W. Benjamin, op. cit., p. 37.
[8] Quando non è così, quando allo spirito si sostituisce lo spettro del passato, si annunciano tempi bui. La soluzione della crisi avviene infatti in senso regressivo, l’essenza delle contraddizioni resta inalterata: «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (A. Gramsci, op. cit., Q3, §34, p. 311).

di Simone Coletto

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Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.