L’immaginazione di fronte alla pandemia



In viaggio tra Phnom Penh e Koh Rong, lungo la strada asfaltata a stento che connette Sihanoukville alla capitale, si snoda come un serpente in mezzo alla campagna cambogiana una umanità che da tempo era impensabile poter incontrare. Come ospiti grati della natura attorno alla via che conduce al mare e alle isole, cercano di sopravvivere i contadini che affollano a decine i camion di ritorno dalle risaie, le donne che offrono dal finestrino pezzi di durian macilento e i venditori di mango e frutta secca sulle bancarelle di legno ai lati della strada. Nel tardo pomeriggio del primo giorno di viaggio, il monsone è annunciato dal gesto di un giovane monaco, che, ironicamente, si solleva la tunica per verificare da che parte spiri il vento. Liberatoria, ogni giorno sarebbe poi caduta la pioggia, ad alleviare il calore e la secchezza diurna. Il tuono che accompagna il monsone non è spaventoso o terribile, ma è risolutivo rispetto a tutta la tensione accumulata a terra e accolto con un certo entusiasmo.



Dopo due anni di pandemia era necessario introdurre nell’esistenza una deviazione che permettesse di riprendere la vita là dove era stata maggiormente danneggiata. Le chiusure a singhiozzo, le costrizioni e le limitazioni a carattere sanitario hanno danneggiato primariamente una facoltà dell’anima: l’immaginazione. I danni economici e sociali, ma soprattutto la manipolazione dei limiti spaziali e temporali attraverso i vari decreti che hanno interessato principalmente il corpo e la sua possibilità di movimento, hanno comportato delle ferite non facilmente sanabili alla salute psichica, minacciando la libertà di espansione, non solo nel mondo fisico, ma anche nel giardino interiore di ognuno, là dove si coltivano le proprie immagini.

Le persone si sono ritrovate a dover vivere a una sola dimensione. Il corpo da mantenere in salute, avvicinandosi alla comprensione dei vissuti di chi esperisce quotidianamente intense limitazioni della libertà personale, come i profughi e i carcerati. Il corpo si è fatto carico di tutte le immagini che non hanno potuto espandersi a livello psichico, con il conseguente aumento di patologie organiche e metaboliche, frutto di una contrazione e di un collasso delle immagini sul polo somatico. Più che depressi, si è stati disperati. Èvenuta a mancarela speranza, la possibilità di poter coltivare una tensione verso una meta, non per forza concretistica, nel proprio panorama psichico. Si è interrotto così il consueto legame tra soggetto e immaginale, lasciandoci privi di quella fede e fiducia nel proprio mondo interiore, una pistis delle immagini, che è fondamentale per garantire un certo equilibrio alla vita psichica. Forse la più delicata, e per questo maggiormente ferita, è stata l’immaginazione d’amore. Le numerose coppie che sono implose o che hanno fatto esperienza di crisi profonda durante la pandemia hanno pagato sulla loro pelle il deficit di immagini.

Come ricorda Hillman, «quando ci si innamora si riprende a immaginare» e il cuore funge da laboratorio di questa trasformazione alchemica, che ha un terribile corollario: se malauguratamente si interrompono le sorgenti dell’immaginazione, l’amore finisce. Ha trionfato invece il sottoprodotto della facoltà di immaginazione, l’immaginario di paura e morte connesso alla malattia che ha colonizzato le fantasie attraverso il suo alto grado di intensità emotiva da shock e le strategie comunicative dei mass media. Per distinguere le varie forme attraverso cui l’immagine si presenta giunge in aiuto Henry Corbin, che sottolinea come immaginario indichi «qualcosa che indica ciò che rimane estraneo all’essere e all’esistente», in opposizione al vero regno delle immagini dotate di una propria consistenza e realtà autonoma ma che è visitabile da ognuno di noi personalmente. Attraverso la diffusione delle immagini dei telegiornali, dei grafici e delle statistiche di malattia, degli ospedali, si è attuata una vera e propria iconoclastia dell’interiorità a cui è seguita una sostituzione con immagini decise da altri e dall’alto, che si sono introdotte, analogamente al virus, egemonizzando memoria, fantasia e progettualità.

La disperazione durante la pandemia non era connessa al divieto di immaginazione, ma in misura più subdola a una perversione e alla messa in dubbio della possibilità dell’anima di poter coltivare le sue immagini. È stato sufficiente spostare in maniera imprevedibile scadenze dei termini delle chiusure e variare le modalità di contatto e di incontro con i propri affetti per far sì che la possibilità di espandere le immagini della propria interiorità venisse meno. In genere l’immaginazione resiste alle privazioni attraverso compensazioni, che invece la esaltano. I soldati in guerra riempiono i diari di possibilità e immagini del ritorno a casa, i sopravvissuti a catastrofi rielaborano i traumi attraverso narrazioni, ribadendo la memoria; ma durante la pandemia l’immaginazione è stata attaccata da due fronti, incertezza del tempo e dello spazio contemporaneamente, facendola collassare.

Tra i farmaci possibili per sanare le ferite inferte dalle compressioni e distorsioni spaziali e temporali subite vi è la riattivazione delle dimensioni archetipiche che permettono a ogni individualità di riappropriarsi delle proprie immagini, attraverso la musica, l’amore, i libri, ricercando attivamente l’entusiasmo, l’invasamento delle immagini dentro di sé. Considerati i danni da limitazione spaziale e temporale forse la cura più efficace la offrono tutte quelle attività che ricadono sotto lo sguardo benevolo del dio dei confini e della libera possibilità di movimento tra mondi superi e inferi. Tra le tante attività mercuriali dell’anima è forse il viaggio a rappresentare l’antidoto più efficace, permettendo il passaggio, simbolico e non, da un luogo a un altro e la conseguente possibilità ermeneutica di non essere vincolati alla datità e alla letteralità dell’esperienza.Solo dopo aver praticato nuovamente l’immaginazione, rinsaldando il legame fra sé stessi e il mondo delle immagini, al termine del viaggio, è stato possibile avvicinarsi alla meta, celata nella foresta, tanto desiderata: Angkor Wat e il suo sterminato complesso di templi, carichi di memoria e di un passato che si può solo intuire attraverso le rovine invase dalla natura. Con l’immaginazione i fuochi nei templi si riaccendono, i corridoi a forma di croce sono di nuovo abitati dai monaci e i visitatori in viaggio vengono ospitati. L’influenza vedica, la sua commistione con la cultura Khmer, l’influenza del buddhismo sull’induismo preesistente possono essere avvertite solo attraverso uno sforzo attivo ma necessario della facoltà immaginativa, che supera le incertezze storiografiche. Tutto il complesso architettonico funge da testimone di questa corrispondenza fra il regno delle immagini archetipiche e la loro realizzazione umana. La costruzione di un tempio-montagna che rappresentasse il monte Meru, con i cinque picchi e il fossato attorno come l’oceano, ribadisce che ogni opera esiste perché qualcuno l’ha immaginata, ma solo se sussiste un profondo rispetto del legame tra forme archetipiche e creazione terrena, tra macrocosmo e microcosmo. Anche le numerose statue di Buddha saccheggiate e decapitate a scopo di lucro paradossalmente elicitano questa operazione di ricostruzione tramite l’immagine all’interno di sé: ciò che manca deve essere colmato dalla nostra capacità visionaria: un uso sacro, di nuovo, della immaginazione.

Solo dopo aver praticato nuovamente l’immaginazione, rinsaldando il legame fra sé stessi e il mondo delle immagini, al termine del viaggio, è stato possibile avvicinarsi alla meta, celata nella foresta, tanto desiderata: Angkor Wat e il suo sterminato complesso di templi, carichi di memoria e di un passato che si può solo intuire attraverso le rovine invase dalla natura. Con l’immaginazione i fuochi nei templi si riaccendono, i corridoi a forma di croce sono di nuovo abitati dai monaci e i visitatori in viaggio vengono ospitati. L’influenza vedica, la sua commistione con la cultura Khmer, l’influenza del buddhismo sull’induismo preesistente possono essere avvertite solo attraverso uno sforzo attivo ma necessario della facoltà immaginativa, che supera le incertezze storiografiche. Tutto il complesso architettonico funge da testimone di questa corrispondenza fra il regno delle immagini archetipiche e la loro realizzazione umana. La costruzione di un tempio-montagna che rappresentasse il monte Meru, con i cinque picchi e il fossato attorno come l’oceano, ribadisce che ogni opera esiste perché qualcuno l’ha immaginata, ma solo se sussiste un profondo rispetto del legame tra forme archetipiche e creazione terrena, tra macrocosmo e microcosmo. Anche le numerose statue di Buddha saccheggiate e decapitate a scopo di lucro paradossalmente elicitano questa operazione di ricostruzione tramite l’immagine all’interno di sé: ciò che manca deve essere colmato dalla nostra capacità visionaria: un uso sacro, di nuovo, della immaginazione.

Bibliografia
R. Calasso, L’ardore, Adelphi.
H Corbin, Corpo spirituale e Terra celeste, Adelphi.
J. Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi.
P. Loti, Un pellegrino ad Angkor, O barra O edizioni.

di Alessandro Gabetta

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