OBLAKA – I racconti del realismo magico – Capitolo VII


Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)

oblaka

– La mia regina alla rovescia –

– Neanche per uno?

– Signore, un tavolo tutto per lei, lo vede…

Solo tavoli rotondi, da almeno sei posti. Tovaglie bianche fanno boccacce a terra, tovaglioli bianchi arricciano il naso in geometria, piatti bianchi spalancano la bocca fino alle orecchie d’argento, occhi di cristallo per ciascun posto, vicini e strabici.

– Ho capito. Mulţumesc.

– La revedere!

Prima di uscire dal ristorante del Teatro Elisabeta, un valzer controcorrente di reduci dalle nozze del piano di sopra. Passa una dama con le ruote: mano al fianco, l’altra sulla spalla e almeno spumante e tartina li si porta a casa. Posata la ballerina nello stomaco, esco. Il bulevardul non ha pubblico, la notte deride ogni fiducia sul calore accumulato.

Il capo se ne va, il capo se ne va!”, si gridava quasi un secolo prima a Eliade, in partenza da Bucarest per Calcutta. Io in India ci sono già stato l’anno scorso. Adesso è la Romania che sortisce un fascino a ritroso, nato nella lettura, raggiunto con la perdita. Perdersi altrove, strappandosi dalla tasca interna l’agenda, che il segnapagina si impigli magari nel cuore e sradichi tutto, per quattro giorni minimo.

Le luci del Grădina Cișmigiu cadono una per volta, come i denti bianchi di un bambino, lasciando il parco in una scura carie che mugugna sul cuscino di ghiaccio. Il cancello è aperto, entro nella piccola Transilvania, faccio da scudiero al Principe Vlad. Dietro un grande orologio il parco stiracchia un largo viale che imbarca neve. Ai suoi lati, oltre pini sordi al rompere le righe, quelle carie fecondano forme di giochi per bambini, chioschi chiusi, panchine in diaspora.

Mi spingo più in là e al di là del viale, logica e scopi mi tolgono il saluto, un gatto m’ignora. Per vendetta gli do retta, noto il suo ventre bianco sotto il pelo della notte. Pianta le orecchie verso il cielo non appena comincia l’inchiesta. Trotterella subito verso chissadove, anzi, come mi provo a imitarlo fa un test. Gira a sinistra, giro a sinistra… è un inseguimento per davvero.

Zompetta per non farsi seminare, se la vuole proprio godere la scena di quest’umano che incespica sui cristalli di Boemia dell’inverno. Hop!… destra. Hop!… sinistra. Hop!… vicolo cieco. O presunto tale. Almeno la certezza post-goffaggine del boia per averlo incastrato stravolgerà la serata in puro cabaret. Qualche fermo istante da Sergio Leone in mezzo ai tavolini del chiosco, poi il cugino del leone va dietro le quinte. Salgo sul palco e mi ritrovo sopra uno dei tavolini. Guardo in basso e vedo incisa una scacchiera. Arrocco i piedi, il ghiaccio mi fa matto alla prima mossa…

Mi risveglio e la testa non fa male.

Mi risveglio seduto su una di quattro rocce-panchina e la testa non fa male, l’altra a destra è vuota, quella a sinistra piena di neve, quella di fronte piena di carne. Piena, oddio… saranno nemmeno sessanta chili, più mezzo chilo di barba. Più anni che chili, questo è certo, e se raddoppio i suoi denti in bocca rimangono sicuro più anni e anche più chili.

– Prego!

Mi invita a fare una scelta fra una ventina disponibili, ma i pezzi non c’erano prima, ci potrei giurare. E se invece ci fossi scivolato sopra?

– Non tocca a me…

Mormora in me qualcuno che ha la mia voce ma non i miei pensieri, nascosto dietro il plotone dei neri.

– Tutto al rovescio, ragazzo. Non vedi che siamo storti?

La casella nera in basso a destra m’innervosisce come sulle macchine altrui che ci mettiamo due ore ad azionare il tergicristallo.

– Sediamoci sul lato giusto.

Propone in me qualcuno che ha la mia voce ma non i miei occhi.

– Ragazzo, vuoi sederti tu sul divano di neve, allora?

Impugno il pedone e apro di due la porta alla regina, regina nera su casella bianca, yin-yang fastidioso, irriverente, come quel gatto nero dalla panza immacolata.

– Le ho regalato una pietra, una volta.

– A chi?

– A lei…

– Ah, – annuisce il vecchio, – lei…

– Ametista nera, con una goccia bianca sul fondo.

– La tua regina!

– La mia regina alla rovescia.

– “Chi è tutt’uno con la perdita, ottiene ciò che ha perso”…

– Non mi farai matto anche tu alla prima mossa?

– Meglio ancora! Ho già vinto…

Mi risveglio e la testa fa male.

Mi risveglio e la testa poggia sul morbido, e fa male. Il cuscino è bianco come la neve, il lenzuolo è steso come il ghiaccio. Sopra o sotto di me? Obitorio o camera d’albergo? Sopra o sotto, sopra o sotto… guarda, svelto!

Camera d’albergo. Spreco d’abat-jour. Io sto nell’armadio. Ma perché lo mettono sempre là lo specchio?… “Hotel Zeus Venezia”, a me hanno messo nel posto giusto, in compenso. Polizia? Non credo. Un passante? Il badge della stanza non ha il nome sopra, nessuno può aver indovinato l’albergo. E poi chi soccorre un italiano riverso su un tavolino-scacchiera nel mezzo di un parco romeno deserto in piena notte?

Benissimo. A questo punto, oltre a me, rimane un solo indiziato… sono io. Mi sarò alzato, mi sarò scrollato dal cappotto i denti del bambino, avrò feso le carie della notte e sarò tornato in camera. E io, dove sono stato nel frattempo? A giocare con un vecchio, forse? Il capo se ne va… e senza di me chissà cos’avrei potuto fare! Uccidere. Squartare. Comprare un gratta e vinci. E senza nessuna colpa… non c’ero! Sentimenti altrove, sogni altrove, passioni altrove, Liszt altrove…

Liszt altrove?… Già, la rapsodia. È qui, in sottofondo, ma da quanto? Da che mi sono svegliato, credo. Me ne accorgo solo ora. Eh, che non amo la musica, forse? Altro che sentimenti altrove! Quindi,ricapitolando: mi sono rialzato da quel cazzo di scacchiera-tavolino, sono uscito da quel fottuto parco portando con me corpo, neve e sentimenti, sono entrato in camera, ho messo la musica, mi sono sdraiato e prima di addormentarmi ho fatto una grassa risata per quello stupido rimasto a buscarsi un sacco di freddo mentre perde a scacchi contro un vecchio, alla prima mossa poi!

E la musica è sempre stata qui, dunque, qui con me. Non con lui, con me. L’ho persa restando con lei. Voglio perdere così anche la mia ametista. E quindi: devo ritrovarla…

[***]

Non c’è posto sulla terra con più avvistamenti ufo del Bajkal. Sfido, qui gli oggetti poco identificati non si limitano a volare. Io stesso ne ho visti moltissimi. Giuro che la mia nave sfilava sbalordita sul mercurio, e di fianco a noi un enorme tagliacarte galleggiante affondava nel velluto.

Abbiamo avvistato un’asola di cuoio che addorsandosi invecchiava mentre il vento conciava le sue rughe. Il lago stava a sinistra, poi a destra e io non ci capivo niente ma camminavo. Avevano sepolto dei gatti sotto la sabbia, che per la paura un cadavere si è riesumato, le gambe colavano segatura dai jeans. Per la scena, una barca decomposta ha persino vomitato riversa sul fianco.

C’erano pagine di colline, valli rilegate fra ali implumi di segnalibri sotto la torcia meridiana di un lettore accanito. Quando si addottora indossa guanti grigi e può affondare le mani fra le cosce dell’acqua dolce per farla partorire, e d’improvviso piovono vagiti, le gocce bucano di verde il letto, forano le lenzuola del deserto e gli ufo si infrattano nelle tane. Se non ne sapessi nulla non avrei paura, se fossi al corrente di tutto nemmeno. Ma da filosofo congetturo su quei buchi nella terra e l’immaginazione rabbrividisce.

Cambio strada. Seguo gli uccelli-dentifricio che volano solo quando un bambino maleducato gli strizza la pancia, e questi sputano fuori i ciottoli con le ali che rimbalzano sul pelo dei fiori, facendo scattare le trappole delle libellule che mi zampillano sui piedi. Pesto anche delle molle che rimbalzano e cicaleggiano scontente in cerca di fronde.

Assisto a un’ecatombe, fra ossa rotte, zanne di legno e corna sempreverdi, mentre un San Sebastiano sdraiato al suolo muore all’ombra delle foglie che impennano le frecce di conifere confitte nel suo corpo, mentre le radici hanno il tempo di raggiungere il suo cuore nella lenta agonia degna di suo fratello Bhisma. Il suo mugugno si leva su prestito del sarma, del sospiro di Penzias e Wilson in fondo all’universo.

Chino il capo per rispetto, i miei occhi collezionano le conchiglie arbuste senza più pinoli esposte ormai solo dietro la tela delle iridi. Schivo rami afflosciati di fontane lignee ghiacciate, di banane troppo mature semisbucciate, e tornano gli ufo veri e propri, quelli che volano. Sono boomerang col becco, fra cespugli-colbacco, non si resiste e io scappo!

Divento Eracle tre o più volte, ma l’ultimo bivio cosparso di squame di pesce fatte di pietra mi smarrisce del tutto. Cerco in cielo la stella polare, ma lassù si legge fino a tardi e sul palmo della collina le mucche in formazione Cassiopea rilasciano feci che affrontano i secoli per trasformarsi in rospi imbalsamati.

Cerco il muschio sugli alberi ma gli ufo hanno disboscato per costruire izba volanti. Al loro posto cereali e martelletti di felce che suonano un notturno sull’intera ottava, fra tasti neri di cormorani-yin e quelli bianchi di gabbiani-yang. Mi arrendo. Vado a destra, percorro la pancia della “d” e ritrovo la prima opzione. Mi fermo perplesso. Una dentiera di alberi sorride perché la mia mente a retino va ormai disperata in caccia di metafarfalle.

Finisce che a venir catturato è il mio cervello, con la testa immersa in un sacchetto di plastica. La dentiera mi ha offerto riparo dalla pioggia. I ragni d’acqua mi camminano sul capo convulsi, affamati come una tigre di cellophane, finché ghermito l’insetto dei pensieri questi si fermano poco alla volta, lentamente…

Ribalto postura all’amplesso, il rumore della pioggia si abbassa e riporta in alto tutti gli altri sensi. Ritorna l’odore di merda di resina sudata. Resina di sudore fossile. Poi il rumore di cicale riaccende l’innaffiatoio di strazi mentre chissà che insetti scuotono saliere sull’insalata. Esco cauto, scarto il sacchetto di plastica e lui è lì. Ha rubato il sorriso agli alberi. È il mio ospite.

«Bonjour!».

Il vento smette d’improvviso, solo il legno bagnato scricchiola in sordina.

«Lei! Da quanto tempo mi segue?!».

«Ah! Da tanto…», flauta appoggiato sull’erba umida.

«Non mi interrompa, la prego!», mi sento poco inseriosito a causa del sacchetto in testa, «sono quasi alla fine».

«Del suo gioco?».

«Del nostro».

«Ma io sono impegnato, lo sa».

Mi viene una fame terribile, nello zaino ho un uovo sodo rubato a colazione. Lo picchietto contro il tronco su cui sto seduto, ma non si rompe.

«Giusto, i suoi racconti. Funzionano?». Come fingo bene di prendere con indifferenza l’insuccesso.

«Sono qui appunto per risolvere una questione».

«Una questione», allungo la sua frase e la mia mano verso un sasso per picchiare con più forza.

«Una questione… storica, diciamo», puntualizza indicando alle sue spalle: «Chi ha fatto quella roba?».

Sul prato che avevo percorso per sottrarmi alla pioggia al posto degli schizzi arborei appena più alti del pavimento irsuto vedo una scena confusa, come se una scatola di giochi si fosse aperta per sbaglio e li avesse rovesciati alla rinfusa. Mi alzo in piedi e il caos obbedisce un po’ di più, con la svogliatezza dei bambini quando si lavano le mani solo per andare a tavola.

«Può anche arrampicarsi più in alto, come ho fatto io», consiglia il mio ospite, mettendosi comodo.

C’era un braccio piuttosto accessibile a pochi centimetri dal mio ramo. Mi isso e di fianco al ciocco destro sento un comodo piede di legno che mi tira su di almeno un metro. Mi ero dimenticato dell’uovo, scivola dalle mie mani e cade sull’erba, si squaglia. Dall’alto il caos organizzato è ormai perversione. Noto una spirale di cerchi nel grano bordata da pietre dimensionate in tanti modi, che tracciano un labirinto di facile soluzione. Al centro sta una roccia che guarda il suolo altezzosa, col dorso piatto cosparso di piccole offerte: monete, nastri colorati, bigliettini, fiori.

«Questo è un mistero!», grido dai piani alti.

«Non direi», ribatte calmo il mio ospite, forse sul vantaggio di aver già provato il mio stupore, «ci sono ancora sciamani da queste parti, non lo sa? Vendono souvenir e si fanno fare persino le foto, ma alcune sere si ricordano ancora di questo luogo».

Cercando di scendere vedo un cordoncino rosso appeso al ramo.

«E poi sa», prosegue l’ospite, «il mistero è la ricompensa del nulla…»

«Cosa?».

Non avevo sentito bene.

«Nulla!»

«Mistero…», commento avvicinandomi al cordoncino. «Perché mi ha chiesto allora, se sapeva già», obietto nel frattempo.

«Sono curioso di sapere se lei conosce la principessa Angara», domanda lui e intanto irrequieto cambia spesso posizione.

«Sì, certo. La leggenda del Bajkal», raggiungo il cordoncino con qualche sforzo, «e del principe Enisej».

In fondo a quel filo c’era un pezzetto di stoffa colorata che per via dei nodi del filo rosso prendeva la forma di un uccellino, con tanto di becco.

«Vede questo?», cavo di tasca un nastro azzurro e lo sbandiero, «l’ho preso dalla rocca di Burchan, la dimora della principessa».

«È sacrilegio! Non sa?», sbotta l’ospite alzandosi in piedi.

«Lo restituisco subito infatti!».

Uso il nastro come merce di scambio, annodandolo al ramo e slegandovi al suo posto quel cordoncino. Dopo essermelo girato intorno al collo l’uccellino si strofinava contro il mio petto.

«Oh, ma su Angara circolano un sacco di leggende sbagliate», eccolo che zufola, «conosco io quella originale». Il mio caro ospite si sta imbaldanzendo.

«Come la sa, sentiamo?», avevo giusto voglia di sfidare qualcuno.

«Me l’ha raccontata uno sciamano. Gliel’ho detto che sarei andato a caccia di storie».

Si avvicinava passetti al labirinto, io come uno stupido lo seguo anche.

«Me la racconti, allora. Coraggio!». Sfida aperta ormai, alla pistola, a chi la spara più grossa.

«Prima però mi dica: è riuscito a descriverla?».

«Chi?».

«Avanti! Il motivo per cui è venuto fin qui».

Ecco, tutti i miei progressi come svaporati nell’ultima nuvola rimasta indietro e trafitta dal sole.

«Ci provo. Le mie parole non bastano».

«Ah, tutti gli amanti diventano poeti. Solo i poeti devono stare attenti a non innamorarsi mai», scuote il capo e si risiede per terra.

«Lasci perdere le parole», metto mano alla tasca, la stessa in cui stava l’uovo sodo. Interrompo l’apnea della mia pietra: «Un occhio di tigre, lei ne ha uno uguale. È venuto lui al suo posto. L’ho portato con me nell’acqua, nel Bajkal».

Mentre faccio coincidere la gemma col mio occhio sinistro, il mio ospite allunga le gambe per il gran camminare e sospira.

«Ce li ha, lì nel suo zaino, foglio e matita?»

«Se vuole… ho la penna», sorrido con un occhio solo.

«Touché. La penna. Adesso lei prende tutto: carta, penna, occhi, tigri e fa il suo ultimo ritratto, mentre io le racconto la vera storia di Angara».

Gli spiriti preclari dei buriati, un po’ burini, un po’ infuriati, ci stavano ad ascoltare. L’ombra delle nuvole giocava con le tende e il lago teneva l’isola sulla punta della lingua come una pillola perché si sciogliesse, ma presto avrebbe cambiato strategia, iniziando a ghiacciare.

«È molto semplice, vedrà…».

Rusalka

Al tempo del regno di Bajkal, dopo che gli dèi ebbero scelto l’isola di Olkhon per fissare la loro dimora terrestre, il signore del lago, dal cuore amaro quanto le sue acque erano dolci, guardava con venerazione e sospetto la sua unica figlia, la principessa Angara, per via della sua bellezza.

A differenza delle altre fanciulle e delle ninfe dell’oblast aveva gli occhi scuri, affilati e misteriosi. C’era il legno dei larici in quegli occhi, le foglie della taiga, la sabbia di Olkhon e una punta di sole come nello sguardo della tigre, tutto intorno alle iridi di nevi perenni. Al posto dei capelli, i lunghi crini imbruniti di un roano, fin sotto le spalle morbide più delle onde del lago e toniche come le sue correnti. La curva delle labbra era elegante come il volo di un falco, sempre appena umide come il manto della conifera addolcito dalla bruma.

Una figlia così bella non poteva passare inosservata, allora Bajkal, il signore delle terre del nord, poiché era geloso della propria figlia, decise di rinchiuderla in un luogo sicuro, dentro la rocca di Burchan. Circondata dalle acque vassalle del re, Angara trascorreva qui le sue tristi giornate. La luce dell’inverno rimbalzava pallida sulle pietre della prigione e i suoni della primavera echeggiavano appena fra le sue vuote stanze.

Un giorno però un sibilo anticipò l’arrivo del sarma, il vento siberiano, che presto ululò fra le mura di Burchan terrorizzando la bella Angara. Il vento condusse fino a Olkhon uno stormo di gabbiani, che subito intonarono il loro canto, dapprima stridulo e lamentoso, poi sempre più melodico e denso di significato. Angara gli prestò orecchio e ascoltò così, per la prima volta, la storia delle gesta di Enisej, il principe destinato a trarla in salvo.

Angara venne trapassata da un brivido ed ebbe l’impressione che l’intera rocca di Burchan potesse crollare al solo pronunciare il nome del grande Enisej. Si disperò per l’imminente fine dell’inverno, che in passato così tante volte aveva esacerbato la sua solitudine nel gelo della malinconia, poiché presto si sarebbero sciolti i ghiacci, impedendo a Enisej di attraversare il Bajkal per raggiungerla.

All’improvviso, un clangore d’armi spazzò via il grido degli uccelli e lui comparve, Enisej il forte, con i suoi uomini al seguito. I soldati si disposero lungo la riva del lago in assetto da battaglia e da loro si levò una voce.

Oh potente Bajkal! – esclamò Enisej alla testa dei guerrieri enzechi – Venero il trono dove tu siedi e di cui ti hanno fatto dono gli dèi, ma se non vuoi ch’esso perisca con te, acconsenti ch’io prenda in sposa tua figlia Angara, poiché ne sono innamorato.

Nobile principe! – tuonò Bajkal – Le voci dicono che tu sia l’eroe più grande del regno del nord, ma nel petto di mia figlia vigila il fuoco sacro e lei deve mantenerlo in tutta la sua purezza. Questo è il volere degli dèi, di cui io sono umile suddito.

Oh grande Bajkal, – rispose Enisej – il mio destino è liberare la bella Angara. Ritira le tue acque e fammi passare!

Se tu e i tuoi uomini farete ancora una versta, – minacciò il re – finirete dentro i miei abissi e per voi sarà la fine.

Un plotone di guerrieri, snudato il ferro alla luce del sole sbiadito, si scagliò verso la rocca di Burchan per sfidare la signoria di Bajkal invocando l’aiuto di Eleafam, il grande cetaceo, affinché offrisse loro il dorso per camminare su quelle acque. Essi caddero però tra i flutti vorticosi del lago e di loro non riapparve nemmeno la piuma del cimiero.

Enisej rimase atterrito, poi osservò il cielo e si accostò al limite della spiaggia. Si tolse l’armatura, si svestì della spada e dei paramenti, facendoli piovere sulla sabbia in mezzo al silenzio. Ruppe infine l’indugio con queste parole:

Oh dèi di queste terre, numi tutelari di Olkhon! Mi rivolgo a te, Lešij, spirito dei boschi, e anche a te Stratim, che proteggi il mondo sotto la tua ala, perché io possa raggiungere la fortezza di Burchan. Là si trova colei destinata a diventare mia sposa, prigioniera di un fuoco freddo, rapita dal ghiaccio del tempo.

La principessa Angara, che per le eco dei venti non poteva udire le parole di Enisej, levò anch’ella il suo canto rivolgendosi agli spiriti.

Magiche Ŝiŝigi, ninfe delle acque, conquistatemi con i vostri incantesimi per esaudire la mia speranza di evadere da questa prigione.

A quel punto, gli dèi scostarono il sole per udire meglio le parole dei due amanti e sulle luci di un tramonto precoce accesero la candela della loro preghiera. Enisej affondò la mano sinistra nelle gelide acque del Bajkal e bagnò di miele la bocca, con la voda che già scorreva come polvere fra le sue dita. Anche la sua mano però scomparve, confondendosi fra i colori del lago, e così lentamente tutto il suo corpo, finché divenne lui stesso acqua, un’acqua tanto impetuosa da sfociare nel Bajkal sommergendo di furore la sua stessa armatura sepolta nella rena. Si riversò sui sassi che coprono il fondo del lago sfuggendo al presidio del re e riemerse infine dalle caverne di Burchan sgorgando in mezzo alle sue rocce.

Nel frattempo, per esaudire la richiesta della bella Angara, gli spiriti avevano evocato il sarma, il vento siberiano, il quale tagliò con le sue lame il pelo del lago e sbraitò con le sue spire contro gli scogli di Olkhon, folando infine fra i capelli della principessa. E questi divennero aria, così le sue vesti e di soffio le sue membra bianche e vellutate. Si sentì leggera, la principessa, tanto da volare fuori dalla finestra della sua prigione per mischiarsi tra le raffiche imperversanti nei cieli sopra l’oblast.

Traboccando di passione fra le grotte di Burchan, Enisej non trovò la sua sposa, ma solo stanze fredde e vuote su cui si ripercuoteva il suono di lei pronunciato a gran voce dal principe. E il vento gli riportò quello stesso nome, cosparso nell’aria dal pianto di lei, cui non riusciva di ritrovare lo sposo nel nuovo regno etereo della libertà.

Eterne divinità! – gorgogliò allora Enisej, dal fondo delle sue stesse acque – la mia regina si trova in alto nei cieli, benedetta dall’incantesimo delle ninfe. Vi imploro, fate che anch’io possa salire lassù e contemplare il Bajkal dalle vette di quel regno superno.

Mentre dinnanzi alle prime ombre di un insolito crepuscolo gli animali confusi venivano presi dal sonno, gli orsi si chiudevano nella pelliccia, i salmoni si nascondevano nelle anse e solo ai lupi brillavano i denti in attesa della luna, gli dèi rimisero il sole al suo posto e questi manifestò la propria forza come non mai. Il corpo di Enisej, che scorreva disperso fra le rocce spargendo lacrime aspre fra le dolci correnti del lago, sentì agitare la sua essenza, provò l’ardore del suo cuore che prese a farsi diafano e impalpabile. Divenne vapore e crebbe, sempre più in alto, finché le nuvole lo salutarono come un loro pari. Il leggero Enjsei si spanse sulla taiga, giocò insieme alla bruma fra le betulle, si accecò con la nebbia dei campi e sorrise estasiato dentro le volte dei nembi.

Tuttavia, il pianto di Angara aveva addensato tutte le altre nuvole, che si erano appesantite con la sofferenza della principessa oscurandosi in volto. Boati di dolore e luci d’amore squadrarono il cielo, mentre il bellissimo corpo di Angara, condensato nelle sue stesse lacrime, precipitò giù enfiando il Bajkal fin quasi a sommergere le valli di Olkhon.

Il signore delle terre del nord cercò disperato di contenere fra le sue braccia quell’anelito, ma quando fu gravido di rimorso straripò a sua volta in singhiozzi, lasciando libera la figlia di fuggire dalla sua condanna. Angara divenne una Rusalka, spirito delle acque, e il grande stomaco dolce, Bajkal l’immenso verso cui tutti i torrenti si dirigono e che bacia il torso della taiga donandole un’anima a forma di goccia, aveva ora un emissario, una via per deglutire il proprio rammarico.

Nobile Enisej – intonarono le divinità dopo che il sole, toccando di nuovo l’orizzonte, si bagnò per la prima volta nelle acque di Angara in una pioggia di fuoco rosso – che volteggi ora fra le nuvole leggero come il sarma. E tu, splendida Angara, che scorri adesso come il sangue di un cervo e dai cui fianchi nascerà un giorno il villaggio di Irkutsk, non chiedete più agli spiriti di sovvertire l’ordine naturale delle cose. Invocate la pioggia, piuttosto, addensate i vostri cuori e imparate a specchiarvi nei volti l’una dell’altro quando il sole non guarda.

Così dissero gli dèi e i due amanti si scambiarono uno sguardo, che per un attimo tutta la Siberia si tinse di un solo colore. È da quel giorno soltanto che i gabbiani cominciarono a volare radenti il pelo dell’acqua, per ripetere al cielo le parole sussurrate dal fiume, e così le nuvole un tempo piatte e indistinte presero l’abitudine di incresparsi come la spuma del mare, per mostrare alle acque le loro forme e tutti i significati dell’amore.

Ancora oggi, quando le nuvole siberiane giocano fra le montagne e accarezzano le foreste dei buriati, le fanciulle rivedono in quei disegni le frasi dei propri amanti e gli uomini ne imparano i desideri dalla voce del fiume.

di Federico Filippo Fagotto

Trovate qui il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo capitolo e l’epilogo.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!