OBLAKA – I racconti del realismo magico – Capitolo VII


Poco mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte, e questo cielo
e queste nuvole.
(Velimir Chlebnikov)

lik

Lik – [лик]

Facevo di nuovo l’inventario sul volto della stazione di Ekaterinburg, al modo in cui talvolta si scopre il carattere di qualcuno solo al secondo rendez-vous. Era qualche notte che la Russia mi insegnava a ricordare i sogni, ma il mio ultimo sonno in stazione lo ritrovai in compagnia di un mio vecchio handicap: gli oggetti che si distorcono. Sogno infatti di essere un guerriero mongolo che, a cavallo fra le steppe, mette mano alla sua sciabola quand’ecco che la viziosità orientale della sua forma, proclive ad arcuarsi, per dispetto alla dirittura morale delle durlindane templari, si mette a litigare col goniometro e spingere la curva della lama ben oltre il criterio dell’utile, lasciando in mano all’ormai perplesso tartaro una spada imbizzarrita fra vane correzioni della logica semi-sopita e l’arrotondamento della mia fantasia onirica. C’è un’altra patria dove la pericolosa libertà sembra uguale a quella dei sogni, ed è la letteratura, che vi abitano regole di finzioni talvolta più stringenti della nostra stessa fantasia.

A tutti gli effetti, la sveglia non me la diede la luce né l’altoparlante cirillico, né il bracciolo di ferro arruolato come paciere fra i due sedili attigui per impedire proprio ciò che io stavo facendo: sdraiarcisi per il lungo. A delucidare le eco vigili dei miei sogni fu piuttosto un’altra piccola irrealtà, attendista com’era nel bagno della stazione. Una musica classica flautava fra gli orinatoi riportandomi il Vocalise di Rachmaninov nella versione per violino. Sarei rimasto lì nella poltronissima di ceramica per tutto il concerto, ma non potevo. Non volevo. C’era un compito più importante: cominciare Lolita di Nabokov e colmare una grossa lacuna.

La fama dell’incipit precede ormai il romanzo, così dalla prima occhiata ho sostituito “lolita” con il nome di lei, lei per cui ero lì. Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Con lei la lingua di passi ne fa quattro, sul segno della croce fra quattro direzioni opposte, su quattro diverse vocali. Ma in quell’istante una cosa sola mi riuscì di percepire chiaramente: l’ansia. Nabokov era francamente irraggiungibile. Da tempo non deglutivo un brivido lungo quanto una pagina. Chiunque in fondo, con sfacciataggine, concentrazione, fiducia nell’inautenticità delle cose e nella loro discinesi percettiva potrebbe scrivere come lui, così come tutti potrebbero dipingersi un Kandinskij da soli. Storia vecchia. La mia angoscia si cibava col timore del mio coraggio tutt’ora guardingo che si rifiutava di scrivere così.

Chiusa la copertina del cofano radioattivo dopo appena quindici facciate ho provato a decantarmi. Riguardo le foto sul Taganai, ma fino alla fine l’estuario del mio fiato non accenna a contenersi. L’ultimo scatto ritraeva la compagna di Konstantin, che la sera prima aveva preparato la cena per noi, fra crudités, immancabile cetriolo, riso alle verdure e limonata. Mi aveva regalato un mestolo di legno dipinto da lei stessa, con il profilo rosso di un gallo sull’impugnatura tutto ocra. Ripensai a un libro di culinaria sardonica della mitica Quattrova, ma anche alle pleonastiche decorazioni casalinghe nelle quali Kandinskij, ancora lui, in viaggio dentro il folklore del Vologda e attratto dai colori esagerati dei battipanni delle contadine e dai manici disutilmente manierati dei loro calici in legno, aveva assegnato a quell’esubero merlettato il deposito dell’arte.

Inseguìto dall’attitudine disegnatrice di quella matrona, la interrogai su altri eventuali capolavori. Mi mostrò allora un piccolo dipinto pieno di margherite. Giusto nel pomeriggio avevamo visto quei fiori lungo un viottolo e, all’inseguimento dei fantasmi di Bulgakov, ne avevo chiesto il nome russo al mio Virgilio. Rilanciai quindi prontamente.

«Romaska!».

«Romaska», ripeté piano la donna, annuendo senza guardarmi.

La trasformazione dei significati nell’aspetto multiforme di un fiore mi aiuta così a raccontare la prossima storia.

oblaka protea

La Protea

«Pieno di animali! Anche quest’anno…»

Era una lavanda a parlare, sì proprio la pianta, seduta sul pavé con le spalle al naviglio, mentre il fiume di umani le scorreva di fronte non meno di quello.

«Che male fanno? Passano, ti guardano negli occhi e, dopo tanti complimenti, qualcuno ti porta perfino a casa con sé»

Questa invece era la voce allegra del limone, reso divino dal sole di quella domenica pomeriggio di pieno aprile.

«Bah, mica tanto! I membri dell’alta società botanica hanno deciso di venire quest’anno al galà dei fiori», aggiunse la lavanda, «e noi possiamo strizzarci i petali fino al mal di pancia pur di stillare il nostro bel colore. Tutti gli sguardi saranno sempre per loro».

«Oh insomma, di chi parli con tanta invidia? Stai diventando sempre più viola».

«Di Lady Surfinia, per esempio. Lei sì che è viola, e non certo per invidia. Sfido io, a braccetto com’è del Duca Mesabriantemo. Guarda là che viola, anche lui!».

«Ussignur! Spitinfia lei, e pedante lui. Tu sei molto più simpatica!».

«Che gergo! Cos’hai nelle radici? Prendi a modello il dott. Ornitogalo. A lui non puoi certo negare gran dote di eloquenza. Dalle sue foglie esce una conversazione che sa di ossigeno puro».

«Io temo, invece, che tante parole distanzino soltanto dai pensieri. Non sai cosa dicono di lui, giù all’orto, l’arancio e il cedro!».

«Intanto nessuno dei tuoi amici si è mai presentato al fianco di Miss. Lobelia».

«Sarà perché l’arancio è un po’ in sovrappeso e ha la pelle butterata, ma un cuore così dolce! E quanto al cedro… beh sì, è spesso amareggiato; ma almeno non se ne sta lì impalato a far la coda da pavone come tutti quei nobili spocchiosi. Eccola lì, per l’appunto, la marchesa Aronia: spettabile dinastia dei Melanocarpa, capirai. Solleva volentieri le fronde per mostrare i suoi orecchini di scure bacche alla vista del bel Papavero islandese, che intanto la occhieggia di sotto la larga tesa del suo cappello rosso. Quante scene!».

«Ma… non ti vergogni di parlare così di due piante simili?».

«Dico la verità! E guarda, lì in fondo, il prof. Delfinium. Che noioso! E da quando gli hanno dato la cattedra di ecologia è ancora più impettito, per giunta. Non sospetta nulla di sua moglie, il bietolone! La signora Alstromeria farebbe un bello scandalo se dicesse cosa fa col castagno, soprattutto perché lui è tutt’altro che blasonato. Si sarà stufata dei fiori ammodo e, senza tante cerimonie, avrà subito il fascino dei boschi!».

«Ah ah ah! Smettila! Mi sta cadendo tutto il polline», disse la lavanda fra le risa.

«Oh insomma», aggiunse poi, «ci sarà pure qualcuno per cui nutri rispetto».

«E se ti dicessi… la Protea?».

«Ah! Proprio la più vanesia ed esibizionista di tutte!».

«Anch’io la credevo snob, distaccata, ma solo perché non parla la nostra lingua. Sai che viene da laggiù, no?… l’Africa. In realtà ha una linfa dolce, c’è chi la chiama addirittura “cespuglio di zucchero”».

«Che strano, mi ha sempre dato l’impressione di essere così, così… volubile!».

«Vero, ma solo per curiosità. Prova grande stima per tutti, e ammirazione. Si sforza di assomigliare agli altri più che può, sino a trasformarsi».

«Eppure quest’anno ancora non l’ho vista».

«Nemmeno io».

«La Protea, dite?», intervenne bruscamente il cedro, «ah, sfiorita da un pezzo!».

«Oh, ciao! Da dove salti fuori?».

«Sei sicuro?», chiese la lavanda, «non è proprio questa la sua stagione?».

«No, non avete capito: morta, stecchita! E voi che non vedete l’ora di farvi acchiappare da uno di quegli strani animali. Chissà come l’avrà curata».

«È vero, ora ricordo: la volta scorsa era venuto un ragazzo a prendersela, in compagnia di una bella fanciulla, erano così felici insieme. Ma cosa ti fa credere che sia appassita?».

«Ho rivisto quel ragazzo oggi, era qui di sicuro per cercarsi un’altra Protea, ma non ha trovato nulla».

«Come fai a dire che volesse proprio lei, e che la prima non sia rifiorita invece?».

«Perché anche lui era solo, stavolta. La sua ricerca della Protea, ve lo dico io, sarà stato il modo di ritrovare il ricordo di quella fanciulla. Ma non gli è servito».

«Anch’io ricordo bene quel giovane animale», sospirò la lavanda.

«Strano vero? La sua vita sembra diversa da un anno fa. Si è voluto consolare col fiore del cambiamento, proprio quando questo ormai ha raggiunto la sua ultima forma».

«Hai sentito, lavanda?», disse infine il limone con un lungo sorriso sulla scorza, «Il nostro amico cedro ha un succo così aspro all’apparenza, ma in fondo un retrogusto di miele».

«Mmh… Hai impegni per stasera, mio bell’agrume?», sussurrò la lavanda traboccante di viola.

Quel ragazzo intanto, in una nube di profumo, ritrovava la via di casa.

[***]

E ora l’aspetto cangiante della Protea rinverdiva, a distanza siderale, dal suo habitat esotico, fra giochi di similitudine, di metamorfosi. Ad esempio fra il mestolo ingiallito ricevuto in dono dalla moglie di Konstantin e un segnalibro georgiano di legno che si intrometteva fra le pagine di Lolita, decorato a mano con una piccola fenice variopinta, regalo di un mio caro amico.

Al Museo etnografico avevo rivisto invece la metamorfosi inflitta da uno stampino per il marzapane a quest’ultimo, con lo stesso stupore che fu di Kandinskij, sempre lui, di misurare l’evidente bisogno del popolo del Volga di antropomorfizzare le proprie focacce peggio di quanto avevo fatto nel mio racconto ai danni della flora ricca di petali. Evemerismi, pareidolie e senofanità ostinate al pedinamento nel segno del lik, una delle poche parole russe di cui mi era rimasto appiccicata la definizione: “Volto”. Lo ritrovavo nel viso prono e indulgente di una madre sul treno per Novosibirsk, tanto per cominciare, che intrecciava anche lei nuove metamorfosi di tessuto cucendo silenziosa, mentre sui letti al piano di sopra i figli avevano tramutato il materasso in un tavolino per giocare a carte girandolo appena di traverso. C’era la faccia girata sulla nuca del diacono di Novosibirsk, che durante il canto più baritonale che abbia mai udito dava le spalle ai fedeli durante la messa. C’era il volto iridescente di Emilia, una ragazza conosciuta all’ostello successivo, di professione ballerina. Mi ha insegnato alcune bizzarre danze tradizionali russe, utili per qualche etnica metafora, con più che adesso sapevo che in russo “метафора” si pronuncia allo stesso modo che dalle nostre parti, perciò dovevo restare più guardingo di quando si tenta di governare il carrello fra gli scomparti del super nel rally lento e goffo della spesa, mentre le ruote della sorte possono sempre fare un testacoda e sbandare nel controintuitivo.

Non avrei mai pensato, ad esempio, durante l’ultimo giorno a Novosibirsk in cui ho avuto la malaugurata idea di avvicinarmi per asintoto a un parco a nord della città, favoleggiato naturalistico e cenerentolizzato dall’assenza di netturbini, di imbattermi in gigantesche condutture del gas e di pensare che se mi fossi trasformato in metano anch’io e mi ci fossi infilato dentro sarei tornato a casa forse molto presto, con mia grande e inaspettata gioia.

Carne e fuoco di tutte le metafore erano riuniti già nella piccola e ginevrina società del vagone del treno. L’adoravo sempre più. Anche nel penultimo viaggio verso Krasnojarsk pensai che per trovare il valore delle metafore bastava guardare dentro la carrozza nei comportamenti e nei volti dei passeggeri. Per la forma superficiale della retorica era poi sufficiente gettare uno sguardo fuori dal finestrino, verso la foresta monotona, inesauribile, a seconda dei punti di vista. Un punto ormai imprescindibile al millantato scrittore per dare un senso al proprio viaggio.

Non è richiesto altro che cambiare le proprie abitudini. Chiamare l’ambra con inclusione: “Insetto con esclusione”, ad esempio, o la casa con giardino: “Boschetto con abitazione”. Ricordo la battuta scritta sul cartello dentro un locale: Cani ammessi a patto che garantiscano per i padroni. E in tutti questi sfarfallamenti fuori dai bachi di vecchie forme mi accorgevo di usare un pigmento pallido anch’io per emulare le maniere di Nabokov, dopo un inizio melanconico frutto dell’oblomovismo e un prosieguo empirico e situazionale per l’influenza di Čechov, al punto da dubitare di uno stile personale. E tutto per colpa di un masochismo spiccato: sentirmi contraffatto dalle persone e sopraffatto dalle cose.

Fuori dalla stazione di Krasnojarsk fui aggredito invece dalla pioggia e da un vero lago, miniatura di quello che avrei voluto conquistare al termine del mio viaggio. Questo piccolo che allagava la stazione di Krasnojarsk era disposto sulle tre linee di fuga dei passeggeri, che per guadarlo si servivano o di un carrello bagagli a ruote sgonfie, oppure dello stoicismo tutto russo.

Ormai intrappolato, mi sono intrampolito sui miei sandali, snobbando l’acerrimo antagonista dell’avventura – il taxista – e ho ritmato verso lenina ulitsa a passo di gru. Un topo non più vivo galleggiava meglio delle auto moribonde. L’ostello era più introvabile del Sosia, ma avrebbe regalato altri voltiinteressanti. Due amburghesi, anzitutto, dagli sguardi limpidi e quasi incerati sulle guance, con nomi da coppia supereroica: Roman e Robin.

L’unica attrattiva della città, visitata quasi per inciampo lungo la transiberiana, è il parco di Stolby. Ah, intendiamoci: in Russia “parco” non vuol dire recinto florato, con panchine, altalene e cespugli, bensì foresta senza margini, con sentiero vermicolare imparato appena appena dal sottobosco a colpi di predecessori e orsi a piede libero che forse se non avesse piovuto tanto avrebbero pure fiutato le nostre tracce. A studiare il russo, avremmo inteso subito il cartello a inizio percorso che istruiva su come accogliere faccia a terra l’arrivo di un Ursus arctos horribilis con un’etichetta degna dell’omotenashi, e quindi desistito dalla scampagnata, o per meglio dire sbetullata, o per meglio dire spioggiata, visto che l’impermeabile di plastica, costato 75 rubli, era troppo plastico e si è destrutturato in pochi minuti.

L’accerchiamento scacchistico del fato vorrà poi che sul treno successivo, l’ultimo per me, io e i due amburghesi ci saremmo ritrovati insieme: stessa carrozza, stesso scomparto, stesso samo-bar. Robin era erstaunt dalla cosa, Batman faceva il tiepido, per digerire la zuppa di latte. Ma prima di tutto ciò manca l’ultimo volto del prefinale. Un lik anonimo stavolta, perché il nome di quella ragazza francese era di quelli che io non avevo proprio mai sentito nominare, come Bérangère o simili. Al pari del Signor K, la femme di Tolosa incontrata l’ultima sera a Krasnojarsk si è sintetizzata così nell’iniziale “S” con cui ha firmato il ritratto che ha poi voluto regalarmi. Dopo poco conversare, infatti, emerge guarda caso che lei studia sì architettura, però l’annoia. Visto che la fantasia dei suoi colleghi, così mi è parso di capire, non oltrepassava mai il progetto, ha deciso di macchiarsi con l’apostasia di portare con sé il set dei colori, per macchiare anche qualche foglio innocente.

Decido allora di riassumerle il “gioco”, tranciando via la parte sul mio ospite, i miei incontri e i gli scopi finali a colpi di Šaška come fossi un cosacco, per lasciare in vita solo il soggetto in esame: il tema del lik. Lei si guarda intorno. Non c’è nessuno. Ratman e Robin sono in missione fra le coperte. Nessun lik cui ispirarsi. Osserva il mio volto ingrottito dalla barba di un mese, mentre il mio lik platonico esce un momento dalla caverna per sconsigliarla, allora lei si trova in difficoltà come tutte le volte che un francese non può invischiare l’espressione “bien sûr” in uno dei suoi mugugni.

Scorro le foto vacanziere, ritrovo il mezzo busto ligneo cui avevo rubato l’anima illegalmente al museo Tret’jakov già con l’idea di servirmene per animare un Golem a distanza di qualche pagina. Adesso era giunto il momento di scrivergli in fronte per resuscitarlo. Mostrai la foto a “S” la quale, presa da un raptus schellinghiano, mestola subito con l’ermafrodito penna-pennello che va molto di moda oggigiorno e ne tira fuori un lik liquido, languido, ben più degno di Zeusi dei suoi precedenti nelle scorse pagine del book. Il sottoscritto gollum porta tosto il tesoro nella tana, raggiungendo Barman e Robin nella batcaverna platonica, per affrontare un cuscino cromato White Russian.

Ora, mi rendo ben conto di dovermi disintossicare da Nabokov, ma avendo appena addentato Daniil Charms non vedo comunque futuri rosei, con più che il primo dei suoi racconti inizia parlando di un volto senza occhi, naso e bocca e di cui lo scrittore dice che è inutile parlare. Come referto del mio passato più onesto chiudo questo capitolo con un racconto su otto individui da cui purtroppo non tutti i milanesi sanno di essere scrutati, notte e giorno…

oblaka omen omenone

Omen omenone

e dopo la Chiesa di San Fedele, potete vedere da questa parte la celebre Casa degli Omenoni, uno dei tesori nascosti di Milano…

«No! Ci risiamo».

«Non ti agitare Svevo, tanto lo sai che alle cinque passa sempre di nuovo la guida».

Costruita intorno al 1565 dal cesellatore aretino Leone Leoni, la facciata consta di due ordini e un attico, è divisa in sette scomparti, con due finestre a timpano spezzat…

«Lo spezzi a me il timpano, figlia di una lupa maledetta!».

«Ahah! Buona questa, Sarmata, peccato che non possano sentirci».

Il palazzo ha un tempo ospitato opere di autori illustri, come Tiziano e Leonardo, che aveva depositato qui, all’inizio, il suo Codice Atlantico…

«Ah ah, si è dimenticata Correggio. Pure imprecisa la puella!».

«Stai calmo anche tu, Parto! Tanto è inutile».

Ma come avrete capito, il palazzo è contraddistinto dagli otto Omenoni, ossia gli ‘omaccioni’ scolpiti nella pietra da Antonio Abondio, che vedete prospicienti la facciata del palazzo…

«Chiamaci ‘Telamoni’, prego. ‘Omenoni’ non mi è mai piaciuto, neanche un po’».

«Diglielo Quado! Accidenti, ai tuoi tempi non avresti tollerato una simile linguaccia scommetto».

«Neanche per sogno! Ma che ci vuoi fare, questi latini ci hanno fregati tutti, in un modo o nell’altro».

…Come vedete dai nomi scolpiti sopra le loro teste, le otto statue raffigurano ognuna un popolo barbaro contro cui Roma riscosse in passato i suoi storici successi: Quadi, Svevi, Marcomanni, Adiabene, Sarmata e Parti…

«Ma perché… ».

«Non interrompere la guida, Anna. Mi scusi, la mia nipotina è sempre curiosa».

«Oh, non si preoccupi signore. Dimmi, piccola».

«Ma… loro due? Poverini, non ce l’hanno il nome?».

«Ah, vuoi sapere chi sono le due statue centrali? Quelle che si sporgono verso di noi con quelle grosse braccia conserte e le loro manone grandi?».

«Mmh… sì! Sembrano arrabbiati».

«Ci siamo ragazzi, adesso si ride!».

«Già, chissà cosa si inventa questa qui».

«Ehm, quelli ovviamente sono i due più famosi re barbari sconfitti dai romani, vale a dire Vercingetorige e Brenno».

«Ahahah!».

«Bum! L’ha sparata proprio grossa stavolta, vero Adiabene?».

«L’ultimo è venuto qui a dire che raffigurano i due scultori, Leone Leoni e il figlio Pompeo…».

«Oh, c’è chi s’inventa che siamo addirittura i loro mecenati, Carlo V e Filippo II».

«Ahah! Figurati. Ma questa non l’avevo sentita mai ancora, giuro!».

«Ma…».

«Anna, guarda che gli altri vogliono sentire il resto della spiegazione».

«Uffa, nonno! Ma però perché non hanno i nomi, loro? Non potevano scrivere Veggincerotigio e quell’altro?».

«Be’, in effetti la bambina ha ragione. Come mai?».

«Ehm… dunque, in realtà… gli storici sa, gli studiosi… credo che non siano riusciti a trovare una risposta».

«Ah, beccata! Ci voleva una bambina impertinente!».

«Per Diana! Ma ha ragione più lei di tutto lo stuolo di eruditi e turisti che ogni giorno viene qui a importunare la nostra quiete. Se solo non avessi la schiena intrappolata nella roccia gliela farei vedere io, quant’è vero che mi chiamo Marcomanno!».

«Ah, amico. Non ti ci mettere anche tu a sbraitare».

«Proprio tu parli, che non hai nome. Dovresti essere il primo a risentirsi!».

«Non avrò nome, ma almeno non penso di chiamarmi con quello del mio popolo solo perché ce l’ho scritto in testa».

«Come ti permetti, i miei avi hanno combattuto a Teutoburgo, al fianco di Arminio! E tu come vorresti chiamarti? Sentiamo».

«Eh, chissà. Forse dovrei chiederlo a quella bambina. Ma si stanno già allontanando».

«Seguitemi signori, fra poco arriveremo in Piazza Scala…».

«Vieni Anna, andiamo!».

«Sai nonno, secondo me questi grossi omonani di pietra…».

«Omenoni, Anna».

«Sì, ominonni, va bene. Secondo me stanno parlando fra loro, li sento».

«Sai Anna, quand’ero piccolo come te il mio papà mi portava sempre in giro per Milano. “È una città bellissima, nessuno la conosce veramente”, mi diceva sempre. E spesso mi portava anche qui, in via degli Omenoni».

«Davvero, nonno? E parlavano?».

«Sì, anche a me parlavano. E quando ho chiesto a mio papà chi fossero quei due senza il nome, sai cosa mi ha detto?».

«Cosa?».

«Che erano due uomini disegnati da Leonardo sul Codice Atlantico».

«Su cosa, nonno?».

«Ah, si tratta di bei disegni».

«E li ha disegnati così arrabbiati, con le braccia incrociate e il volto scuro?».

«No! Erano belli e allegri. Poi quando il Codice è stato portato via, si sono offesi, e adesso li vedi così».

«Poverini!».

«Sai cosa possiamo fare però?».

«Cosa, nonno?».

«Dagli un nome, così diventeranno come gli altri, andranno tutti d’accordo e saranno più contenti, vedrai».

«Sì, che bello! Allora li chiamo Tobia ed Enea, come i miei due cani, posso?».

«E Tobia ed Enea sia, allora. Sei contenta?».

«Sì, nonno. Sono sicura che la prossima volta non saranno più così arrabbiati».

«Ne sono certo anch’io, Anna. Vieni. Raggiungiamo la guida e gli altri…».

«Ehi… Tobia».

«Mpff…».

«Non sghignazzate, voi altri. Vi sento».

«Ti piace il tuo nuovo nome?».

«Be’, io almeno a differenza vostra ho un nome vero, ora. Tutto mio».

«Sì… quello di un cane!».

«Porca l’oca del Campidoglio, se non fossi qui bloccato nella roccia te le suonerei più dei romani, barbaro ignorante!».

«Buoni, poco baccano! Un altro bambino che si accorge di noi e non ci verrà più concesso di restare in questo mondo».

e dopo la Chiesa di San Fedele, potete vedere da questa parte la celebre Casa degli Omenoni…

«Sssh, silenzio! Tornano gli umani».

«Zitti, zitti. Vediamo cosa si inventano questi!…».

di Federico Filippo Fagotto

Trovate qui il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto e l’epilogo.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!