Creare scompiglio a Oriente e attaccare a Occidente

Lucidità della guerra e suo ottenebramento

Il tempo, le creature, gli amici e i nemici convergevano e si fondevano in quell’essere straordinario, la cui statura spaziava tra la terra e il cielo, e si estendeva da un orizzonte all’altro. Nascita e morte, distruzione e protezione degli esseri: ogni attività sembrava far parte di quella creatura. Niente era estraneo alla sostanza di quell’essere. Creazione, distruzione, attività e inattività: tutto costituiva una particella di una siffatta, grandiosa entità, la cui visione colmava Arjuna di terrore e di estasi. «Ora sì, ora capisco!» esclamò.
«Io sono la morte, io sono la distruzione», disse il dio[1].

Parlare della guerra significa parlare di morte e distruzione, di sofferenza e barbarie. Eppure, dacché l’essere umano ha iniziato a uccidere, ha iniziato anche a riflettere su come uccidere. Ha messo il suo ingegno al servizio della morte. Dalla barbarie ha saputo cavar gemme, emanciparsi dall’immediatezza dell’atto omicida, riflettendovi con rara potenza intellettuale. “Δεινός”, deinós, così Sofocle chiamava l’uomo nell’Antigone: meraviglioso e terribile, mostruoso e sublime. L’arte della guerra è la summa di questa sua – di questa nostra – intima contraddittorietà.

E in effetti, a guardar la cosa dappresso, ci si accorge che il cardine attorno a cui ruota il problema della guerra è proprio questo: essa manifesta la contraddizione immanente e perpetua del reale. «Gli affari militari sono […] il terreno su cui si giocano vita e morte; il Dao del permanere e del perire»[2], scriveva Sun Tzu nell’Arte della guerra.

Distruggere per edificare ed edificare per distruggere. Negare per affermare e affermare per negare. Uccidere per mantenere in vita e mantenere in vita per uccidere. Ottenebrare la luce, «ritirarsi e non potersi espandere» che però «non significa spegnersi». L’esagramma 36 dell’I Ching – l’esagramma di questo numero – sembra essere tagliato su misura del problema della guerra.

Un problema che, come insegnano I sette classici – i testi che stanno alla base della strategia militare orientale – si può ridurre al problema dell’inganno, della dissimulazione. Sun Tzu disse: «La guerra si fonda sull’inganno»[3]. Ottenebrare la luce appunto, perché «propizio essere perseveranti nella miseria».

Ora, I sette classici sorprendono. Sono opere di arte militare che però si pongono sul piano dell’insegnamento filosofico. È questa un’incongruenza che potremmo lamentare, ma saremmo in errore. La scelta di operare a un livello di astrazione concettuale così alto («Generare qualcosa dal nulla»[4], dice ad esempio il settimo stratagemma de I trentasei stratagemmi: affermazione che si attaglierebbe più alla Scienza della logica di Hegel che non a un manuale di arte bellica…), ci obbliga a ri-flettere sulla guerra. A piegarsi all’indietro e operare un’epoché. Sospendere i nostri pregiudizi nei confronti della «continuazione [par excellence] della politica con altri mezzi»[5] e rintracciarne così la sua propria logica specifica. La domanda verso cui ci spingono i testi orientali non è insomma cosa dobbiamo fare per vincere la guerra, ma con che occhi dobbiamo guardarla, la guerra.

La risposta è presto data. Con gli occhi di chi ha l’esigenza di unire strategia e tattica, progetti e contesto, essenziale e contingente, teoria e prassi. Di chi ha l’esigenza di trovare l’inveramento del proprio telos nel fluire inarrestabile di eventi che non possiamo mai dominare fino in fondo.

 

Combattimento tra Bhisma e Arjuna. Illustrazione di Ramanarayanadatta Astri. University of Toronto Collection

Combattimento tra Bhisma e Arjuna. Illustrazione di Ramanarayanadatta Astri. University of Toronto Collection

E allora I sette classici non sorprendono più così tanto. Il punto non è come insegnare a disporre la fanteria o la cavalleria (c’è anche questo, ma non è la questione centrale). Il punto è come insegnare a ponderare l’imponderabile, a combattere la casualità tanto quanto il nemico. In forma poetica si trova lo stesso concetto espresso nella Gerusalemme liberata. «Nel momento culminante del poema, mentre la battaglia infuria sotto le mura di Gerusalemme assediata dai crociati, Torquato Tasso immagina che il Solimano si ritiri da solo a osservare la lotta dall’alto di una torre. L’esito è ancora incerto; così il poeta ci descrive la scena che si offre allo sguardo del sultano:

Mirò, quasi in teatro od in agone,
l’aspra tragedia de lo strato umano:
i vari assalti e’l fero orror di morte,
e i gran giochi del caso e della sorte»[6].

«Caso» e «sorte»: questo il nucleo concettuale dei versi di Tasso. L’esito della battaglia dipende molto più dalla latina fortuna che da ciò che possiamo prevedere. Il possibile trova il suo limite nell’accidentalità dello sviluppo concreto.

È un problema universale. Ogni azione umana, «siccome trasposta in esteriore esserci, il quale secondo la sua connessione nella necessità esterna si sviluppa da tutti i lati, ha conseguenze molteplici»[7]. E in queste conseguenze si trova la verità dell’azione: le conseguenze infatti recano in sé la possibilità di comprendere lo scarto tra i nostri propositi e gli esiti del processo. Uno scarto nel quale si inserisce la condizione di un nuovo agire, di una nuova comprensione del contesto e di una nuova posizione teleologica del soggetto agente.

La circolarità è evidente: dalla relazione tra soggettività e oggettività si perviene, attraverso una reciproca estrinsecazione (i fini del soggetto sono «dat[i] in preda alle potenze esteriori»[8] e il contesto viene oggettivato, cioè modificato, a misura-del-soggetto), a una nuova relazione tra soggettività e oggettività. Ma è evidente anche la progressività. Ogni riproposizione della relazione è una posizione diversa da quella di partenza, una diversa relazione, una diversa configurazione del reale. I due poli (soggetto e oggetto), in quanto tali mai assoluti ma sempre reciprocamente correlati, producono così una totalità mai esaurita da ciascun momento in quanto tale.

E tuttavia il processo è totalità. Ponderare l’imponderabile significa essere coscienti della parzialità della nostra posizione di fronte alla totalità. Significa sapere che le nostre azioni sono «fasci di possibilità» aperti verso un futuribile. Previsione e scelta: concetti traducibili nella possibilità di forzare la processualità reale.

«La guerra si fonda sull’inganno», scrivevamo prima. La guerra si fonda sulla capacità di operare delle forzature nel “naturale” corso degli eventi. Comprendere il contesto per tradurre i nostri fini soggettivi in una coerente configurazione di mondo: «Creare scompiglio a Oriente e attaccare a Occidente»[9].

Ecco come l’arte della guerra può mostrarsi in tutta la sua contraddittorietà. In effetti, essa è piuttosto l’arte della vita.

Note

[1] Il Mahabharata, a cura di R. K. Narayan, Parma 1990, p. 163, in G. Breccia (a cura di), L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz, Einaudi, Torino 2009, pp. CXLIV-CXLV.

[2] Sun Tzu, L’arte della guerra, in G. Breccia, L’arte della guerra, cit., p. 8.

[3] Ivi, p. 18.

[4] Anonimo, I trentasei stratagemmi, in G. Breccia, L’arte della guerra, cit., p. 64.

[5] K. von Klausewitz, Della guerra, trad. di A. Bollati ed E. Canevari, Mondadori, Milano 1988, p. 38.

[6] G. Breccia, L’arte della guerra, cit., p. XI. I versi sono da T. Tasso, Gerusalemme liberata, XX, 73, 5-8.

7. G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza 2004, p. 102.

8. Ibid.

9. Anonimo, I trentasei stratagemmi, cit., p. 63.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.