Ombre su Yoknapatawhpa

Un requiem per Faulkner

Nel dicembre del 1950 William Faulkner ricevette il premio Nobel per la letteratura. Se ne deduce che nel ‘49 nessun fotografo dalle mani lunghe indugiò sulle prelibatezze della regina di Svezia. Per il Gentiluomo del Sud fu la definitiva consacrazione. Avanguardista nella tradizione anglosassone di James Joyce, Faulkner fu scrittore più sperimentale dei coetanei espatriati nella Parigi bohémienne, con i quali condivise la passione per gli alcolici. Per anni si guadagnò da vivere facendo il falegname, l’imbianchino e il fuochista presso la centrale elettrica dell’università di Oxford, Mississippi, la cittadina dell’America profonda in cui trascorse quasi tutta l’esistenza. Considerato la nemesi di Hemingway per la ricchezza stilistica, contrapposta al minimalismo del maestro di Oak Park, fama e successo letterario lo avevano solo sfiorato. Grazie al Nobel vennero riconosciuti i capolavori che negli anni precedenti erano passati sotto silenzio: L’urlo e il furore del ‘29, l’inarrivabile Mentre morivo del ‘30, Luce d’agosto del ‘32 e Assalonne, assalonne! del ‘36. Fulminea montò l’attesa per il romanzo al quale stava lavorando, Requiem per una monaca, che uscì l’anno successivo per i tipi di Random House.

Un romanzo difficile, sincopato, al limite dell’incomprensibile. Un romanzo che non sembra nemmeno un romanzo. Tre parti in prosa e tre parti di pièce teatrale, appena agitate, non shakerate. Nei capitoli in prosa il lettore viene travolto dal lirismo esasperato, affoga in periodi fluviali, labirintici, con punteggiatura ridotta al minimo e parentesi infinite. Le parti di sceneggiatura sono dialoghi impossibili, criptici, metafisici. I personaggi parlano di se stessi con se stessi, in una lingua oracolare, e, quel che è peggio, sembrano capirsi tra loro. Al contrario, il lettore non capisce niente e barcolla sul ciglio della disperazione.

Inutile dire che fu un fiasco clamoroso, sia in termini di vendite che di critica.

Le ironie si sprecarono. La vena creativa di Faulkner si è prosciugata. Il filone d’oro esaurito. Hanno assegnato un Nobel alla memoria. Eppure, dall’altra parte dell’oceano, ci fu qualcuno che apprezzò. Era forse l’intellettuale più in vista del Vecchio Continente e considerava Faulkner il più grande scrittore vivente. Era l’indimenticato Albert Camus. Quale tesoro scorse, il Signore dell’Assurdo, in questo disastro letterario che al pubblico rimase celato?

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Contea di Yoknapataphwa, stato del Mississippi. Primi dell’Ottocento. Requiem per una monaca si apre con la genesi della città di Jefferson. In tono leggero, luminoso, viene narrata la nascita della colonia, avamposto dell’uomo bianco, tre di numero, nella foresta vergine abitata dagli indiani Chickasaw. Selvaggi sì, ma assolutamente inoffensivi, come suggerito dai nomi buffi. Il capo Ikkemotubbe, oratore al Consiglio del Coniglio-Che-Danza, Issetibeha e la matriarca Mohataha. La storia di una colonia che si qualificò città «come Napoleone si qualificò imperatore»[1]. È un fatto di cronaca a dare il via alla trasformazione. La cattura di tre banditi, o quattro, sul numero esatto non v’è certezza, da parte di un drappello di soldati. Dopo tre giorni di vagabondaggio, vincitori e vinti «ritornarono a Jefferson in gruppo, alcuni dissero alleati in cerca di qualcosa da bere». Ora che ha in custodia dei pericolosi fuorilegge con taglie sulla testa, la colonia ha bisogno di un posto sicuro dove tenerli. Sicuro per i banditi, si intende, poiché «risultò che c’era una fazione incline a linciarli subito, fuori di mano, senza preliminari». In tutta la contea c’è un solo lucchetto. Serra la sacca della posta che un intrepido porta direttamente da Nashville, attraversando a cavallo cinquecento chilometri irti di pericoli. Un antico lucchetto della Carolina, un mostro di ferro da sette chili. Durante la prima notte di prigionia, mentre soldati e coloni festeggiano con coerente dose di alcool la cattura e la sperata taglia, i banditi aggirano il problema del lucchetto divellendo la porta e l’intero muro, evidentemente non troppo solido, del granaio adattato a prigione. Impilano in bell’ordine i mattoni sul ciglio della strada e si dileguano. Non si può più fare a meno di un tribunale e, soprattutto, di una prigione. Fortuna vuole che uno dei tre coloni tenga un architetto parigino segregato in fondo a un pozzo. Sarà lui, lo sventurato, a progettare il nuovo edificio, anche se non sarebbe necessario: «Bah, non avete bisogno di consigli. Non avete denaro. Non avete neanche qualcosa da copiare: come potete sbagliarvi?». La comunità lavora alacremente alla costruzione, posta simbolicamente al centro della colonia, mentre gli indiani stanno a guardare con le bottiglie di whisky in mano. Un edificio semplice, con solide fondamenta, a base quadrata. «Fra cinquant’anni cercherete di cambiarla in nome di quello che chiamerete il progresso. Ma non vi riuscirete; non potrete mai liberarvene», profetizza l’architetto. Ecco l’arma del delitto. Affilata e letale come un tomahawk. Il Progresso. L’ombra della modernità che arriva a intorbidire la luce tersa della frontiera, a corrompere «gli uomini e le donne pionieri, rozzi, semplici e resistenti in cerca di denaro o di avventura o di libertà o di semplice evasione e non troppo esigenti sul modo di ottenerlo». Uomini edenici. Peccatori sì, ma con simpatia. Cresciuti nella fratellanza, «neri e bianchi, liberi e non bianchi, spalla a spalla nella stessa incessante cadenza e ritmo come se avessero uno stesso fine e una stessa speranza».

Silhouette in preghiera

Anni Trenta del Novecento. La moderna Jefferson è scossa dal più atroce crimine mai commesso in città. Nancy Manningoe, una domestica nera, ex prostituta cocainomane, ha soffocato nella culla il figlio di Temple Drake e Gowan Stevens, altoborghesi bianchi. Wasp, diremmo oggi. Condannata a morte in quello stesso tribunale a base quadrata, Nancy ha accettato la sentenza con tre semplici, monastiche parole: «Sì, Signore Iddio». Ora attende in cella l’esecuzione. Nella signorile casa degli Stevens il fuoco della colpa cova sotto la candida cenere della rispettabilità, dirompente emerge dal passato. La diciassettenne Temple, debuttante di buona famiglia, incontrò il giovane Gowan, universitario di belle speranze. Questi la accolse nella sua macchina. Poi, nella miglior tradizione della Virginia, si ubriacò «come venti gentiluomini» e andò a schiantarsi contro un palo, in prossimità di un covo di contrabbandieri. Qui Temple venne rapita e seviziata, con una pannocchia, da un gangster impotente. Seguirono omicidio, il gangster uccise un rivale, e segregazione di Temple in un bordello di Memphis. Quaranta giorni. Nel bordello, Temple si innamorò di uno degli aguzzini. Finalmente Gowan arrivò a riscattarla e, per puro senso di colpa, la sposò, restituendole l’onore perduto ma non la tranquillità. Restano foto compromettenti che rischiano di saltar fuori e quel tipo pericoloso di cui Temple si è innamorata che…

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Questa storia atroce, che ricorda alla lontana A sangue freddo, capolavoro di Truman Capote, e che anticipa di decenni il genere pulp, fu un’ossessione per Faulkner. È infatti il tema centrale di altri due scritti: un racconto senza nome composto in gioventù e mai pubblicato in vita, e Santuario, unico, scabrosissimo successo letterario prima del Nobel. Dal punto di vista concettuale Requiem per una monaca ha una debolezza e una forza. La debolezza sta nel dualismo stereotipato purezza-delle-origini/progresso-corruttore, che pare una versione impoverita della teoria del buon selvaggio di Rousseau. La forza sta nell’esplorazione del tema della colpa, indissolubilmente legato alla maledizione del tempo, l’impossibilità per gli uomini di fare i conti col passato perché in realtà è il passato a fare i conti con gli uomini. «Il passato non muore mai. Non è nemmeno passato.»

La colpa come condizione della creaturalità. Ontologica, ineliminabile, inscritta nella carne come il peccato originale. Faulkner costruisce una teodicea disperante, diametralmente opposta a quella della Peste di Camus. Tenta di rispondere a un’antichissima domanda: il bene può venire dal male? «Dapprincipio», afferma Temple, «si crede di poter sopportare soltanto una certa dose e poi di essere liberi. Poi ci si accorge che si può sopportare qualunque cosa, si può davvero e poi non importa neanche. Perché d’improvviso può essere come se non fosse mai stato, mai accaduto». Il male non genera bene. Si scioglie. Si trasforma e si confonde nell’assurdo di quel «lungo viaggio difficile» che è la vita. Il demonio Nancy è monaca in controluce, l’angelica Temple strega. Entrambe sono imperatrici, sirene, erinni. La vittima che sa di essere colpevole agogna inutilmente la grazia per l’assassina. «Chiunque per salvarla. Chiunque lo voglia. Se non c’è nessuno, sono finita. Lo siamo tutti. Predestinati. Dannati».

Note

[1] Tutte le citazioni da: William Faulkner, Requiem per una monaca, tr. it. di Fernanda Pivano, Arnoldo Mondadori editore, Milano 1967.

di T.D. D’Orfeo

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