Sorelle d’omertà

Le donne e la ‘ndrangheta, l’elemento “debole” che cementifica e tramanda il codice culturale mafioso: i ruoli privati all’interno del sodalizio criminale e la necessità di un’emancipazione civile.

Un vecchio sindaco di Milano sosteneva che la mafia al nord non ci fosse. Invece, purtroppo, negli anni recenti processi e inchieste dai nomi suggestivi come “Infinito”, “Nord-sud”, “Bad boys”, “Isola” hanno portato allʼinquietante conclusione che le organizzazioni criminali, soprattutto ʼndranghetiste, sono ben presenti e radicate al nord già da decenni.

I procedimenti di mafia hanno certamente unʼimportanza capitale, ma spesso hanno la stessa utilità di un cerotto nella lotta alla bronchite: intervengono a cose fatte, molti anni dopo; certo, impediscono che alcune cellule, o più raramente intere organizzazioni, continuino a operare, pongono ostacoli e spesso riescono a concludersi con pene bibliche per gli affiliati, ma non si può dire che riescano, di per sé soli, a portare il fenomeno mafioso ai titoli di coda.

Eppure, negli ultimi trentʼanni le organizzazioni hanno sempre espanso il loro potere, le loro aree di influenza, la loro vocazione policriminale. La ʼndrangheta, guardata globalmente, ha un giro dʼaffari approssimativamente equivalente al prodotto interno lordo del Lussemburgo, è radicata in Germania, in Canada, in Australia. Come nella fatica di Eracle contro lʼIdra di Lerna: tagliata una testa ne ricrescono due.

Non sembra spettare alle inchieste e ai procedimenti penali, quindi, la neutralizzazione della forma più insidiosa di criminalità. Accanto agli omicidi, alle estorsioni dei pizzi, alle gare pubbliche pilotate, cʼè tutto un sostrato culturale da sconfiggere, idee e scale di valori sbagliate da cambiare, legalità da insegnare. Come insegnato da Sciascia, Pirandello e Camilleri, cʼè una dimensione pubblica e lecita delle mafie, che è quella da tenere sempre ben presente per comprendere in realtà su quali binari è possibile che le varie organizzazioni si muovano.

Giuditta Pasta nei panni di Medea V&A Museum di Londra

Giuditta Pasta nei panni di Medea | Victoria and Albert Museum di Londra

Gli ambienti inclini a recepire i messaggi mafiosi rimangono gli stessi, la forza di intimidazione connaturata al sodalizio criminale organizzato rimane identica anche se i boss mafiosi sono latitanti o imprigionati; le famiglie si allargano, la ragnatela economica e politica viene tessuta senza sosta. Davanti alle attività illecite, punibili (pur coi tempi della giustizia) dallʼAutorità, la fitta rete di attività lecite, semi-lecite e in un certo senso “civili” continua senza sosta.

Bene, se è vero che il crimine, anche quello organizzato, è prevalentemente roba da uomini, sono spesso le donne di mafia ad avere un ruolo maggiore in questo secondo tipo di attività più “civili” e lecite: nascoste, ma preziose e necessarie, spesso le figure femminili legate al crimine organizzato sono capaci di rivestire sia il ruolo di vittime della cultura mafiosa, sia quello di ispiratrici della stessa, e vengono quasi a costituirne la linfa, il sostrato su cui si basa il vivere mafioso; infine, di recente si sono dimostrate anche abili nello svolgere compiti – per quanto ancora ancillari o delegati – di rilievo nellʼinteresse del sodalizio criminale.

Mi dilungherò prevalentemente sulle donne di ʼndrangheta, perché è lʼorganizzazione più diffusa al Nord e quella che ho maggiormente studiato; delineerò comunque tratti discretamente comuni anche alle altre mafie (Cosa Nostra, Stidda, Camorra e quello che rimane della Sacra Corona Unita).

Storicamente, anche gli stessi ʼndrangehtisti pensavano che le donne dovessero essere in un qualche modo relegate al di fuori dellʼorganizzazione: alle donne delle ʼndrine (intese come nucleo familiare affiliato) era generalmente vietato prendere parte ai riti di iniziazione; per questo non erano considerate investite dei diritti e dei doveri che in generale spettano agli affiliati. Lʼobbligo di fedeltà rivolto al marito già in un certo senso assorbiva quello per lʼorganizzazione; inoltre, spesso le donne fanno già parte delle famiglie biologiche che operano nello stesso ambiente criminale e quindi si trovano in uno stato di affiliazione originaria.

Medea di William Wetmore (1865)

Medea | William Wetmore (1865)

Davanti a questa osservazione si coglie la visione primigenia della donna facente parte di una famiglia ʼndranghetista: la componente di sangue, da sempre fondamentale allʼinterno delle mafie, nonché la determinazione a creare una nuova “società civile” allʼinterno della società civile, avevano necessariamente bisogno di madri, mogli, sorelle e figlie, chiamate a compiti più discreti e privati rispetto ai loro pari maschili. Al compito “naturale” di angelo del focolare se ne aggiungono altri, ancora tipici e antichi: le madri, prime educatrici, erano e sono chiamate alla trasmissione del codice culturale mafioso nei confronti dei loro figli e, con questo, i portati dellʼomertà e del disprezzo per le regole imposte dallʼAutorità diversa. Questo è un primo compito fondamentale, ancora nellʼottica di guardare alla dimensione “civile” delle mafie.

In secondo luogo, le donne ʼndranghetiste erano e sono in un qualche modo garanti della reputazione maschile e quindi dellʼonore in ogni suo senso. Legato indissolubilmente a questʼultimo aspetto cʼè quello del fungere da memoria storica della famiglia; da qui, si capisce perché le donne di mafia, subìto un lutto, fossero chiamate a fungere da incitatrici di vendetta, concetto cardine dellʼordinamento regolamentare della ʼndrangheta: le figure femminili dovranno ricordare ai loro uomini che sono chiamati a vendicare il caro ucciso, così da ristabilire lʼonore perduto. Talvolta, la stessa funzione implica il rammentare in genere i torti subìti diversi dallʼomicidio per suscitare lo stesso spirito di ritorsione.

Infine, figlie e sorelle di ʼndranghetisti sono state tradizionalmente viste come un valore che può essere utilizzato – al pari delle famiglie nobiliari di un tempo – come merce di scambio matrimoniale per suggellare lʼalleanza tra diversi clan.

Questi tratti, che ho brevemente accennato, fanno intendere come, dalla fine dellʼOttocento fino almeno agli anni Settanta, le donne delle ʼndrine rivestissero effettivamente ruoli che non avevano di per sé grande rilevanza penale, quantomeno se raffrontata a quella degli uomini affiliati. Questo ruolo di soggezione assoluta allʼautorità maschile mafiosa, tanto da assurgere allo stereotipo di donna sottomessa, era tra lʼaltro noto anche alle autorità inquirenti e garantiva in un certo senso lʼimpunità delle figure femminili pur orbitanti in tale contesto – favore che si rischia di estendere ancora oggi, in indagini e processi più recenti.

La relegazione della donna di ʼndrangheta alla sfera del privato (e, in questo, alle tre funzioni in un certo senso “passive” che ho appena elencato) non è venuta completamente meno con il cambio di attività che ha interessato tutti i grandi gruppi criminali organizzati in Italia dagli anni Settanta a oggi. Pur restando ancorate ai vecchi compiti, le donne si sono così rivelate risorse utilissime sia nel narcotraffico (lo spaccio in casa può essere quasi considerato vicenda domestica, quindi femminile), sia nella criminalità economica (come teste di legno, intestatarie fittizie di beni e società, oppure addirittura come capaci amministratrici di vere e proprie aziende), sia nel consolidamento del potere mafioso (come vicarie e ambasciatrici del familiare maschio morto, incarcerato o latitante).

Tracciate brevemente queste linee di massima – mi si perdonerà qualche approssimazione – si coglie il punto fondamentale, la banalità che vorrei emergesse: la lotta al crimine organizzato non si fa coi soli processi penali e non può prescindere da una dimensione educativa, da impartire tramite lezioni di legalità, eguaglianza e senso dello Stato. Lʼemancipazione femminile è senzʼaltro una delle prime armi per sconfiggere la dimensione più civile e insidiosa delle mafie, capace di assestare ai nuclei criminali organizzati colpi ben più dolorosi delle mere condanne.

di Gianluca de Rosa

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.