Inversione di rotta

La fenomenologia del ritorno attraverso il diritto e nel diritto

Nel mondo dei precetti normativi e dei percorsi giurisprudenziali l’inversione di percorso, che si sostanzia nell’atto di “direzionare” verso un ripristino, trova una sua precisa collocazione. Banalmente, si ha ritorno in giurisprudenza tutte le volte in cui le Corti, di merito o di legittimità, decidono di ripercorrere i propri passi e di aderire a un orientamento interpretativo. Nella prassi, accade spesso che vi siano reviviscenze di orientamenti giurisprudenziali abbandonati da tempo e che i giudici scelgano di adeguare le proprie sentenze e i principi ivi contenuti alle esigenze contingenti degli assetti normativi. Il diritto è rigore e come tale si lascia mutuare dalle logiche cangianti dell’esperienza. E l’esperienza vive in sé la ciclicità di infiniti cambi di rotta.

Si può scorgere la logica del ritorno persino nella stessa meccanica istituzionale dei compiti della Cassazione. La Suprema Corte, nell’esercitare la propria funzione nomofilattica, è chiamata a ritornare sul tenore interpretativo di una data norma. E, nel garantire l’uniformità interpretativa e l’esatta osservanza della legge, riapproda su un testo già capace di cambiare le nostre esistenze ma che ora necessita l’intervento sagace degli Ermellini. Quando la Cassazione rimette le questioni più raffinate alle Sezioni Unite, la sua componente più autorevole, la pronuncia che ne deriverà sarà un prodotto sofisticatissimo, capace di tornare su questioni controverse per porvi finalmente fine in modo armonico, uniforme e tranchant.

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È possibile ammirare una insolita declinazione del ritorno anche sul versante delle logiche processuali, laddove si intende il processo come meta-accadimento. In sede processuale si riaccende la narrativa di una storia che non si è risolta nella realtà. L’inevaso approda nel prudente campo di un giudice chiamato a dirimere la controversia; non farà altro che ricostruire accadimenti esteriori, tornare a fatti ormai rielaborati, fra tecnicismi e perimetri di ammissibilità: regole del gioco rigorosissime e diverse dalle logiche spontanee delle interazioni profane.

In ambito civilistico, è il nostro Codice Civile che assurge a bussola del ritorno, dell’approdo in una situazione antecedente. Tra i tanti precetti figura la ripetizione dell’indebito, disciplinata all’art. 2033 c.c., secondo cui «chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato. Ha inoltre diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda». Il fascino di questa previsione risiede nella sua capacità di garantire un rimedio restitutorio. In pratica, l’indebito si sostanzia nell’assenza o nel venir meno della giustificazione dello spostamento patrimoniale ed è il presupposto per ricondurre il patrimonio al “ritorno” nella situazione ex ante. La dottrina identifica nell’indebito non soltanto il pagamento di una somma di denaro, ma si estende anche a fenomeni eterogenei del nostro vivere in società, quali la consegna di una cosa, la costituzione di un diritto, o l’esecuzione di una prestazione.

Nell’ambito dei diritti reali, invece, l’idea del ritorno si lascia rielaborare in alcune delle azioni a difesa della proprietà e del possesso, tra cui quelle di rivendicazione e di reintegrazione, in cui vive la volontà di ripristinare l’equilibrio leso. La prima azione, contemplata all’art. 948 c.c., è considerata la regina tra le azioni reali. Questo rimedio giudiziale si pone a tutela del diritto di proprietà, il cui esperimento è finalizzato a ottenere, da parte del legittimo proprietario, la restituzione di un bene da chi lo possiede o lo detiene in modo illegittimo. L’azione di reintegrazione è invece un’azione posta a tutela del possesso. L’idea del ritorno si compie, in essa, nella sua capacità di volgersi a tutela di chi è stato privato dalla disponibilità di una cosa.

Ci sono poi altri contenuti civilistici che assumono i connotati tipici del ritorno. Il risarcimento dei danni, tra tutti, è emblema del ritorno a una situazione antecedente a un accadimento che arreca un pregiudizio distorsivo rispetto agli interessi di un dato soggetto giuridico. Il nostro ordinamento protettivo tende a voler conseguire il ritorno alle condizioni di partenza, garantendo rimedi risarcitori sia nel caso di responsabilità da inadempimento contrattuale, sia nel caso di responsabilità aquiliana (che origina in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno).

Dopo aver richiamato alcune tra le figure più evocative in ambito civilistico occorre sottolineare che anche la declinazione penalistica del ritorno ha una sua statura di pregio. In ambito penalistico la genesi del ritorno si disperde nell’intento rieducativo del regime sanzionatorio. La rieducazione del condannato è un motivo di ritorno: la pena è lo strumento catartico che consente il ritorno in società di chi si è contaminato dopo una parentesi criminosa. Nel nostro ordinamento la pena assolve una funzione rieducativa, come previsto dall’art. 27 della Costituzione, secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Un tempo questo ritorno era compromesso dalle logiche “retributive”. La pena era intesa quale corrispettivo afflittivo con funzione compensativa rispetto al male perpetrato da un dato soggetto. Storicamente, i grandi illuminati hanno poi contribuito a mutuare il nostro sistema in un eterno ritorno alla rieducazione e alla special prevenzione. In particolare, è molto controverso se gli effetti del carcere siano efficaci in tal senso o se sortiscano ricadute desocializzanti. Al fine di evitare dette ricadute, in alcune circostanze, il giudice ha discrezionalità di rendere la pena concretamente adeguata al recupero sociale del condannato e di ricorrere a un regime sanzionatorio differenziato, mediante misure alternative alla detenzione o mediante il ricorso a strumenti di premialità.

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Sul versante del diritto internazionale il ritorno è immanente alle pratiche negoziali insite nelle dinamiche proprie dei rapporti diplomatici. I casi che in maniera più eclatante hanno capacità di incidere negli equilibri geopolitici delle relazioni bilaterali hanno spesso a oggetto il ritorno di un agente diplomatico nello Stato di provenienza. Accade di sovente, però, che il richiamo di un ambasciatore sia un gesto senza un decorso effettivo. Questo gesto ha solo una valenza “di etichetta”: è una sorta di “minaccia”, di azione intimidatoria a cui non fanno seguito condotte ritorsive. Un esempio di forte risonanza mediatica accaduto recentemente è quello del richiamo dell’ambasciatore francese a Roma come conseguenza di alcune dichiarazioni forti da parte di un partito politico italiano su alcune condotte della Francia nelle sue relazioni estere, dopo il quale non è stato preso nessun reale provvedimento. I casi di ambasciatori chiamati a fare ritorno dall’estero hanno tuttavia un significato politico roboante perché nel dialogo tra i Paesi rappresentano segnali scomodi di rapporti incrinati, che talora fungono da preludio rispetto alla frattura della relazione.

Ma il grande eterno ritorno nietzschiano si lascia “consumare” con grande nitidezza in tutte le storie di commistione tra umanità, socialità e diritto. Tra le tante, si rammenta che i punti aperti e inesplorati del ritorno approdano nei fenomeni migratori e nella refrattarietà del diritto ad adeguarsi alle loro logiche fluttuanti e alle loro urgenze.

È pacifico, per concludere, che potrà scorgersi ovunque, in qualsiasi branca del mondo delle norme, il fascino pulsante e contraddittorio del ritorno, che involuto ed evoluto impregna l’andamento e le dinamiche del rigore normativo e dell’applicazione pratica.

di Simona Siciliani

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