Il meta-diritto in una scatola

Stratificazioni, gerarchie e confini nel tempo e nello spazio

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… «la società umana o l’umanità sociale»[1], soggette al diritto per regolamentarsi. Il diritto è struttura unica e sofisticata preposta a disciplinarne l’esistenza, a prevenirne il caos, a convogliarne le energie e dirimerne le controversie. Non è la legge morale ad assumere il comando, ma il diritto positivo, codificato e stratificato in un ordinamento.

Il diritto positivo (ius in civitate positum) è l’insieme di tutti gli enunciati prescrittivi che ricollegano effetti giuridici a ipotesi astratte. Il diritto è rigore sull’astrazione. Ma cos’è in concreto l’evento su cui le norme si fondano e assumono la loro struttura deontica? La fattispecie (dall’etimo species facti) è rappresentata e ricostruita come accadimento del mondo esteriore, attratto dalla meccanica intellettuale della tecnica giuridica che ne stabilisce le conseguenze, raffinandone i presupposti. Che sia un regime domestico di matrice penalistica o civilistica o che sia diritto sovranazionale, gli effetti sono contenuti in maniera lapidaria nelle formule normative applicabili nei confini spazio temporali di riferimento: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”; “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno”; “Quando il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato sia stato accertato in una data posteriore all’entrata in vigore di detto trattato, esso, a meno che non sia disposto altrimenti, entra in vigore nei confronti di tale Stato in quella stessa data”. Il diritto è congenito, esiste e vive nei rapporti, che la posta in gioco sia la libertà di un individuo o che sia l’inadempimento di un debitore o la stipula di un contratto internazionale, il diritto impera e adempie alla sua funzione risolutrice. Il diritto ha il potere di aprire e chiudere il cerchio con l’ultima parola, anche quando si incastra con l’autonomia delle parti a cui ha concesso libertà e le cui volontà si intersecano all’insegna del contratto.

Il diritto è uno strumento sofisticato, capace di orientarsi verso tutti gli aspetti dell’essere. La funzione dell’ordinamento vigente è quella di tipizzare e ricomprendere tutte le sfaccettature della società. La pretesa è quella di categorizzare e disciplinare in maniera generale e astratta.

La genesi del diritto positivo è articolata e complessa. Le norme nascono attraverso la legge o mediante il combinato di esse. Il diritto positivo è dunque il prodotto di un fenomeno normativo procedimentalizzato. Il complesso intricato e mastodontico di norme che si rivolgono alla nostra esistenza di consociati promana dalle “fonti” che l’ordinamento riconosce come tali. La carica autoritaria e coercitiva del diritto è garantita proprio dalla forza eteronoma dell’atto che ne dischiude il precetto.

Illustrazione di Ludovica Marani, 2019

Il diritto è stratificato e si declina nel mondo attraverso gli imperativi dati dalla gerarchia delle fonti, primo e unico contenitore del meta-diritto, scatola vuota che stabilisce la primazia tra gli atti che contengono i precetti. Alcuni precetti sono quindi destinati a prevalere sugli altri e a decretare l’armonia a cui l’ordinamento dovrà sempre tendere nel suo complesso, sia in relazione al suo interno che in rapporto con alcune fonti sovranazionali. Nel caso di norme eurounitarie i criteri da rispettare sono molto complessi e la necessaria conformità delle norme interne è ordinato dal principio di attribuzione di competenze e dunque dagli obiettivi che le fonti intendono perseguire.

Le famosissime sentenze “gemelle” del 2007 hanno invece qualificato le norme CEDU come “parametri interposti” di costituzionalità indiretta con cui le nostre leggi ordinarie non possono confliggere. Sul versante internazionale “puro” gli equilibri sono invece molto più delicati perché si confrontano con le precarie e insidiose intersezioni con le dinamiche geopolitiche e con le necessità di enforcement.

Al di là dei delicati rapporti di forza ed equilibrio tra atti, ci si interroga spesso sui confini del diritto, sui limiti della tecnica e sugli esiti contraddittori delle operazioni rigorosissime di sussunzione dei fatti, interpretazione delle norme e applicazione delle stesse. Il perimetro del diritto potrebbe assumere, a tratti, le sfumature incerte dell’orizzonte, valicabili mediante i canoni ermeneutici dell’applicazione analogica, con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi demoni. Ricorrere all’applicazione di una norma per analogia significa consentire al diritto di espandersi dal tenore letterale e di esorbitare dalle ratio originarie della norma in considerazione, perché “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato” (art. 12 Preleggi). La nostra Costituzione però ci protegge da questa eventualità, preconizzando il divieto di applicazione analogica in diritto penale (25 Cost., art. 14 Preleggi e art. 199 c.p.). Questo scudo rafforza il principio di legalità ma, nell’ottica di preservare la garanzia del favor libertatis contro i possibili arbitri del giudice, deve essere inteso a esclusione dell’applicazione analogica in bonam partem, secondo cui il reo ha diritto di beneficiare dell’applicazione analogica delle norme favorevoli (come le scriminanti).

È questo il confine sottile in cui il diritto rischia di inciampare nel paradosso di una mise en abyme. Così come nel problema politico di cui si è parlato prima, su “chi educa gli educatori”, la difficoltà del diritto si dipana nel rapporto gravitazionale tra giurisdizione e normazione, tra sistemi domestici e fonti sovranazionali e, all’interno di queste ultime, tra fonti convenzionali e pattizie. Il diritto si stratifica su dimensioni multiple che ripercorrono anch’esse la struttura delle scatole cinesi.

La fragilità di questo articolato sistema, contraddittorio e sofisticato impatta sull’etica e può condurre a esiti estremi, se analizzati con lenti giusnaturaliste. È un imperativo dei difensori dell’inderogabilità di alcuni diritti tendere alla sensibilizzazione verso la positivizzazione di ogni condotta potenzialmente pericolosa. È esempio di finissima critica il percorso logico del giurista tedesco Gustav Radbruch che, a partire da un caso di palese lesione di diritti umani avvenuto durante il regime nazista e non ancora criminalizzato, dava una “formula” che suggerisce al diritto sovranazionale di intervenire nel caso in cui un atto legale superi una soglia di “intolleranza”, soglia offuscata dai suoi stessi connotati, da valutarsi “on a case-by-case basis”, dunque in modo inevitabilmente impreciso e scevro da definizioni. Il fascino del nostro ordinamento risiede quindi nella capacità del “meta-diritto” di rendersi elastico e cangiante, ma ferreo e teso ad assicurare la certezza dei rapporti, al fine di evitare che i venti del rigore conducano a esiti paradossali. I principi inderogabili del nostro sistema sono la bussola nella tempesta. Ma il diritto è il risultato di scelte umane, transitorie, politiche, pertanto fallibili, imprecise, incapaci di rendere il diritto onnipotente e polivalente.

Tutta la tragedia della sua imperfezione si è consumata in una sentenza della Suprema Corte, in relazione agli episodi di Bolzaneto e Diaz che hanno avuto luogo in occasione del G8 di Genova nel 2001. La Cassazione riconobbe «l’assoluta gravità di un massacro ingiustificabile, una pura espressione di violenza», ma era impossibilitata a condannare data la mancata previsione in Italia del reato di tortura. Il nullum crimen, nulla poena sine lege ha impedito alla Corte di sentenziare come opportuno nonostante fosse «oltre ogni ragionevole dubbio che vi siano stati episodi che hanno gettato discredito sulla Nazione». In quel caso però, prima che l’iter parlamentare per l’introduzione del reato di tortura si concludesse, è intervenuta Strasburgo che ha condannato l’Italia per l’inadeguatezza delle norme interne a punire e quindi prevenire gli atti di tortura, nel caso di specie commessi dalle forze dell’ordine nelle notti del luglio 2001.

Sin dal 1776 Pietro Verri sosteneva: «Convien pure accordare, e sull’esempio delle unzioni pestifere e sulle dottrine de’ maestri della tortura, ch’ella è crudele e crudelissima e che se al giorno d’oggi la sorte fa che gli esecutori la moderino, non lascia perciò di essere per se medesima atroce e orribile, quale ognuno la crede, e queste atrocità e questi orrori legalmente autorizzati può qualunque uomo nuovamente soffrirli, sintanto che o non sia moderata con nuove leggi la pratica, ovvero non sia abolita». Eppure il nostro ordinamento è rimasto silente sino al luglio 2017. Ma la straordinarietà delle corti sovranazionali depositarie di poteri di protezione di principi immanenti, spesso contrastate dai nazionalismi irriverenti, ci ha protetti anche dal “cortocircuito” del nostro sistema interno.

L’antropologia ci insegna poi che i confini del diritto positivo si intersecano spesso con il diritto naturale. E questo dissidio filosofico che lotta da sempre, respira tutte le volte in cui i casi mediatici esorbitano dalle aule di tribunale, intercettando interesse e curiosità tra i “profani”. E in quelle occasioni gli accadimenti si lasciano rielaborare al di là della tecnica, oltre il perimetro della normazione e della giurisprudenza e assumono i connotati “impuri” della speculazione e i colori diversi spesso impropri delle opinioni. Il diritto rivela il suo più grande limite tutte le volte che per caso, nelle strade del mondo si pretende che il diritto adempia una funzione esemplare. Pochi giorni fa ho rivissuto l’eterna contesa tra giuspositivisti e giusnaturalisti quando in tram sentivo una signora criticare “i giudici” per il caso Franzoni, nonostante abbia espiato la sua pena. Perché a volte dimentichiamo cha la nobile funzione della stessa è quella rieducativa e non anche retributiva.

La stratificazione del diritto consente a questa istituzione umana di disciplinare anche se stessa e le modalità della propria evoluzione, adeguandosi nel tempo al mutamento della sensibilità collettiva. Spesso però il diritto ha tempi diversi, più lenti e dissociati rispetto all’evoluzione repentina della realtà. Lo dimostrano le gig economy che avanzano, continuando ad alterare i volti dei rapporti di lavoro e a infrangersi sugli istituti contrattuali, previdenziali e retributivi. Ma il diritto è ancora nel limbo e le corti di prime cure si approcciano con creatività ai ricorsi dei fattorini di Foodora che richiedono la riqualificazione in rapporto di lavoro subordinato per consegnarci la pizza scelta dallo schermo di uno smartphone nelle serate uggiose.

Ma quali sono le relazioni tra diritto e tempo? Hanno indubbiamente un rapporto controverso. Spesso il diritto sa essere specchio dei tempi e altre volte risulta inadeguato. Anche il diritto invecchia, eppure il fascino del legislatore del 1942 che aveva già pensato a tutto nel Codice Civile ci lascia spesso interdetti. Nonostante le sue rughe e nonostante gli emendamenti e le novelle, il diritto è talmente sofisticato e diabolico da aver regolamentato il suo rapporto con il tempo. Ha deciso di sottrarsi, talora, allo scorrere del tempo per scegliere di adeguarsi all’intreccio degli eventi. È una norma non costituzionalizzata ma che trova riscontro nell’art. 11 delle Preleggi che prevede che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Ma poi la dimensione processuale ha le sue regole, la sua meccanica, la sua collocazione temporale, imperniandosi sul principio del tempus regit actum, secondo cui “l’atto processuale è soggetto alla disciplina vigente al momento in cui viene compiuto, sebbene successiva all’introduzione del giudizio”.

Se non sopravvivessero ambiguità temporali come queste nel rapporto fra la teoria normativa e la sua applicazione processuale mancherebbe uno strumento utile per fronteggiare la pericolosa possibilità che potere legislativo ed esecutivo vengano a coincidere. Il miglior esempio ce lo dà il poema delle Mille e una notte: come riesce la bella Sheherazade a impedire al sultano l’attuazione della regola terribile da lui stesso stipulata? Differendo indefinitamente nel futuro la sua applicazione grazie a una astuzia. Il suo escamotage è, semplicemente, dire…

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Note

[1] F. Engels, Marx/Engels Collected Works, Vol. 20, International Publishers, New York 1985, pp. 82-83, p. 86.

di Simona Siciliani

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