Il ritorno

Come sempre è l’I Ching, il testo millenario oracolare cinese, a offrirci i temi da osservare nello specchio panoptico della nostra rivista. Stavolta l’argomento è davvero iridato perché quello del “Ritorno” è uno spunto che, a volersi anche solo limitare alle culture dell’Asia, come compete di solito a questa introduzione, se ne avrebbe di che affrescare una cattedrale.

Edotti dal simbolo dell’Uroboro, il serpente che si morde la coda, appaiono i temi dell’eterno ritorno, della metempsicosi, della circolarità temporale, dei kalpa, eoni e altre ere cosmiche e, inevitabilmente, la montatura anulare e spiralica della legge karmica, così come nasce a suo tempo in India. Secondo il Karma, l’accumulo di lasciti e debiti di ordine morale crea un’avipraṇāsa, ossia un disavanzo permanente che si riverbera nelle vite future chiedendo, presto o tardi, il proprio riscatto.

Tuttavia, per scremare, è utile concentrarsi anche sul secondo tema che ci viene elargito dall’I Ching, il simbolo della “Pace”, che ricorre quale sviluppo ed esito del tema di partenza, il che sembra suggerirci di trattare la questione del nirvāṇa. È un tema che a sua volta ritorna, poiché in uno scorso numero ci eravamo già soffermati a distinguere la meta irenica, così intesa inizialmente nella corrente buddhista del “piccolo veicolo”, da come viene in seguito concepita nel buddhismo Mahayana, ovvero come nirvana “non dimorante” (apratiṣṭhitanirvana), detto altrimenti nirvana “con residuo” (sopādhi-śeṣa), cioè una forma di illuminazione nella quale il soggetto esperiente avrebbe la possibilità di catapultarsi del tutto fuori dalla ruota del saṃsāra ma decide di rimanere o ritornare nell’aldiquà per consentire anche agli altri esseri di salire sul “grande carro” della salvezza.

Storicamente pare che l’insorgere di questa nuova dottrina si debba anche all’approfondimento di una tecnica meditativa, la cosiddetta buddhānunmsṛti, che si concentra sulla “rammemorazione” dell’immagine del Buddha allo scopo di rievocarlo e farlo rinvenire in spiritu. Questo sulla base della teoria secondo cui Siddharta Gotama sarebbe solo uno dei tanti Buddha, quello “storico”, preceduto da altri che, a seconda, vanno dai 6 ai 18, e seguito da almeno altrettanti, tutti epifanie di un’unica entità che ritorna ciclicamente per redimere l’umanità. Da notare che in alcune frange cristiane settarie, come i pauliciani, i bogomiliti o i catari, tutte di derivazione mediorientale, vi è una dottrina analoga riferita al Cristo. Il soggetto centrale del Mahayana non è più quindi l’arhat, l’illuminato, ma il bodhisattva, colui che è in cammino verso l’illuminazione, preso come modello da seguire.

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Per il suo Pellegrinaggio in Oriente, Hermann Hesse attinge a piene mani da questa tradizione, descrivendo di fatto un «ritorno all’infanzia» e chiedendo in prestito a Novalis i versi che dicono: «Dove mai andiamo? Sempre a casa». Un autentico nostos che rovescia l’impianto orizzontale e topografico in uno spirituale e verticale fino alle soglie del Morbio inferiore, un’allegorica gola che si apre nelle viscere della terra. Un’immagine analoga ricorre proprio in uno dei testi fondativi del buddhismo Mahayana, il Sutra del Loto, nel capitolo in cui il Beato di fronte all’assemblea dei monaci apre una spaccatura sul suolo del mondo di Sahā da cui continuano a fuoriuscire milioni di bodhisattva per la durata di cinque kalpa, che però nella percezione degli astanti rimasti in silenzio sembra durare appena un pomeriggio.

La forma del simbolo proposto dall’I Ching per il significato del “Ritorno” si confà a queste metafore. È quella di un’unica linea intera che emerge dal basso, nell’immagine di una palingenesi dal sottosuolo.

Anche il punto di approdo della rielaborazione di Hesse conserva un utile topos, cioè quello di un grande trono non ancora occupato. Qui possiamo rifarci invece allo studioso orientalista Henri Focillon, il quale attua un bellissimo parallelismo fra un’effige numismatica del trono vacuo del Buddha, con ai piedi i suoi congiunti, la moglie Yashodharā e il figlio Rāhula, e le icone bizantine che raffigurano l’etimasia del Cristo, ossia il seggio vacante con sopra le vestigia del mantello del Giudizio e del Libro della Legge. Da una parte cioè la necessità di recidere definitivamente i nodi terreni nonostante i legami affettivi, e in ciò le origini principesche del Buddha Śākyamuni sono un’ulteriore prova della difficoltà di lasciarsi alle spalle la bambagia senza tornare fra le mura regali e domestiche, e dall’altra parte la promessa di un futuro ritorno da parte del Re dei Giudei per concludere la sua missione redentrice.

In effetti, il tema del ritorno non può non evocare anche il messianismo il quale, oltre agli altri due grandi monoteismi – nella forma davidica ad esempio o quella islamica duodecimana – non è estraneo nemmeno alle tradizioni religiose estremo-orientali: si pensi all’amidismo in fervente attesa del ritorno soteriologico del Budda Amitābha o alla devozione verso Maitreya, il Buddha del futuro, assiso in prospettiva del suo rimpatrio alla fine della presente èra cosmica.

Ancora una volta, Hesse piega il concetto per parlare del suo presente, alludendo ai profeti e discepoli pieni di presagi nell’avvento di un Terzo Regno millenario, baluardato da una svastica malamente trafugata dal bagaglio iconografico indo-vedico. Per dirigere noi stessi il torrione al nostro presente, posso personalmente ricordare un recente e piacevole incontro al teatro Corte dei Miracoli sul romanzo La peste, a proposito della chiave di lettura del capolavoro di Camus come metafora del nazionalsocialismo. Anche da quel claustrofobico congegno letterario, ambientato nella città algerina di Orano cinta dal cordone sanitario, sembra impossibile ai personaggi di evadere, così come sul testo dell’I Ching si legge, nel capitolo del “Ritorno”, che gli antichi re durante i solstizi invernali chiudevano i valichi impedendo a mercanti e stranieri di viaggiare. Si disegna bene il contraltare fra Lo straniero, dramma di un outsider, e La peste, tragedia di tutti gli insider, a volersi servire del simbolo (esagramma) dell’I Ching, in cui un’unica linea yang individuale subentra dall’esterno nella folta di linee yin spezzate.

Nel Rovescio e il dritto Camus scriveva: «Non mi piace credere che la morte dia accesso a un’altra vita. Per me è una porta chiusa», il che parrebbe inapplicabile alla nostra speculazione circa il ciclo di nascite e morti e il tema del nirvana. Ma l’intuizione maggioritaria della metempsicosi confonde troppo spesso, anche etimologicamente, la persistenza della vita post spiritum con quella post corpus. Il problema della “metemsomatosi”, a rigore, è che all’obito del corpo persiste l’animus quale sede del logos. La quaestio della vita dopo la morte, problema prettamente logico oltre che etico, non viene quindi risolto affatto poiché il soggetto che patisce il problema non è ancora postumo di sé. È questo l’assurdo cui allude Camus nei suoi saggi, attraverso l’incessante ritorno della pietra sisifea, né più né meno di come, in seno alla tradizione buddhista, sorsero in passato delle critiche alla descrizione del nirvana come mahāsukha, “grande beatitudine”, dal momento che affinché qualcosa si bei è necessario che permanga pur sempre un sostrato.

Non aprirò certo qui il dibattito sul sostanzialismo, mi limito a rinvenire una somiglianza tra la difficoltà del monaco Nāgasena di descrivere al re Milinda il nirvāṇa in mancanza di opamma, cioè di esempi concreti, dato che il nirvāṇa è davvero un ganz Anderes, e la cifra paradossale che Camus assegna all’esistenza di ciascuno di noi all’interno del mondo, orfana di qualsivoglia indizio eterogenico dato che tutto ciò che compone e si oppone al problema rimane ingrediente essenziale del mondo stesso, al punto tale che l’unico atto in controtendenza e meritevole di attenzione filosofica sembra essere, a suo avviso, quello del suicidio.

In questa breve intro ci è lecito andare più cauti, soprattutto dopo aver conosciuto una esule scappata dalla Cina a causa della persecuzione del governo contro gli aderenti alla Chiesa cristiana di Dio Onnipotente, messa all’indice in quanto settaria. La ragazza, di cui tuteliamo l’identità, per essere stata scoperta a pregare nascosta in cantina con una sua amica a causa della delazione – pensate – del fratello di lei, dopo mesi di carcere preventivo e probabili sevizie, ed essere stata rilasciata in mancanza di prove e documenti, non si è persa d’animo né abbandonata a drastiche soluzioni. Avendo ottenuto un visto turistico per Milano durante Expo 2015 è riuscita a scappare dal suo Paese. I familiari non sapranno mai se la sua assenza significa che ce l’ha fatta o se invece è stata condannata all’ergastolo, né lei potrà mai più far loro sapere nulla, per non metterli in pericolo. Il grande piccolo veicolo di un miliardo e mezzo di esseri umani, come l’appestata Orano e forse il mondo intero, come suggerisce Camus, diventa sempre più un’impermeabile assurdità, di cui purtroppo le notizie che trapelano sono scarse e manipolate.

Forse, oggigiorno, l’esempio del bodhisattva che ritorna sui propri passi dovrebbe venire reinterpretato come uno sprone a restare a vivere in questo mondo, anziché abbandonarlo a se stesso.

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!