DOPO IL COMPIMENTO

Stavolta il tema è impegnativo. Ma, d’altronde, per festeggiare l’edizione n. 30 della nostra rivista bisogna meritarselo, quindi entriamo in medias res

L’ultima consulta dell’I Ching, ciclica occasione per estrapolare argomenti su cui aprire divaganti riflessioni, ha dato come risultato l’esagramma n. 63 dal titolo: “Dopo il compimento”.

L’immagine emerge, come sempre, dai due segni naturali messi a confronto. Stavolta abbiamo l’Acqua (Kkann) che sta sopra il Fuoco (Li), nell’idea di un sole ormai tramontato al di sotto dell’orizzonte del mare. È quella fase extra-liminare dove l’evento ha già avuto luogo (il tramonto) ma ne rimane ancora una scia (il crepuscolo), traccia residuale dell’avvenimento.

Il crepuscolo sul Lago Turkana (Kenya) - foto dell'autore
Il crepuscolo sul Lago Turkana (Kenya) – foto dell’autore

«Il trapasso dal tempo antico a quello nuovo è già compiuto», dice l’I Ching, «Qui si stabilisce la regola abituale dell’andamento delle cose nella storia», aggiunge, indicando che questa traccia dell’evento che fu e di nuovo sarà (il sole che sorge domani) può essere anche dedotta in anticipo, nell’idea di una previsione. D’altronde, abbiamo a che fare con un oracolo. «Il signore pondera il disastro e se ne premonisce in tempo».

Ne risulta uno stato di equilibrio, momentaneo, fragile ma intenso, reso dalla metafora della pentola d’acqua sul fuoco: se c’è troppa acqua, trabocca e lo spegne, se il fuoco è troppo forte la fa evaporare. Devono bilanciarsi. «Proprio quando è raggiunto l’equilibrio perfetto», ammonisce l’I Ching, «Ogni movimento può far nascere di nuovo da uno stato di ordine un crollo».

Per sviluppare la nostra interpretazione, cominciamo a intendere il fuoco in questione come l’illuminazione, entrando così nel dominio concettuale di competenza del Buddhismo. Aggiungiamo poi l’idea di un’illuminazione che, a differenza di quanto recita l’ortodossia, sia uno stadio ultimo ma non ultimativo. È cioè un “equilibrio perfetto” ma, allo stesso tempo, per certi versi reversibile.

Nelle prime scuole buddhiste – in particolare nel Theravāda – i discepoli (Śrāvaka) ascoltano le parole del Maestro aspirando a diventare arhat (risvegliati) ed entrare nel nirvāa, ma non possono diventare Buddha poiché ne esiste uno solo per ciascuna era cosmica. Nella nostra fu Gotama, nella prossima sarà Maitreya (così è scritto nel Canone Pāli). 

“Se c’è troppa acqua, trabocca e lo spegne, se il fuoco è troppo forte la fa evaporare”

Semplifico, per arrivare a dire che nel buddhismo Mahāyāna, invece, spicca la figura del bodhisattva che non è più colui che accede al parinirvāṇa lasciando dietro di sé, a mo’ di traccia, soltanto il Dharmakāya, cioè il corpo dei suoi scritti, ma decide di rimanere nell’aldiqua per aiutare gli altri esseri senzienti, nella convinzione che tutti partecipino della “natura di buddha” (tathāgatabarbha).

La vera missione del bodhisattva, promessa attraverso un voto (praṇidhāna) per un atto di amore e compassione (bodhicitta), comincia allora dopo il compimento della bodhi, ossia dell’illuminazione personale, che scende in secondo piano rispetto alla salvezza dell’intera umanità.

Di conseguenza, non esiste più uno stacco netto, né un’autentica differenza, fra saṃsāra e nirvāa.

Per fare un passo oltre questa semplificazione, forse utile ai non esperti di religioni orientali, è utile chiamare in causa il grande monaco e filosofo Nāgārjuna, vissuto fra II e III secolo d.C. e autore di un testo piuttosto criptico dal titolo: Madhyamakakārikā, ossia “Stanze del cammino di mezzo”. Qui dice anche lui che, nel cammino spirituale, non si può discernere un limite anteriore da uno posteriore, poiché la trasmigrazione non ha inizio né fine. Si accorge però che, «Se nella produzione, nella durata e nella distruzione c’è un ulteriore carattere di coeffettuato – ossia un residuo – si ha allora un regresso all’infinito», perché occorre chiedersi da dove venga questo strascico che resta una volta compiuto l’atto e quale sia il compimento del post-compimento. 

Tale paradosso si può risolvere, secondo me, proprio con la figura contro-paradossale del bodhisattva (che Nāgārjuna però non nomina direttamente), cioè di un essere già trasceso ma ancora immanente. «Di un essere che sta per annientarsi», come scrive Nāgārjuna, «Il prodursi è logicamente insostenibile». Il bodhisattva diventa quindi la prova dell’esistenza di «un atto senza un agente», idea che, giunta in Cina, ben si sposerà al principio del Wu wei, l’azione della non-azione. «L’agente entra in azione condizionato dall’atto», dice Nāgārjuna, quasi prefigurando la nozione moderna di “attante”, è cioè il puro simbolo di un’azione da mettere in pratica disincarnandosi da un agente specifico perché quell’agente, potenzialmente, siamo tutti noi. Noi siamo infatti garanti dell’immanenza di tale atto, proprio nell’atto di inverarlo, altrimenti esso si ridurrebbe all’idea di un atto in sé, com’era nel Buddhismo antico dove l’illuminazione era quasi un’utopia riuscita a un solo individuo nell’arco di un’intera epoca cosmica. «Se l’atto esistesse in sé», afferma Nāgārjuna, «Esso sarebbe senza dubbio non solamente eterno, ma anche non compiuto». Invece il compimento di cui stiamo parlando si auto-supera per sua stessa definizione.

Testa di Bodhisattva - Metropolitan Museum
Testa di Bodhisattva – The Metropolitan Museum of Art

Nella Cina del XII secolo, l’acuto pensatore Zhu Xi riprende queste tematiche esprimendo il concetto di taiji, ossia di “Culmine supremo”, l’atto che racchiude in sé la completa e unica manifestazione del qi, l’energia cosmica.

Incappando nelle critiche di alcuni suoi colleghi, Zhu Xi osò dire che il “Culmine supremo” equivale al “Senza culmine”, poiché: «Il Culmine supremo non è che un’altra parola per dire “Principio”», il che significa che si crea una struttura ad anello dove il télos coincide con l’archè, dove la “costituzione” dello scopo equivale alla “funzione” del mezzo, entrambi aspetti del Dao presi da due punti di vista diversi, come il ventaglio che quando è aperto e lo si agita è in funzione, quando è chiuso e raccolto è costituzione.

Con sapienza arcaica, l’I Ching aveva già saputo risolvere figurativamente questo dualismo, disegnando il diagramma dei suoi simboli in un cerchio in cui il penultimo è: “Dopo il compimento”, e l’ultimo si intitola: “Prima del compimento”. Sembra un quadro di Escher, un cerchio che trova la sua quadratura stringendo un fiocco fra i due estremi, risolvendo così il timore del regressus di cui parlava Nāgārjuna.

«Come sapere se sia il principio a venire per primo e l’energia per seconda, o l’inverso?», si chiedeva Zhu Xi. Ebbene, gli esagrammi 63 e 64 dell’I Ching si comportano fra loro come atto e potenza aristotelici, in cui l’uno precede dal punto di vista logico, l’altro dal punto di vista cronologico. «È come un seme di miglio che dà un germe», spiega Zhu Xi, «Che a sua volta dà un fiore», laddove allora «il seme – per aggiungere le parole di Nāgārjuna – non è né annichilato né eterno».

Diagramma dell'I Ching in forma di mandala
Diagramma dell’I Ching in forma di mandala

Per concludere, il compimento di cui ci parla l’I Ching in questo numero non è un traguardo situato in fondo a un cammino lineare, ma è come il satori della tradizione Zen, un’illuminazione immediata che può aver luogo in qualsiasi circuito a loop, non ha un “prima” e un “dopo” ma solo un’uscita dallo stato di latenza, perché in tutti noi si nasconde un Buddha come il dio Brahmā nascosto nell’ombelico di Viṣṇu.

di Federico Filippo Fagotto

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Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!