Il mite

«Talvolta si ha da fare con nemici nascosti, con inafferrabili influenze che si rintanano negli angoli più bui influenzando da lì suggestivamente la gente»

Questa frase dal capitolo 57 dell’I Ching, intitolato Il mite, diventa molto allusiva se letta nella Milano quieta e spettrale della quarantena anti-coronavirus. Ovviamente i “nemici nascosti” non sono i letali microrganismi bensì le nostre paure. Ma dalla Cina, per fortuna, oltre che il morbo arriva anche il nostro libro preferito: l’I Ching, il patrocinatore dei temi di questa rivista, che ormai ha reso forse anche noi un po’ aruspici visto che nell’introduzione del numero scorso avevamo già menzionato l’infetta città algerina di Orano dalla Peste di Camus. Ora però non dite che La Tigre di Carta porta sfiga! È un buon momento, anzi, per cercare di rifletterci su.

La dhyāna, radice sanscrita del termine giapponese zen, indica nella tradizione buddhista una serie di pratiche meditative composte su cinque livelli fino al conseguimento dei poteri sovrannaturali. Riguardo al nostro tema, a interessarci è lo stadio della “meditazione di calma” (śamatha) che precede quella “di visione” oggi assai più diffusa, cioè il vipassanā. È utile notare che fra i kasiṇa, cioè gli oggetti che ispirano la concentrazione, questa meditazione predilige un oggetto non fisico come il respiro, eredità delle pratiche yogiche sul prāṇa, il controllo del fiato, il cui nume tutelare era Vāyu, dio del vento. Anche il simbolo dell’I Ching che sta per “Mite”, infatti, è composto dall’elemento aereo raddoppiato, vento su vento, il che fa dell’esagramma 57 un segno doppio.

La diffusione “virale” delle nuove correnti buddhiste fondate sulla dhyāna non tardò a espandersi dall’India alla Cina non appena il maestro Bodhidarma, nel VI secolo dopo Cristo, viaggiò fino a Canton, Nanchino e Loyang e, assunto il nome di Ta Mo, collocò entro le mura del Celeste Impero la propria scuola. Il terreno era già fertile dato che il Taoismo autoctono, esaltando il vuoto, il silenzio e l’inesprimibilità, prestava il fianco alle pratiche meditative del Ch’an, così come poi farà in Giappone lo shintoismo nei confronti dello Zen. Già il monaco taoista Lie-tse sapeva profondersi a tal punto nel proprio pensiero da annullare l’io e chiedersi: «Ero io portato dal vento o ero io a portare il vento?»

Nacque presto un dualismo tra la sfera dell’azione (fra cui il lavoro, la politica, la guerra, ecc.) e quella meditativa legata, potremmo dire, all’otium. Quando nel XIII secolo la Cina fu sconvolta dall’arrivo dei mongoli, il saggio maestro Seigen reagì stoicamente agli invasori dicendo: «La vostra spada come un lampo si appresta a tagliare il vento di una primavera». Come dire: fate pure, io resterò qui serafico e tranquillo.

Eppure, la mitezza promossa da Bodhidarma non andava, in realtà, verso forme di atarassia e aponia come nelle scuole ellenistiche. Emblematica la leggenda secondo cui il maestro si sforzò di non addormentarsi durante la meditazione al punto da strapparsi via le palpebre gettandole a terra. Nel punto in cui caddero sorse la pianta del tè, in aiuto alla lotta monacale contro l’assopimento.

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Mi è stata preziosa una conversazione avuta con un’amica, di famiglia e cultura ebraica, che ha scritto anche per la nostra rivista. Abbiamo discusso a proposito del concetto biblico di menuchà e del Patto del Riposo instaurato fra Dio e gli uomini all’epilogo dei sei giorni della creazione. Anche qui, infatti, il riposo non è astensione dallo sforzo, poiché le melakhòt – le attività proibite durante Shabbat – non sono per forza quelle che implicano maggiore fatica. Al contrario, agli ebrei praticanti spesso costa impegno astenersi da alcune di queste pratiche. Prese nel mirino e bandite sono piuttosto le attività che comportano delle ghezeròt, cioè delle finalità e delle realizzazioni. Nella Torah viene detto chiaramente, anche se di primo acchito sembra paradossale, che Dio ultimò la creazione mediante lo Shabbat, cioè inventando una non-attività, poiché di fatto era l’unico elemento che ancora mancava all’interno della Creazione e che viene ricordato ogni sabato dai credenti. Il wei wu wei del Taoismo, cioè “l’azione senza azione”, in fondo non è molto diverso da questo concetto.

E anche il mondo musulmano non dovrebbe fare specie, se solo ci si ricordasse che la nozione di jihâd, prima di indicare la guerra santa, definiva etimologicamente lo “sforzo” personale e non-violento compiuto dal fedele per avvicinarsi ad Allah.

Questo fece dire a Gandhi, che a questo punto non possiamo non citare, che anche il fondamento dell’Islam è incentrato sull’ahiṃsā da lui promossa, cioè la non-violenza, nel vano tentativo di unire hindu e muslim. Gandhi rigettò quindi a sua volta le akhada, le pratiche marziali fondate unicamente sull’autodifesa, nell’idea che, così come nel fin troppo sottile discrimine fra jihâd offensivo e difensivo, non esistesse un criterio legittimo per servirsi della reazione violenta in nessun contesto.

A guardarli da lontano, il ruolo del rabbino e quello del brahmano in ciò sono opposti. Il rabbino è l’unico che lavora durante Shabbat, officiando in sinagoga, e lo fa per consentire ai fedeli di rispettare il Patto del Riposo. Al contrario, tutto il sistema castale induista viene eretto per assegnare i lavori ai diversi gruppi sociali in modo da esentarne i suoi vertici per tutelarne la purezza rituale. Contro tutto questo, Gandhi ha proclamato che ogni uomo è uno shudra, cioè un membro della casta più bassa, poiché ciascuno è chiamato al lavoro in modo da usufruire tutti parimenti anche della libertà dal lavoro stesso. L’attività utile ma riposante di filare alla ruota del charka, poi impressa sulla bandiera indiana, è il simbolo di questa “azione senza azione” propagandata dal Mahatma.

Per concludere, lanciamo uno spunto affine a questi principi esortando a un’attività consimile: la scrittura. Consiglio a tutti di leggere lo Tsurezure-gusa, il capolavoro di Kenkō Yoshida, monaco giapponese del XIV secolo. L’opera, tradotta come Ore d’ozio, è una sorta di pigro diarietto aforistico cui il monaco si dedicò senza pensarci troppo su, dicendo: «Nelle mie ore d’ozio, seduto davanti al calamaio, vado annotando giorno per giorno, senza alcun motivo particolare, ogni pensiero che mi passa per la mente, per quanto futile sia: è una cosa questa che mi procura una sensazione davvero strana, simile a una lieve ebrezza».

È un approccio che ci ricorda un nostro grande pensatore, di cui parleremo non appena il teatro Corte dei Miracoli e tutte le altre attività potranno ripartire (tanto per portarci di nuovo iella!). Sto parlando di Jean-Jacques Rousseau, il quale redasse le sue Confessioni a mano libera, senza eccessive analisi, in modo tale che, come disse lui: «La verità sfugga da qualche fessura». Questo atteggiamento verrà poi eletto a vero metodo compositivo da alcuni romanzieri come Clarice Lispector.

Visto e considerato che il tema di sviluppo estratto dall’I Ching ha come titolo La ritirata, la morale è che se siamo obtorto collo rintanati nelle nostre case, conviene far tesoro di questo tempo sospeso, di questa menuchà. Anziché intasare i social scriviamo qualche pensiero per noi stessi – Marc’Aurelio direbbe tà eis eautón – prendendo a modello chi, come Kenkō e Rousseau, ha messo a frutto il proprio eremitaggio chiudendosi la porta alle spalle e aprendo nel petto il proprio cuore.

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!