Cristo si è fermato a Padova (a mangiare un panettone)

Breviario sul panettone ‘più buono d’Italia’, Cesare Beccaria, la funzione della pena e la forza correttiva del lavoro, perché “ciò che fu guastato per colpa degli uomini può essere di nuovo emendato dal lavoro degli uomini”

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di Gianluca De Rosa

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Quando Federico (Herr Direktor della Tigre) recapitava una mail ai collaboratori della rivista per comunicare il tema di questo nuovo numero, mi sono subito ricordato di quanto mi piaccia vincere facile: chi bazzica il diritto penale si trova sempre in un qualche modo a discutere dell’emendamento delle cose guaste. A fonte di questa facile constatazione ho subito archiviato la notizia nell’antro oscuro delle cose lontane, sottovalutando la grandezza e la difficoltà delle questioni che avrei voluto affrontare in questo articolo e maledicendomi appena mi rendevo conto di quanto sarebbe stato tosto il mio solito mestiere, quello di semplificare oltremodo le cose complesse.

Per addentrarci nella selva delle cose che vorrei dire, partiamo da alcune domande alle quali non mi sogno neanche di rispondere: com’è possibile, giuridicamente parlando, emendare ciò che ha fatto il colpevole? Per quale motivo rinchiudere uno in una stanzetta per degli anni dovrebbe aiutare a correggere il male che ha fatto? Perché si manda in galera la gente? Soprattutto, cosa si vuole ottenere con la condanna del mascalzone?

Col passare dei secoli, centinaia di intellettuali hanno provato a rispondere a questi quesiti, chi sparando una fesseria dietro l’altra, chi con risultati soltanto deludenti; fortunatamente qualcuno è riuscito buttare sul tavolo tre o quattro idee interessanti, degne di essere qui riassunte. Non me ne vogliano i moltissimi filosofi (o studenti di filosofia) affiliati alla Tigre di Carta, ma si sa che molti loro colleghi sono bravissimi nell’alternare con nonchalance sciocchezze e genialità ed anche parlando delle teorie della pena non si sono sottratti neanche per il tempo di un caffè.

Una primissima e remotissima idea per giustificare la pena è ben riassumibile nella legge del taglione, ossia nella frase formulare “occhio per occhio, dente per dente”. Le (spero pochissime) persone a cui piace lo splatter e vogliono cavare denti ed occhi ad ogni piè sospinto hanno un’idea di giustizia che si definisce “retributiva”, antica più di Hammurabi, sesto re di Babilonia; detti signorini si augurano che la pena inflitta a chi ha fatto del male a qualcuno serva a fargli patire la stessa identica sofferenza, il tutto per ristabilire e preservare chissà quale equilibrio magico-cosmico.

Si parla di anticaglie, ma neanche troppo. Immanuel Kant, vaghissimo ricordo del mio ultimo anno di liceo, portava all’estremo questa idea bislacca: nella Metafisica dei costumi, testo del 1797, il filosofo di Königsberg sostiene la necessità del condannare a morte l’omicida anche qualora fosse destinato a rimanere l’ultimo superstite di un’isola deserta, quindi alle soglie del disgregamento della stessa società che lo intende punire. Secondo questa visione la sanzione pubblica si giustifica per il solo fatto che è stato commesso un delitto, l’unica causa del castigo è l’avere contravvenuto alla legge, senza che si vadano a ricercare altri motivi od altri scopi. Si parla in questo caso di una teoria morale assoluta della pena, viene sorpassata addirittura l’idea che il castigo debba avere una qualsiasi funzione e si giunge ad un senso di giustizia talmente astratto da risultare disumano ed incomprensibile.

Non ci vuole molto ad archiviare queste idee desuete come fossero orpelli di un’epoca lontana: se è vero che Gandhi (che era pure avvocato) diceva “occhio per occhio e il mondo diventerà cieco”[1], qualche tempo prima di Kant già Cesare Beccaria confutava queste teorie in modo magistrale, proprio all’inizio del suo Dei delitti e delle pene, agile volumetto che ogni penalista dovrebbe portare sul cuore alla stregua di un testo sacro, edito per la prima volta nel 1764 – più di trent’anni prima rispetto alla Metafisica dei costumi.

Il nonno di Alessandro Manzoni, più milanese della nebbia e del panettone (che, forse per l’atmosfera natalizia – scrivo nel dicembre 2015 -, tornerà trionfalmente in questo articolo), iniziava la sua opera scrivendo a chiare lettere che la pena non deve essere “una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino”, poi aggiungendo che, per evitare che lo sia, “dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi”. Questi inviti alla ponderazione e soprattutto alla necessità rispondono con eleganza a quei brutti ragionamenti, spesso troppo istintivi o troppo astratti; se il nostro Parlamento si attenesse già solo a queste poche regolette, dettate non l’altro ieri ma tre secoli or sono, l’Italia intera ne trarrebbe immenso giovamento.

Rispediti nell’antro buio da dove sono venuti i parrucconi settecenteschi e con loro l’idea di un castigo che debba rispondere al criminale con identica malvagità, possiamo elencare altre teorie della pena un po’ più alla moda.

Alcuni, pur rifuggendo l’idea di una giustizia cattiva, la vogliono quantomeno minacciosa: questi altri signorini sostengono la teoria “general-preventiva” della pena e ci dicono che quest’ultima, rappresentando una intimidazione per tutti i consociati, dissuaderebbe la collettività dalla delinquenza. Vero è che molta gente si astiene dal commettere i reati solo perché si rischia di finire in gabbia – il che la dice lunga sulla moralità di questi tempi, che spesso va a coincidere col codice penale –, ma è bene ricordare che seguendo fino in fondo questo pericolosissimo piano inclinato si finisce a commisurare le sanzioni non tanto a quello che ha fatto il colpevole, quanto all’allarme sociale che il reato desta di per sé. Così facendo si permetterebbero pene esemplari per chi ruba una mela al mercato, se rubare una mela al mercato destasse l’interesse del pubblico o fosse considerato dal Parlamento o dal Governo di turno un reato prioritario [2].

Ancora arriva il più bello dei parrucconi, il Beccaria, a ricordarci che tra l’altro la punizione deve essere “la minima delle possibili nelle date circostanze”, e quindi “proporzionata a’ delitti”, commisurando il male che si decide di infliggere al reo ad ogni singolo caso, perchè ogni fattispecie concreta avrà le sue particolarità. Non per niente il simbolo della giustizia è sempre stato la bilancia e non la spanna od il mortaio.

Altri filosofi ci dicono che la funzione della pena deve essere quella di far passare un brutto quarto d’ora a chi ha fatto qualcosa di male, cosicché, conservandone un ricordo spiacevole, non lo faccia più. Già cominciamo a capire che alla fine ciò che conta in prima battuta deve essere il colpevole, destinatario della sanzione, e non l’equilibrio magico-mistico-cosmico o il solo interesse dello Stato al castigo.

Si pongono problemi giusto con chi proprio non vuole saperne di smetterla, chi continua comunque a delinquere nonostante tutto; tornando al tema del mese, qualcuno che ha dentro di sé qualcosa di così guasto che proprio non si riesce ad emendare. Ed allora non resterebbe altro da fare che neutralizzare il delinquente, c’è chi dice con l’ergastolo, c’è chi dice con la pena di morte.

Torna lancia in resta il Beccaria (oggi non lo lasciamo in pace un secondo, poveraccio): “parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”. Bravo il nostro Cesare! Ed in più se la condanna si scoprisse sbagliata anni e anni in là, dopo che la testa del presunto colpevole ha già rotolato in lungo e in largo, non resterebbe altro da fare che mandare bel mazzo di fiori e tante scuse ai parenti superstiti, visto che le resurrezioni sono merce rarissima e le poche documentate sono piuttosto dibattute.

Si permettano due digressioni a margine, ancora sul punto della pena di morte: già nei tempi antichi procedere alle esecuzioni capitali non era sempre un’ottima idea perché capitava spesso che il popolo riunito giungesse a provare una certa dose di empatia con il condannato e ne chiedesse la salvezza in limine; sovente si finiva poi con l’interrompere lo spettacolo per evitare disordini di piazza. Oltre il danno la beffa: il mascalzone ne usciva pure bene e male il boia, che stava solo cercando di fare il suo ingrato mestiere.

Secondo punto, i costi. Nei Paesi con un sistema giuridico avanzato infliggere la pena di morte arriva a costare addirittura di più rispetto al mantenimento in carcere del colpevole per il resto della sua vita: si prendano ad esempio i civilissimi Stati Uniti d’America (*sigh*), dove un esecuzione capitale arriva a costare milioni di dollari – o un terzo netto – in più rispetto ad un ergastolo [3].

Nei casi estremi si preferiscano, quindi, pene di lunga durata – sempre e solo ove necessarie – e si lasci ad entità più qualificate la decisione su quando privare della vita un altro uomo.

Viene spontanea una domanda provocatoria: e se fosse possibile fare in modo che chi ha sbagliato non lo faccia più, in ossequio alla funzione specialpreventiva della pena, senza però dovergli far passare per forza un brutto quarto d’ora?

La nostra Costituzione – che, se non è “la più bella del mondo” come sostiene qualche comico toscano, rimane un testo che continua a far bene il suo mestiere nonostante l’età – segue proprio quest’ottica quando scrive che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Parole altrettanto disattese nella pratica sono state pronunciate solo da alcune signorine, quando mi garantivano che sarebbero uscite con me una qualche sera; parimenti al mio sconforto dopo quelle disillusioni, molti rimangono in un qualche modo sfiduciati delle capacità rieducative delle carceri appunto perché vedono che molti condannati, pur scontando anni di galera, non traggono alcun beneficio dalle sanzioni loro inflitte e spesso ritornavano a commettere gli stessi crimini che li avevano portati le altre volte dietro le sbarre [4].

Eppure non deve essere necessariamente così, e così non è in alcuni specialissimi casi.

È chiaro che non basta assumere una bambinaia austriaca e insegnare le buone maniere, per rieducare i condannati. Ci sono alcuni galeotti che, scontando pene detentive abbastanza lunghe, riprendono gli studi e riescono magari a diplomarsi o laurearsi, sfruttando tutto il “tempo libero” che il carcere permette, ma sono una minoranza. Resta da capire cosa farne, di tutti gli altri che magari non conoscono il galateo e che non hanno la voglia o gli strumenti basilari per terminare un ciclo di studi.

Una cosa che davvero funziona è insegnare un mestiere, magari in base alle capacità e alle predisposizioni della singola persona.

Seppure in zona Cesarini, si sta muovendo in questo senso anche il nostro Legislatore, prevedendo che l’imputato possa addirittura scegliere tra due opzioni: da una parte può, sospendere il processo prima della condanna e mettersi a lavorare presso enti benefici ed assistenziali convenzionati col Comune d’interesse o con strutture pubbliche vere e proprie, per evitare totalmente di essere giudicato (con quella che si chiama “messa alla prova ai servizi sociali”), oppure, una volta condannato, può chiedere di convertire la pena che gli viene inflitta in sudore della propria fronte (con quello che si chiama “lavoro di pubblica utilità”).

In entrambi i casi si prevedono vari regalini aggiuntivi, a chi decide di intraprendere questo percorso: la messa alla prova, se ha esito positivo, estingue il reato, quindi permette di dimenticare l’inconveniente e fa tornare tutti amici come prima; a questa previsione generale se ne aggiungono altre particolari in base ai vari casi concreti – si pensi ad esempio ai reati stradali, per i quali sia il lavoro di pubblica utilità che la messa alla prova permettono, qualora l’automobile condotta dall’imputato fosse stata sequestrata, di vedersela restituita – e spesso l’eventualità della confisca del mezzo è considerata sorte ben peggiore rispetto alla condanna sulla fedina penale o alla multona che viene irrogata.

Nella mia piccola esperienza di tirocinante presso un giudice penale, posso raccontare che ci sono tantissime richieste di messe alla prova da parte degli imputati incensurati, tanto che una discreta percentuale del mio lavoro consiste nel predisporre i relativi incartamenti. Ad oggi non ho visto esiti negativi di questi affidamenti ai servizi sociali, nonostante la legge comunque preveda che se l’imputato non si attiene ai suoi doveri o commette altri reati, gli si possa revocare la messa alla prova e si possa andare avanti col processo ordinario. Anzi, stupisce che qualche imputato si sia addirittura affezionato al lavoro socialmente utile che gli viene appioppato e decida, una volta esaurito il periodo previsto, di continuare a frequentare le cooperative o gli altri enti cui era stato affidato dal Tribunale.

Chiaramente, l’impegno deve essere serio e soprattutto una scelta libera del reo – chi è scettico può prendere me come fulgido esempio del fatto che non si impara niente se si fanno le cose controvoglia.
Questo discorso riguardo alle conseguenze positive del lavoro vale sia per chi decide di usufruire della possibilità di un lavoro di pubblica utilità o di una messa alla prova per evitare di scontare la pena, sia per chi invece non può o non vuole accedervi e finisce in carcere; proprio dalle case circondariali, dai posti dove meno ce lo si aspetterebbe, sempre più spesso si sentono racconti incredibili riguardo a ciò che si riesce a fare con una forza lavoro così inaspettata: è questa la genialità della frase contenuta nell’I-Ching che funge da sottotitolo di questo mio scarabocchio e che riesce a riassumere il senso generale dell’intervento. “Ciò che fu guastato per colpa degli uomini può essere di nuovo emendato dal lavoro degli uomini”, ma esattamente dalle stesse mani che hanno inizialmente guastato qualche cosa.

Ci sono milioni di esempi che si possono fare a riguardo, tutti piuttosto variegati, ma a quanto pare questi galeotti eccellono soprattutto in cucina. Così la comunità San Benedetto a Genova dell’indimenticato don Gallo gestisce il ristorante La Lanterna, locale “per il sociale”. Non è stato facile tirare avanti con ex detenuti, tossicodipendenti ed altri che viaggiano in direzione ostinata e contraria : lo stesso don Gallo raccontava che almeno un paio di volte dei suoi ex-dipendenti sono scappati con la cassa – d’altra parte tutto il ricavato va a finanziare iniziative della comunità o è dato come stipendio ai dipendenti del locale e non serve ad arricchire un qualche imprenditore, quindi si riesce meglio a far fronte pure a questi incidenti di percorso [5].

In tempi più recenti hanno inaugurato un ristorante proprio dentro il carcere di Bollate: si chiama InGalera e a detta di molti lì si mangia davvero bene; stupisce, vista la location inaspettata, che sia quasi considerato un posto chic.

Stupisce ancora di più Padova: dal 2005 il carcere di quella bella città universitaria, denominato senza alcuna fantasia “due palazzi”, ospita il laboratorio di pasticceria Giotto che sforna – si dice – i migliori panettoni del mondo. E all’incredulità è giusto aggiungerci lo scandalo: i meneghini faticano ad ammettere la sconfitta, che equivale a un vero sacrilegio, eppure mi è capitato di assaggiarne svariate fette (la quantità giusta ai fini di un’indagine approfondita) e devo concludere che quei panettoni non hanno nulla da invidiare ai migliori prodotti artigianali del me Milàn.

Oltre ad appagare le papille gustative, il lavoro (di qualsiasi genere sia) è il migliore antidoto alla recidiva: alcuni studi recenti dicono che l’ex detenuto che trova un’occupazione nei mesi appena successivi alla liberazione ha un tasso di rientro in carcere inferiore al 10%[6]. Davvero chi sconta le pene che prevedono tra le altre cose anche la professionalizzazione non lo fa più e non necessariamente perché conservi un brutto ricordo del carcere, quanto perché finalmente sa fare qualcosa d’altro ed ha qualcos’altro da fare.

Insegnare un mestiere porrà il carcerato davanti ad un bivio; uscito di prigione potrà certamente  tornare a delinquere, ma avrà strumenti per battere una strada forse nuova o troppo vecchia, cominciare un sentiero che lo allontani dalle ragioni che lo hanno portato in galera.
La scelta sul cosa fare della propria vita, come sempre, spetta a ciascuno – ed anzi, sarebbe inaccettabile decidere del destino di un uomo tornato libero; quantomeno, sarebbe bello accontentarsi di concedere il lusso dell’alternativa a chi non lo ha mai avuto e a chi ne ha davvero bisogno.


Note:

[1] Per non parlare di Gesù, quel capellone, che disse ai suoi discepoli: «avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da’ a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle»”, Mt 5, 38-42; certo, un sistema sanzionatorio fondato su questi principi farebbe acqua da tutte le parti, ma sono parole che ogni tanto fa bene rileggere.

[2] Spesso poi le due cose vanno assieme, perché qualcheduno confonde politica e demagogia; è del tutto intenzionale ogni riferimento al rischio che si prevedano pene atomiche per i reati stradali. Volendomi differenziare da quelli che ripetono sempre le stesse cose, preferisco ricordare a chi legge che ne ho già scritto qua.

[3] Di solito sparo cifre a casaccio ma non è questo il caso.

[4] Ancora per non ripetermi, ne avevo accennato qui.

[5] Per il testo dell’intervista bisogna cliccare qui.

[6] La fonte è ItaliaLavoro.

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.