Versi palustri

di Ivan Ferrari

///

 

Fiori nelle paludi, miele guasto e afa di morte: dal veleno degli antichi, insieme filtro letale e farmaco benefico, passando per poeti alchimisti e alchimisti poeti, la donna amata si perfeziona con D’Annunzio nel simbolo di attrazione pericolosa ma emendatrice.

I continui ribaltamenti concettuali dell’I Ching ci portano oggi a ragionare su una dinamica molto simile a quella più comunemente trattata dell’alternanza tra morte e vita, tra malsano e salutare. È cosa piuttosto nota il fatto che la parola «farmaco», dal greco ϕάρμακον, significasse originariamente «veleno». In merito a ciò, l’alchimista Paracelso scrisse: «Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto».[1] L’esagramma di questo numero ha molta attinenza con le malattie mortali e le cure che possono salvare la vita a chi ne è vittima. Tutto sta nei dosaggi, negli equilibri e quindi nell’approccio alle cose. Eppure non tutto si può riparare.

L’esagramma ci fa immaginare un ristagno nella vita culturale, psichica o economica di qualcuno. Quando qualcosa di naturalmente fluido e vivace come l’acqua si trova immobilizzato in un argine, ne deriva una palude. Le paludi sono luoghi tutt’altro che allegri e confortevoli, luoghi che si desidera bonificare o abbandonare. Eppure sono anche il luogo dove più evidente appare il misterioso rapporto di scambio e sostituzione che caratterizza il ciclo della vita e della morte. La decomposizione partorisce ammassi fungini che riconvertono la materia organica ormai inerte in nuove forme viventi. Tra i vapori fosforei di questi paesaggi brulicanti di sussurri, si snodano sentieri così tortuosi che talvolta il grigio mietitore confonde la sua posizione con quella della radiosa fanciulla che ha nome: vita. Il viaggiatore che vi si inoltri in cerca di strane intuizioni, potrebbe incontrare se stesso tra le ombre dei canneti e dei tronchi marcescenti. Se, credendosi vivo, incontrerà il proprio sé già morto e coperto di vermi, saprà che le sue abitudini sono l’eco di uno splendore ormai decaduto che deve essere sacrificato all’apertura di nuovi orizzonti. Fa male abbandonare una tradizione rassicurante, ma il riscatto dei cadaveri sta tutto nella loro capacità di diventare nutrimento e parte di una nuova realtà. Se li si chiude in una teca di cristallo sepolta sotto una piramide, non ne deriverà più nulla di bello e buono. Con un cambio di atteggiamento, il guastatore può diventare un riparatore.

Dunque, il marciume generato dall’inerzia può trasformarsi in una nuova energia. Ogni movimento è un mutamento e il mutamento è il modo in cui le forme viventi si manifestano. Nel 1830, L. Feuerbach, un filosofo nelle cui teorie albergavano molte ottime ragioni per poetare, scrisse godibili versi[2] sull’indissolubile legame tra la vita e la morte che risultano l’una il presupposto dell’altra nel quadro dell’invito all’amore universale tipico di questo simpatico esponente del pensiero occidentale. Quei versi sono irregolari proprio come il sentiero della vita e della morte, ma anche in rima baciata, come a offrire un continuo senso d’incontro e unione. Non a caso anche Feuerbach fu un estimatore dell’alchimia, secondo la quale le energie vitali sono una trama di equilibri fragili e complessi tra forze sottili che possono facilmente finire con lo scontrarsi. L’impulso amoroso che le indirizza all’armonia interna è il medesimo che le indirizza alla costruzione di sodalizi esterni ed è una forza più che mai emendatrice.

Infatti, potremmo dire che Dante abbia emendato la figura di un antico amore distrutto definitivamente dalla morte innestando su quel sentimento la forza del proprio genio e della poesia in sé. Opere immortali come la Vita Nuova e, soprattutto, la Divina Commedia hanno trasformato quel corpo ormai freddo nell’eternamente bellissima Beatrice. Al di là delle considerazioni storiche, filosofiche, teologiche, filologiche e quant’altro sulle meraviglie del sommo poeta, non c’è Vanna, Lagia, Laura o Fiammetta[3] che tengano… Beatrice resterà sempre la più bella tra le belle. Questo sarà anche un episodio di bassezza analitica da parte mia, ma non me ne pento. Come diceva Oscar Wilde[4], la bellezza non può essere interrogata. Ciò vale per le poesie come per gli oggetti che esse creano. Sì, perché chiaramente Beatrice è un’invenzione, è il prodotto di una memoria artistica che non si limita a rievocare, ma che riconfigura le forme conosciute in qualcosa di nuovo e di magico. Per questo non posso impedirmi di pensarla bella a un livello sovrannaturale, così bella da soffocare ogni altro desiderio normalmente connesso alla bellezza femminile in un anelito puramente contemplativo, un passo mosso verso il mondo divino.

L’aspetto riparatore è tipico della poesia fondata sui ricordi. Il sonetto XIX[5] di Shakespeare indica in essa l’unica forza capace di contrastare il tempo che altrimenti divora anche quanto c’è di meglio nel mondo. William Wordsworth riteneva che solo un ricordo congiunto a una buona dose di quella ponderazione esegetica che i maestri della scolastica definirebbero “ruminare” potesse rendere conto di ciò che offre un’esperienza sensibile e magari riuscire a superarla in una resa universale. Con la sua elaborazione, il poeta dei Lakes ricreò i daffodils (narcisi) in una versione imperitura[6] e risaldò il legame tra il proprio sé adulto e quello infantile che l’aveva generato. La delicata sensibilità e l’acume di Wordsworth sono perfetti per far riemergere dalla palude del passato quel bel campo di fiori, ma qui occorre guardare direttamente il cuore del fango per cogliere anche solo un fuggevole istante del suo mistero. Ci sono segreti che forse conoscono appieno solo le piccole e molli vite che brulicano nella putrefazione come esistenze sospese tra la vita e la morte. Per tenervi lo sguardo affisso occorre uno spirito forte, pertanto devo chiamare in causa il poeta con lo spirito più ferrigno che conosca: Gabriele D’Annunzio.

Nel suo Alcyone, il vate ha inserito un madrigale suggeritogli proprio dalla contemplazione di una palude nel periodo estivo. La voce narrante percepisce un senso di decadenza che di primo acchito contrasta con quella bellezza che le regole dell’estetismo, da lui accolte, volevano invece presente in ogni cosa. Pertanto egli si sente in dovere di rinvenire il bello anche in quel tetro mondo di morte. Osservando e annusando i giunchi, D’Annunzio nota che in essi ci sono aspetti che ricordano cose ritenute comunemente belle, come le rose, ma in una modalità ormai guasta e afflitta dall’imperante marciume. La palude è come un fiore insozzato che il sole fa essiccare traendone un alito di quella sinistra dolcezza che caratterizza i corpi in decomposizione. Questo rincorrersi di aspetti belli e brutti, questo promiscuo e inquietante donarsi del bello al brutto, crea quel forte senso di doppiezza che D’Annunzio attribuisce a questo stadio del ciclo vitale. La morte si presenta come un ossimoro estetico dotato di un’importanza talmente centrale da vedere il proprio nome chiudere ben due frasi. Anche la metrica suggerisce un senso di paradossale ambiguità, perché Nella Belletta[7] si compone di due terzine con rime e assonanze parallele e di un distico dissonante. Il suono delle parole è pesante, opprimente come l’afa che fa bollire i fanghi e le acque stagnanti del luogo, ma anche come il senso di pesantezza che i pensatori avvertono spesso dinnanzi all’indeterminatezza delle cose.

A livello ermeneutico, l’aspetto più importante del componimento si trova nel distico conclusivo. D’Annunzio fu un artista estremamente attento a dati sensibili quali sapori, odori e suoni. Il silenzio sacrale che la sua presenza provoca nell’ambiente della palude ne rivela la natura liminale di confine, o di portale, tra questo mondo e l’aldilà. Persino le bolle d’aria nei liquami non fanno rumore, venendo tuttavia percepite come se tutto quanto fosse lì per proporne la suggestiva presenza. Dunque una bellezza c’è ed è sufficiente a fare di questo luogo l’oggetto di una poesia, sebbene tale bellezza non sia l’unica verità da scoprire tra i giunchi. La bruttezza e l’orrore le siedono accanto ed essa non potrà mai esserne svincolata. Dunque il male è parzialmente emendato, ma non può esserlo per intero.

Questo è un po’ ciò che fa tutta l’arte: ripara il riparabile, ma lascia l’irreparabile ben evidente davanti ai propri contemplatori, perché ne rammentino la presenza e sappiano come affrontarla. Il magma del Vesuvio può offrire una ginestra e questa può essere abbastanza bella da far comporre a Leopardi una poesia magnifica, ma non può impedire che egli stesso veda come anche quella pianta meravigliosa sia destinata a diventare polvere. La vita è bella nel modo in cui lo sono tutte le tragedie. Bella di una bellezza eternamente fusa alla più dolorosa bruttezza. Del resto, Dante ha davvero salvato Beatrice restituendoci amplificata la sua beltà? Un’altra donna angelicata, quella di Edgar Allan Poe, ci suggerisce di no. Il poeta moderno non può più farsi troppe illusioni… Beatrice, come la sua Lenore, possono presentarsi ai nostri sogni, ma noi non potremo rivederle, come mormora il corvo: «Mai più».

 

Nella Belletta

Nella belletta i giunchi hanno l’odore

delle persiche mézze e delle rose

passe, del miele guasto e della morte.

Or tutta la palude è come un fiore

lutulento che il sol d’agosto cuoce,

con non so che dolcigna afa di morte.

Ammutisce la rana, se m’appresso.

Le bolle d’aria salgono in silenzio.

 

[1] Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim, alias Paracelsus, Responsio ad quasdam accusationes et calumnias suorum aemulorum et obtrectatorum. Defensio III. Descriptionis et designationis nouorum Receptorum.

[2] Cfr. Ludwig Feuerbach, Rime sulla Morte, trad. it. di Luciano Parinetto, Mimesis, Milano, 1993.

[3] Trattasi dei senhal utilizzati per altrettante donne rispettivamente da Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Petrarca e Boccaccio.

[4] Cfr. Oscar Wilde, The Picture of Dorian Gray, Philadelphia, 1891.

[5] LINK: https://en.wikisource.org/wiki/Sonnet_19_(Shakespeare)

[6] William Wordsworth, Poems in two volumes, I wandered lonely as a cloud. La poesia è del 1804, ma la prima raccolta che la incluse fu pubblicata nel 1807 a Londra.

[7] Gabriele D’Annunzio, Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, Alcyone, 1903. Edizione di riferimento a cura di Pietro Gibellini, Einaudi, Torino, 1995, p. 150.

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.