Se questo numero dovesse uscire in ritardo, contenere refusi o attentati di lesa immagine, il Direttore Irresponsabile e il resto della redazione felina se ne lavano le zampe, professando innocenza… il tema ce lo permette!
L’esagramma 25 dell’I Ching è uscito (quasi) per caso, in mezzo al suo caotico anagramma, durante la scorsa edizione di Liber – I libri liberi a Macao. Da quel momento, ogni redattore non pensa ad altro che rendersi colpevole di mal interpretazione. Per parte mia, scappa anche stavolta il dito sul grilletto dell’Asia… l’India! Un senso di candore deflagra dalla sua cultura e sembra talvolta bersagliarne anche i valori più negativi. «L’india è la terra dove persino il ladro deve filosofare», scriveva il Nobel per la letteratura Karl Gjellerup, nel suo romanzo incentrato su Kamanita, immaginario pellegrino seguace del Buddha. Ed è anche il paese che talvolta, prosegue, «spinge verso stupefacenti santità [wunderlichen Heiligen]». Non per nulla, a ’sto giro l’esagramma di sviluppo è L’ascendere, che nel recente passato ha dominato gli argomenti del numero 5 della nostra rivista, mentre ora funge da tema di sviluppo e non già per via diretta, bensì per l’inesistenza di linee mobili a costringere il capovolgimento dell’intero esagramma (con linee yin che diventano yang e viceversa) fino a delineare il simbolo numero 46 del libro cinese: L’ascendere, per l’appunto. (Chi sta andando a comprare un dizionario aramaico per capirci qualcosa, si legga subito l’introduzione all’I Ching sul sito internet de La Tigre di Carta!)
Utilizzi il dizionario, piuttosto, per imparare questo nuovo termine: ahiṃsā, “non-violenza”, composto dalla forma desiderativa del verbo han (“uccidere”), tradita dal solito lestofante dell’alfa privativo. Già nell’XI secolo, il poeta, filosofo e naturalista Hemachandra da bravo naturalista guardava le nuvole, da bravo filosofo si faceva due domande e da bravo poeta finiva col rispondersi: «Nella fornace del dolore, l’ahiṃsā è come la nuvola carica di pioggia». Non male la metafora, se pensiamo che l’oracolo cinese compone l’esagramma a partire dagli elementi chien e chen, ovvero Cielo e Tuono, (anche se in bocca a un cinese suonano più un “cip e ciop”). Molto vicino alle religioni induista e buddhista, l’ahiṃsā è anche l’ottima occasione per conoscere una spiritualità meno nota come il jainismo, sorta in India a partire dal suo primo profeta Mahāvīra, contemporaneo del Buddha, il quale condivideva l’obiettivo di estinguere il debito karmico dell’uomo per emanciparlo dal ciclo di rinascite, ma attraverso una serie di pratiche assai austere e rispettose nei confronti degli altri esseri. Sia i monaci Śvetāmbara, i “vestiti di bianco” – per scorgervi un tipico simbolo d’innocenza riguardiamoci i quadri di Goya – sia i Digambara, “i vestiti di cielo”, cioè coloro che neanche facendo appello al trigramma chien eviterebbero una multa per oltraggio al pudore, li si può vedere intenti in vezzi bizzarri come indossare mascherine sulla bocca o spazzare il terreno davanti ai propri piedi, al solo scopo di non uccidere per sbaglio gli insetti sul cammino!
L’inintenzionalità del piccolo crimine, infatti, non assolverebbe certo il jainista a cospetto della ferrea legge morale. Il santo Vyāsa, ad esempio, diceva che persino la parola «se mostra d’aver recato danno alle creature, pur essendo stata pronunciata senza inganno, senza confusione e senza sterilità, è solo un peccato». Siamo ben distanti dall’etimo nostrano di “innocenza”, l’atto cioè che non causa nocumento e assolve sulla base del risultato senza disturbarne il retroscena etico, tipico aspetto di alcune società arcaiche. Forse che l’Oriente ha vissuto, grazie ai propri profeti, un kantismo della prim’ora? (L’alba, direi…) Be’, quando l’I Ching esordisce dicendo che l’innocenza è «l’indole schietta, naturale, non offuscata da riflessione o secondi fini», bisogna andarci coi piedi di piombo più dei cavallerizzi mongoli. Loro indossano i gutul dalla punta all’insù per calpestare meno insetti possibile e non rendersi colpevoli accidentali, noi calziamo allora qualcosa di simile per non imbrattare i concetti con la polvere della storia. All’occorrenza, strofiniamo i piedi sullo zerbino più coriaceo dell’epoca moderna: quel brav’uomo di Gandhi. In un articolo comparso su Young India il 9 marzo 1922, egli disse: «Non-violence is complete innocence. Complete non-violence is absence of ill-will against all that lives». La soluzione morale al problema dell’intenzione in rapporto al peccato risiede qui in un distacco dalla propria volontà (will).
Empatia, carità, misericordia, non certo estranee al Mahatma, restano pur sempre ancorate alle circostanze emotive, mentre il distacco può oggettivarne l’imperativo. Anche un altro gigante del Novecento come Albert Schweitzer, immerso nel periodo d’avvicinamento ai saperi orientali, si era accorto che: «Il comandamento dell’ahiṃsā non proviene dalla pietà, ma dal desiderio di mantenersi puri dalla sozzura del mondo». E se lo dice un altro premio Nobel, per la pace oltretutto, un po’ c’è da prestargli ascolto.
Una volta premuto il grilletto, tuttavia, volenti o non violenti, il colpo parte. Dal grilletto dell’Asia arriviamo quindi al suo proiettile. Proprio in Giappone, infatti, risale a pochi anni fa la scarcerazione del povero Govinda Prasad Mainali, il nepalese incarcerato nel ’97 con l’accusa di omicidio. Dopo quindici anni di “nirvana”, il Vice della procura di Tokyo, una volta riconosciuta la sua innocenza, ha ritrovato le chiavi della cella e ha poi dichiarato: «Siamo molto spiacenti per averlo tenuto in carcere per così tanto tempo». Va bene la catarsi dalle passioni, ma a questo livello… manco Aristotele a teatro!
Occorre dunque una soluzione intermedia.
L’I Ching suggerisce:
Bisogna fare ogni lavoro per amore del lavoro stesso come lo richiedono tempo e luogo, e non occhieggiare verso il risultato; allora si riesce e ciò che si intraprende ha successo.
Come dire: usiamo la testa, ma senza aspettative. Tant’è che nel nostro esagramma il titolo “innocenza” è interscambiabile con “inaspettato”. Noi Tigri, reduci dai lavori di inaugurazione del teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli, riaperto a Milano in via Mortara dall’associazione La Taiga, ne sappiamo qualcosa: mani e testa dentro il lavoro, dentro la passione. Cosa riserva il futuro? Chissà… tutto inatteso. La risposta si nasconde, forse, dietro le facce di tre monete…
di Federico Filippo Fagotto
Per le calligrafie ringraziamo il maestro Bruno Riva dell’associazione shodo.it