Errare humanum est!

 

 

di Stefano Geatti

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Riflettere sugli errori non significa soltanto concentrarsi sulla possibilità di emendare ciò che si è guastato, ma sottolinea l’assoluta importanza dell’errore, permettendo soprattutto di gettare uno sguardo profondo su ciò che ci costituisce come esseri umani.

Sembra quasi che con l’esagramma n°  18, l’Emendamento delle cose guaste, il percorso attraverso cui l’I Ching ci ha finora condotto, un percorso fatto di cauta ascesa e di crescita costante, sia destinato qui a prendersi una pausa. Infatti, ci viene chiesto di fermarci per un momento e voltarci indietro, cercando di scorgere i passi falsi commessi; ciò che si è guastato, ma che, durante il cammino spedito verso l’alto, non è stato possibile individuare. Dal punto di vista filosofico, si tratta qui di eseguire quel lavoro raffinato e di estrema precisione del  portare alla luce gli errori e i problemi che l’edificazione di qualsiasi teoria porta inesorabilmente con sé. Se il percorso di elevazione fatto nei numeri precedenti può essere paragonato alla lenta salita di un monte, allora possiamo anche concepire l’emendamento delle cose guaste come la necessità di sederci per qualche minuto ai lati del sentiero, rimirare la strada compiuta e cercare di togliere dalle scarpe quei sassolini che abbiamo preso mettendo il piede dove non avremmo dovuto.

Karl Popper nel ritratto di Arturo Espinosa

Karl Popper nel ritratto di Arturo Espinosa

Il pensiero filosofico nel suo complesso è l’esempio concreto dell’importanza dell’errore, poiché solo attraverso la considerazione di un problema, di uno scarto tra ciò che registriamo e ciò che ci aspettavamo da una teoria, può nascere quella crescita mentale che chiamiamo conoscenza. La storia dell’uomo è una volta costellata di errori lato sensu e la storia della filosofia ci insegna costantemente che la necessità di lavorare per correggere ciò che si è guastato rende inservibile l’idea che «l’eccezione conferma la regola». Il filosofo tedesco Theodor Adorno, in Minima Moralia, constata con amarezza che, per l’uomo contemporaneo, quello scarto tra ideologia e realtà, su cui si fonda “l’ironia” stessa dell’essere umano, si è dissolto inesorabilmente a favore del criterio del progresso, il quale «resta presupposto come ideologia in vigore, quanto basta perché il fenomeno che appare fuori della regola venga condannato senza che gli sia concessa la giustizia di una discussione razionale»[1].

Per difendere questo concetto, la filosofia si è armata di una “corrente dell’errore”, il cosiddetto fallibilismo, introdotto da Karl Popper nella prima metà del Novecento. Senza poterci dilungare tra le complesse pieghe della posizione popperiana e dei suoi critici, tentiamo tuttavia di enucleare il carattere di novità della fallibilità della conoscenza. Infatti, inserendosi nel vivo dibattito sui criteri da adottare per definire un enunciato, o un’intera teoria nel suo complesso, come vero o falso, scientifica o non scientifica, Popper non è convinto che sia necessario concepire un possibile metodo per procedere alla verifica. Al contrario dei neopositivisti, il filosofo viennese (naturalizzato britannico) crede che ogni teoria che abbia la pretesa di essere tale e universale debba essere considerata vera e valida scientificamente fintantoché non compare un errore o un’eccezione che la smentisce in quanto regola.

Questo differente modo di vedere la questione, che può darci lo stesso effetto di una mescolata finta delle carte degna del più abile baro, sottolinea in realtà un legame profondo tra la verità e l’errore, ponendo al centro l’importanza del progresso nella conoscenza. L’anima del fallibilismo popperiano sta nell’idea che  l’errore sia la linfa vitale della conoscenza, poiché solo diventando consapevoli di ciò che s’è guastato e guadagnandoci  la possibilità di correggerlo siamo in grado di dire dove sia la verità di una teoria e, dunque, di fare un passo ulteriore verso la piena conoscenza delle cose.

Ma, dal momento che, come ci ricorda la famosa espressione di Alfred Whitehead, la filosofia occidentale ha l’abitudine di porsi come «una serie di note a margine a Platone», è in quest’ultimo ancora una volta che dobbiamo trovare l’origine della relazione intrinseca tra errore e verità: «Egli ha dimostrato che, in un certo senso, errore e verità sono inscindibilmente connessi: “Chi nega l’errore nega la scienza; chi nega che il pensiero possa ingannarsi nega ad un tempo che esso possa trovare il vero”,  […] ha anche compreso quale sia l’aspetto più sconcertante e più pericoloso dell’errore: esso è sempre congiunto a una convinzione che soggettivamente non è meno forte della convinzione e della certezza che è congiunta alla verità»[2].

Pertanto, sembra che il momento in cui ci sediamo per dare uno sguardo attento ai passi falsi fatti sul cammino sia assai più importante della spavalda e incessante salita. Tuttavia, la difficoltà per l’atteggiamento filosofico consiste proprio nella capacità di scorgere o meno l’errore, di avere la lucidità e la forza sufficiente per modificare la propria posizione precedentemente assunta e, come ci ricorda l’I Ching, tutto ciò implica uno sforzo mentale profondo, lavoro costante e la pazienza della ricerca. In questo, Agostino sembra aver colto pienamente nel segno l’ammonimento a emendare le cose guaste dell’antico libro cinese, poiché infatti, nella disputa contro gli Accademici, egli condivide il fatto che l’errore nasca in «una assentio, cioè in un atto di volontà in cui si accetta il falso per vero»[3], da un’inversione e da una commistione di vero e di falso, in quanto facce della stessa medaglia della conoscenza.

Ciononostante, nel pensiero di Agostino vi è molto di più: il filosofo cristiano critica «l’ossessione dell’errore»[4] di cui erano preda gli Accademici, affermando la necessità di vedere nell’errore un accidente della ricerca della verità, un tassello fondamentale su cui intervenire per il progresso della conoscenza, oppure, seguendo le metafore suggeriteci dall’I Ching: «Il guastato come compito». È con estrema chiarezza che Quadri sintetizza questo pensiero di Agostino: «Ma se per gli accademici motivo del filosofare fu la semplice ossessione dell’errore, per Agostino è la ricerca della verità. […] Per Agostino invece la filosofia consiste appunto nello sforzo dello spirito di giungere alla percezione della verità. Percezione è conoscenza. Conoscenza si ha solo della verità. Ma va ricercata e raggiunta. Il pensiero è ricerca. […] L’errore perciò si manifesta in una prematura affermazione dello spirito che si posa su una immagine dando alla stessa l’attributo di verità senza avere accertato se tale attributo realmente le conviene. È affidarsi all’opinione senza cercare la scienza. Affermare l’opinione come scienza, cioè affermare di sapere ciò che non si sa, ecco l’errore»[5].

Qui mi sembra risiedere il punto di tangenza tra filosofie così distanti temporalmente e tematicamente tra loro: il fatto che l’errare dell’uomo sia il motore della conoscenza. Per Popper esso ci aiuta a comprendere fin a che punto una teoria può dirsi vera, mentre per Agostino sbaglia chi si fa terrorizzare dagli errori, poiché proprio di essi si ciba la ricerca: comunque si ponga la questione, l’errore offre la spinta necessaria a cercare meglio la verità. Ed è qui che l’esagramma di sviluppo, Il seguire, completa il senso di questa nostra riflessione, ovvero sottolineando che solo attraverso l’ascolto degli altri possiamo sperare di essere ascoltati e, dunque, solo avendo l’umiltà di ammettere i nostri  sbagli e di seguire possiamo sperare di suscitare autentica ammirazione negli altri. Per capire i propri errori e riuscire in un’impresa è necessario consultare l’altro che ci sta di fronte, dal momento che molto spesso non siamo in grado noi stessi di scorgere il passo falso che stiamo per commettere. Ma in fondo l’errore fa parte del nostro essere umani in quanto esseri liberi e, proprio in virtù di questa libertà, possiamo decidere se perseverare nello sbaglio o affidarci all’aiuto degli altri affinché, senza l’arroganza della verità, ci consentano di riprendere il cammino e seguire un più giusto sentiero.

La vera conoscenza non può essere ottenuta immediatamente, alla stregua di Adamo che si ciba del suo frutto, ma ha bisogno di essere costruita con costanza anche grazie a molti inciampi e il pensiero filosofico ci ricorda costantemente questi aspetti che Martin Heidegger ha sintetizzato così: «Si possono dire solo poche cose sulla filosofia. Anziché spiegare lungamente quale sia la sua essenza, ci limitiamo a dire che cosa faccia parte del filosofare: che il filosofo si riserva la possibilità di sbagliare. Questo coraggio dell’errore non significa solo che egli abbia il coraggio di sopportarlo, ma molto di più: il coraggio di ammetterlo, questo coraggio è cioè quello dell’intimo sacrificio del proprio se stesso nella capacità di ascoltare e imparare, il coraggio del dibattito positivo»[6].

 

[1] T. Adorno, Minima Moralia, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2011, p. 254.

[2] A. Levi, Il problema dell’errore nella metafisica e nella gnoseologia di Platone, a cura di G. Reale, Liviana Ed., Padova 1971, p. 310 (corsivo nel testo).

[3] G. Quadri, Il pensiero filosofico di Sant’Agostino, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 173.

[4] Ibidem.

[5] Ivi., pp. 174-175.

[6] Cfr. M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, a cura di U. Ugazio, Mursia, Milano 1986.

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