La città fa fare incubi

Veduta della città di Milano
Milano

In città, la mattina – «quelli con la frutta e non con il cioccolato» – alzarsi e sopprimere subito una voglia. Si dice che si arriva velocemente a sopprimere i bisogni senza accorgersene, partendo dagli oziosi vizietti fino alle proprie volontà maggiori.

Le mie intenzioni non sono di arrivare a conclusioni del tipo «la civiltà è una limitazione della libertà istintuale degli individui che la compongono», non mi riferisco alla piccola soddisfazione nello sgarrare, nel cambiare qualche piano nell’agenda o di fare più tardi di quanto si era programmato.

Ritengo che nello scorrere quotidiano manchi qualcosa che viene saziato con altro, un malsano che conduce ad abitudine e poi a dipendenza: nella città si crea un circolo vizioso composto da bisogni alterati e necessità poco ascoltate, di trascuratezza e illusorietà.

La costruzione della città è cosa ben nota che soffochi il naturale, dove è presente l’artificio crolla il ciclo spontaneo del mondo animale, «il leone inizia a pascolare e la gazzella prova con le lepri».

La città, la grande città, consuma.

Ci si ritrova spesso stanchi, fisicamente stremati dalla folla, dai mezzi urbani, dai ritardi, i rumori forti, le luci artificiali, mentalmente distrutti dall’uso considerevole di social, dalla frenesia a cui si è tenuti a rispondere a mettersi in contatto, ad organizzare, a decifrare.

Immagino la metropoli come un enorme mostro che fagocita gli abitanti, forse un’immagine ipertrofica e fin troppo disturbante, ma il tema è che non li fa entrare in un buco nero anzi, li affretta nell’occupare il tempo, li spinge ad un ritmo senza la cosiddetta «obsolescenza programmata», il consumismo dei nostri anni non è più di produzione ma di anime.

Si viaggia sulle coordinate leggere dei cartelloni pubblicitari: la frase breve che colpisce, il colore che coglie il nostro sguardo, il rumore disturbante o ridicolo che cattura la nostra attenzione. L’arte del saper cogliere lo sguardo, del convincere e del manipolare, l’arte del trovare tante cose finte per riempire il vuoto che lascia il non trovarne una vera.

Il fermarsi è un soffocante ostacolo, non ci sono più vuoti e pieni nello scorrere del tempo, l’agenda è diventata il simbolo della metropoli: non produrre è come morire e nella città produrre equivale a non fermarsi mai.

Così diventiamo carne che si muove grazie a pillole di integratori e polveri chimiche rinforzanti per mantenerci macchine in continuo movimento, come in uno di quegli episodi disturbanti di Black Mirror, in cui la continuità della routine si trasforma in un delirante macigno disumano.

Si arriva a casa e si stanchi persino per concedersi quei piccoli piaceri, il corpo si prepara per un’altra ennesima giornata immersa nel grigiore, sperando che il weekend possa offrire una piccola oasi di sollievo.

Nelle metropoli l’umano fa spesso fatica ad essere tale:

la socialità è difficile, un amico a quaranta minuti di metropolitana, non esiste mai un vero e proprio centro, la maggior parte dei piaceri dipendono da un enorme sperpero di denaro, si vive arrancando a quei due giorni di ipotetico ristoro.

Ma dove si colloca il canale di scolo di questo ‘inquinamento’? Non siamo più in grado di so-stare, perché abbiamo paura o forse in fondo sappiamo che la restituzione del reale ci deluderà: abbiamo soffocato talmente il nostro piacere nello stare fermi e godere della lentezza che ormai il naturale ritmo del corpo ci sembra una dimensione ovattata che può anche essere relegata a rumore di fondo.

Se solo invece stessimo in ascolto delle sensazioni di rimando e ‘non impattassimo’ lo spazio, la realtà sarebbe meno inquinata di quel superfluo, ci saremmo noi e i nostri bisogni, quelli minori e quelli più intimi, anche nella metropoli.

Queste parole non vogliono essere una soluzione, perché in fondo credo che il problema non sia la soluzione ma la consapevolezza di essere immersi in tutto ciò. Ognuno di noi costruisce una modalità specifica per presenziare lo spazio e credo che questo sia parte del proprio affermarsi nel luogo abitato che è composto da angoli, canali, insenature e conche, così come lo spazio anche il tempo dovrebbe esserlo: il flusso di vuoti e pieni che ci è concesso è metafora dell’andirivieni naturale delle cose e dell’oscillare umano di cui spesso siamo dimentichi.

Forse abitare uno spazio significa prender parte ai concavi e ai convessi con cui si presenta e costruire la propria forma e il proprio modo oltre che nello spazio anche nel tempo stesso.  

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