Dopolavoro Stadera: teatro politico

Intervista a Irene Arpe e Luigi Vittoria

Incontriamo Luigi e Irene del Dopolavoro Stadera in un bar in zona Navigli. Entrambi arrivano in bici, entrambi sembrano usciti da un film di Ettore Scola. Per tutta la durata dell’intervista si contraddicono a vicenda, soprattutto quando si tratta di dare coordinate temporali precise. Su una cosa però concordano: il teatro è un gioco serio, e spesso ti salva.

Il vostro ultimo spettacolo, L’anima buona di Piazza Tirana[1], è una produzione del Dopolavoro Stadera, l’associazione di promozione sociale di cui entrambi fate parte. Volete raccontarci la sua storia?

Si tratta di una comunità teatrale nata nel 2015 presso Zam. Inizialmente era un progetto amatoriale, eravamo non professionisti. Noi ci siamo aggiunti nel 2016. Vlad Scolari teneva un laboratorio teatrale grazie al quale è nato il gruppo che si è consolidato fino all’esordio del 2017 con Polenta e Sangue.

C’è stato un preciso momento in cui avete percepito un salto di qualità tale da imporre l’ufficializzazione dell’associazione?

Nell’estate del 2018 il Dopolavoro Stadera, grazie a Giosuè Facciolà e Donatella Massimilla, ha iniziato a collaborare stabilmente con il CETEC, Centro Europeo Teatro e Carcere, realtà grazie alla quale il Dopolavoro Stadera ha iniziato a disporre di una sala prove a Milano. A tale balzo è seguito un ricambio del gruppo. E la comunità che era venuta a crearsi a ZAM si è ampliata.

Quali sono stati i primi progetti successivi a questa svolta?

Innanzitutto “Resistenze, ovvero Aldo dice 26X1” del 2018. Era uno spettacolo nato dalle nostre ricerche sul tema della Resistenza e, in particolare, sulla brigata garibaldina “Coduri”, di stanza sui monti del Tigullio dall’armistizio dell’8 settembre fino al giorno della Liberazione. La scelta di partire da questa esperienza partigiana è legata al fatto che mio nonno (parla Irene) ne era il commissario politico. Alle vicende della seconda guerra mondiale italiana abbiamo poi voluto legare, allacciandoci al presente, testimonianze, documenti e storie di resistenze ora in atto nel mondo. In questo modo nel copione e sulla scena si sono presentati anche Lorenzo Orsetti, Helin, Mahmoud Darwish, Youssef Rakha.

Come avete condotto la creazione del testo, in quel caso?

Lo studio drammaturgico è partito da un vero e proprio lavoro di ricerca d’archivio, di ricostruzione storica e biografica. Nel caso mio (parla Irene) anche personale e familiare: ho avuto occasione di recuperare informazioni e testimonianze in famiglia.

Credo sia possibile affermare che il fil rouge delle vostre produzioni teatrali sia un impegno storico politico, in un tentativo di rileggere il passato attualizzandolo in maniera critica. È evidente in Resistenze, ma emerge anche nei più recenti lavori che vi vedono protagonisti. C’è una continuità poetica?  E se sì, come si declina?

L’attualizzazione accomuna diversi spettacoli, ma viene di volta in volta condotta in maniera differente. I primi lavori vedono alla regia Scolari. A partire dal 2020, invece, dopo un seminario di alta formazione teatrale sulla maschera neutra e sul clown, iniziamo a studiare con Mario Gonzalez. Nei lavori di cui lui è regista – L’anima buona e Benvenuta Catastrofe! – sono gli attori a scrivere. Una continuità poetica si può individuare nella tensione a voler rimanere attaccati alla concretezza, al mondo in cui viviamo quotidianamente. Il quotidiano molto spesso è dato per scontato. Spesso si pensa e si è pensato che allontanandosi dall’evidenza, dai fatti, da ciò che accade, si possa essere più interessanti (nell’ottica un po’ abusata in cui la meraviglia stia nell’essere sorprendenti, disturbanti, provocatori) oppure più veri. Si possa avere uno sguardo più lucido e quindi trovare finalmente un senso. Noi crediamo che queste siano invece illusioni.

Perdere di vista l’orizzonte consueto in cui ci muoviamo – in cui dibattono i popoli, le città, gli individui, – non mettere in scena i fatti collettivi e ordinari, rischia di portare la nostra attenzione e il nostro sguardo sul nulla, su immagini allucinatorie di realtà non radicate, che non ci riguardano (e che dopo lo scandalo iniziale dimentichiamo definitivamente) o su micro fatterelli – e passioni – totalmente personali che nel migliore dei casi ci annoiano. Stare sempre aderenti alla storia collettiva, alla vita nelle forme in cui si esprime ogni giorno, è il nostro tentativo di resistere all’afasia contemporanea, in cui parlando solo del nulla ci si dimentica come si parla.

Quali sono le caratteristiche della maschera neutra di Mario Gonzales?

La maschera neutra è uno strumento di lavoro che ha una lunga tradizione teatrale – a partire dalle riflessioni contenute nel saggio Il corpo poetico di Jacques Lecoq – e che però Mario recupera e modifica. La rende più essenziale, ancor più priva di connotati. L’obiettivo è ottenere una totale omologazione estetica: tutti devono essere identici. Solo così si può uscire da sé stessi, dai propri automatismi. È una vera palestra attoriale.

A cosa si deve, invece, la scelta del nero, non solo nelle prove ma anche in scena?

È un modo di far risaltare l’attore. Per Mario non ci devono essere costumi o scenografie che mettano in ombra – o in qualche misura compensino o distraggano – l’attore. È tutto in mano all’attore: la creazione del testo, la realizzazione, la tenuta dello spettacolo su di sé. Tutto senza orpelli.

Come si è concretizzato ciò nella stesura dell’Anima buona di Piazza Tirana?

Siamo partiti stendendo un canovaccio sulla base dell’opera L’anima buona del Sezuan di Bertolt Brecht. Inizialmente era lunghissimo, e in questo Mario, ascoltandoci, ci ha aiutato tantissimo: ha eliminato lungaggini rendendo il tutto più essenziale. Ci ha guidato nella ricerca del ritmo. Ad esempio è stato fondamentale trovare dei meccanismi di aggancio tra i monologhi, che rispettassero i tempi del teatro.

Raccontateci brevemente la trama.

A Milano, nel quartiere Giambellino, durante le distribuzioni alimentari della Brigata Polenta, si presenta il Dio della giustizia travestito da vecchio mendicante per via di una scommessa: deve trovare almeno un’anima buona. Grazie all’aiuto di Franco, un senzatetto del quartiere, il Dio riuscirà a trovare solo in Chanté, una prostituta, la persona disposta ad ospitare un poveretto.
Ricompensata con una somma enorme di denaro, la ragazza dà tutta sé stessa e tutti i suoi soldi per la Brigata Polenta. Ma per sopravvivere agli artigli del burocratismo istituzionale e dell’avidità di chi la circonda, Chanté è costretta a trasformarsi nel cugino Shon. Grazie a questa maschera, capace di adattarsi ai meccanismi della nostra società, riuscirà a non farsi divorare dagli avvoltoi.
Ma è questa l’anima buona che cercava il dio della giustizia? E perché è necessario arrivare a ciò?

Oltre alle produzioni teatrali, il Dopolavoro Stadera ha dato vita anche al progetto Brigata Brighella. Com’è nato?

A maggio 2020, in piena emergenza sanitaria, chiusi nelle nostre rispettive case, impossibilitati a portare avanti i nostri progetti e privati anche della sede, ci siamo ritrovati a interrogarci su come continuare a essere attivi nella società. In collaborazione con le Brigate Volontarie per l’Emergenza e con Emergency, decidiamo quindi di dare il nostro contributo, non con il semplice assistenzialismo, ma portando il gioco del teatro nei cortili della città.

Qual è l’origine del nome?

Ci ispiriamo alla secolare tradizione dei contastorie e al teatro ambulante La Barraca di F. G. Lorca, per cui inizialmente avevamo pensato di chiamarci Brigata Lorca. Tuttavia non suonava bene (Luigi: «Ma ve li immaginate i bambini urlare: «arrivano quelli della Brigata Lorcaaaaa»?). Così abbiamo recuperato Brighella, la maschera popolare lombarda della commedia dell’arte.

Raccontateci la vostra brighellata preferita.

Irene: Via degli Etruschi, estate 2020. Arriviamo cantando la canzone della Brighella, ci accoglie l’intero palazzo in cortile fra pacchi Emergency e tavoli pieni di torte e cibi vari cucinati dagli inquilini. Il cortile è pienissimo. Narriamo le tre fiabe e poi lasciamo il microfono ai bambini, a due dei tantissimi, che ne approfittano per cantare due canzoni al cortile. Ad ascoltarli ci sono le donne da una parte e gli uomini dall’altra, ed entrambe le parti sono emozionate, pure gli uomini, che se ne vergognano e allora ridacchiano fra di loro.

Luigi: Il senso e lo scopo della Brigata Brighella è quello di creare comunità nei cortili delle case popolari, per questo motivo mi risulta difficile scegliere un’incursione teatrale in particolare. Posso invece dire che ci sono alcuni luoghi e contesti in cui, grazie anche alla collaborazione di altre associazioni operanti sul territorio, siamo riusciti a entrare in diretto e ripetuto contatto con le famiglie che abitano i cortili delle case popolari in cui andiamo a narrare le nostre fiabe d’emergenza. Faccio alcuni esempi: nel quartiere di Calvairate, a seguito di varie incursioni teatrali della Brighella, in alcuni cortili i bambini e le famiglie hanno iniziato ad attendere il nostro arrivo con trepidazione, accogliendoci ogni volta con grida del tipo «sta arrivando il teatro!» oppure «stanno arrivando quelli con le saloppe blu!». Ecco, questo per noi è il massimo risultato.
Un altro esempio: nei cortili di DarCasa, una cooperativa in zona Barona che gestisce alcune case popolari dietro a piazza Miani, l’ultima volta che siamo andati a fare spettacolo le famiglie ci hanno accolto al nostro arrivo con dei cartelloni con sopra scritto «Benvenuta Brigata Brighella!» e si sono organizzate per prepararci una merenda al termine dello spettacolo a base di tè alla menta e dolcetti nordafricani.
Sono queste le più grandi soddisfazioni che personalmente ho provato, perché essendo un progetto non soltanto artistico ma anche e soprattutto sociale, l’appagamento che se ne trae non è solo di natura artistica (gli applausi a fine spettacolo, le recensioni, le offerte di lavoro eccetera) ma è soprattutto di natura umana: l’accoglienza che alcuni cortili delle case popolari ci hanno riservato è la ragion d’essere della Brigata Brighella.

Qual è secondo voi il rapporto tra teatro e politica?

Irene: Credo che il teatro si faccia per stare meglio. Tutto deve partire da qui, credo: da una spinta personale a mettere in discussione – ponendo l’accento sull’aspetto dialogico del termine – sé stessi e ciò che ci circonda. E non ci può essere asimmetria: non c’è qualcuno che dall’alto offre il teatro e qualcuno che, dal basso, lo accoglie. Il teatro politico è per me uno scambio di punti di vista in cui si re-incontra la realtà e ci si scontra rappresentativamente con essa. Poi torni a casa con una valigia piena di possibilità diverse con cui affrontare il mondo.

Luigi: A mio personalissimo avviso il rapporto tra teatro e politica è e deve essere molto stretto. Non che il teatro debba essere partitico, questo mai, credo anzi che qualsiasi forma d’arte non possa mai essere ridotta a mera propaganda. Ma una persona che voglia fare teatro deve avere qualcosa da dire, deve saper porsi un problema, deve avere gli strumenti per interrogare. E questo processo non può che essere un processo politico. Credo che il teatro sia necessario proprio per questo: da un lato, praticandolo, ti fa scoprire nuovi modi di stare insieme, di vivere il gruppo, di ascoltarsi. Dall’altro lato andare a teatro deve sconvolgere, deve mettere in dubbio, deve farci uscire dalla sala con delle domande in testa. Questa costante messa in discussione, questo far sorgere interrogativi, questo problematizzare, è e non può non essere di natura critica e, quindi, di natura politica.
Il mio più grande sogno è quello di riuscire, un giorno, a fare un teatro di questo tipo: un teatro che porti lo spettatore a interrogarsi, a mettersi in discussione, a cambiare. Un teatro che possa stimolare opinioni, e sappia portare a una posizione critica nei confronti del mondo chi ne fruisce.
Spesso il teatro è confuso con altro: con un evento mondano, con un qualcosa a cui si va per divertisti, per pavoneggiarsi, per farsi quattro risate e poi andare tutti insieme a cena fuori. Questo non è il modo in cui a me piace approcciarmi al teatro. Dovremmo semmai provare a recuperare una dimensione più antica, originaria, arcaica del fare teatro: nella Grecia classica ad esempio le rappresentazioni erano gratuite e obbligatorie, l’amministrazione della polis finanziava gli agoni tragici e quelli comici in occasione di feste pubbliche, e tutta la cittadinanza era tenuta ad andare ad assistere alle rappresentazioni al fine di sviluppare uno spirito critico sul mondo e sulla vita sociale. Questa dimensione politica e sacra del teatro credo sia troppo spesso dimenticata.

Qual è il ruolo dell’arte?

Irene: Tornare su sé stessi e sul mondo con uno sguardo e uno spirito sempre rinnovato. Anche la lettura di un saggio può assolvere allo stesso scopo, ma mette in gioco perlopiù soltanto la nostra componente razionale, teoretica. L’arte invece, nella fattispecie il teatro, può coinvolgere più direttamente tutto il nostro sentire. È come se la nostra apertura verso il mondo – verso le cose e le relazioni – fosse una porta scorrevole: ogni volta che usciamo da teatro questa si è apre – tanto o poco, dipende – e si richiude poi, ancora una volta in misura variabile (in questo sta la novità), quando ritorniamo saldamente ai nostri automatismi. Bisognerebbe andare a teatro almeno una volta alla settimana per sperare di mantenere la porta sempre un po’ aperta – ma l’arte costa troppo, quindi niente… torniamo a guardare “Vite al limite” su Real Time.

Luigi: Il teatro non è che una tra le tante forme d’arte esistenti, ma questo non toglie che, a mio avviso, il discorso che ho fatto nella risposta precedente possa estendersi a tutte le altre forme d’arte. Un romanzo ben scritto non può non produrre nel lettore uno “sconvolgimento” simile a quello che dovrebbe provocare la visione di un grande spettacolo teatrale, così come la visione di un film ben fatto. Ancora una volta: con “sconvolgimento” non intendo un mero mutamento di posizione di natura partitica, ma qualcosa di più profondo, che affonda le sue radici nella sensazione più che nella ragione. Arte e filosofia non sono la stessa cosa. L’arte non spiega razionalmente determinate cose, come potrebbe fare un saggio: è in grado con i suoi strumenti di fartele vivere, di fartele sentire, non di spiegartele.

L’arte riesce ancora oggi a rivestire il ruolo di cui parlate?

Irene: Non credo ci sia stata l’età dell’oro in questo senso. Il teatro ha sempre avuto la sua, più o meno ampia, comunità di ricettori. Oggi penso che si viva una sorta di paradosso: da una parte tutti si sentono, a torto o a ragione, in diritto di esprimere pubblicamente le proprie valutazioni su ciò che accade (e i canali mediatici ce lo permettono), dall’altra nessuno ha voglia di interpretare davvero la complessità. C’è un grande bisogno di sollievo, di evasione, di rasserenamento. L’arte apre alla difficoltà e noi spesso ci sottraiamo a tale invito, per paura e per stanchezza.

Luigi: Dipende. Non voglio fare discorsi apocalittici né nostalgici. Tutt’oggi esistono artisti che sono in grado di produrre e di creare arte con la “A” maiuscola, opere capaci di scuotere le coscienze e risvegliare le passioni. Oggi però l’arte si trova a combattere con un fenomeno nuovo, tipico della società dei consumi: la riduzione del prodotto artistico a mera merce di consumo, vittima come tutte le merci delle leggi di mercato e della cosiddetta “dittatura del consumatore”. Non è facile in questo contesto tener viva questa esigenza e questa tensione originaria che, a mio avviso, ogni artista – per essere chiamato tale – dovrebbe avere.
Parlo prevalentemente dell’ambito del teatro, della musica, del cinema e della letteratura: la tendenza generale è triste e cupa, proliferano sempre più libri, spettacoli, film e dischi che non hanno alcuna ragion d’essere se non quella di vendere.
Ma, come diceva un poeta, «dal letame nascono i fior», ed è proprio in questo contesto di imperante banalità che ogni tanto ci si riempie il cuore di emozione nel vedere un film fatto come si deve, volutamente impopolare, o nel leggere un libro che è oggettivamente un capolavoro e in quanto tale si sa già in partenza che le vendite saranno quel che saranno, ma non importa, perché l’intenzione originaria non era quella di vendere, ma quella di emozionare e di far pensare.

Io e Irene siamo nei chiostri dell’Università Statale di Milano. Abbiamo entrambe studiato letteratura, siamo amiche. Le spiego che non posso prendere in prestito i libri in biblioteca, l’ultima volta li ho restituiti in ritardo. Vorrei chiedere se posso almeno consultarli. Mi servirebbe un cugino, mi dice. Un cugino ottiene sempre quello che vuole. Ma dove lo trovo un cugino, adesso?

di Francesca Fulghesu


Note
[1] L’anima buona di Piazza Tirana

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