«Berretto, pipa, bastone». Umberto Saba nel ricordo dei poeti

Rileggere la poesia onesta di Umberto Saba

Chi era Umberto Saba?

Berretto, pipa, bastone. È attraverso banali oggetti quotidiani – «gli spenti oggetti di un ricordo» – che lo ritrae il poeta Vittorio Sereni. Con attributi ordinari ma specifici della figura di Saba, nella poesia sereniana si delinea così l’immagine di un poeta non più giovane, e reso «ramingo in un’Italia di macerie e di polvere» dalla storia. Come ha notato Stefano Carrai, questa poesia recupera la memoria di un Saba dei tempi milanesi. Già il dirlo «ramingo in un’Italia di macerie e di polvere» – con quell’aggettivo che riecheggia il sonetto In morte del fratello Giovanni  di Ugo Foscolo – rinvia al dopoguerra e al peregrinare che Saba aveva fatto dopo l’8 settembre del ’43[1].

Il poeta Umberto Saba (9 marzo 1883 – 25 agosto 1957), infatti, lasciata la sua Trieste con la promulgazione delle leggi razziali da parte del regime fascista, vive a Parigi, Roma, Firenze, Milano – dove passa più di dieci anni – e infine a Gorizia, città in cui si fa ricoverare fino alla morte, avvenuta nove mesi dopo quella dell’amata moglie, la Lina delle sue poesie.

È a Roma quando conosce Giovanni Giudici nel 1953, ed è a Trieste quando, dopo la pubblicazione della prima raccolta giudiciana, La vita in versi (1965), gli scrive:  «L’unica cosa che possa augurarti (non all’uomo, ma al poeta) è una qualche esperienza di vita: un grande dolore, un grande amore…»[2].

È l’augurio di un maestro, ma è anche un’affermazione di poetica: è la vita vissuta a toccare «il cuore del lettore», è la sincerità a rendere la letteratura poesia. Già nel 1911 Umberto Saba nello scritto Quel che resta da fare ai poeti, inviato alla rivista fiorentina «La voce» che però lo rifiuta, rivelava il primato dell’onestà alla base del processo poetico:

C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele D’Annunzio: fra gli Inni sacri e i Cori dell’Adelchi, e il secondo libro delle Laudi e la Nave: fra versi mediocri ed immortali e magnifici versi per la più parte caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore.

La poesia, per essere tale, deve dunque essere fedele alla verità del poeta. Una verità che è innanzitutto verità interiore, verità psichica, come emerge dalla poesia Amai del 1946:

[…]
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
[…]

E del resto, come nell’augurio a Giudici, è ancora una volta il dolore a far conoscere la verità più intima e profonda. La poesia viene dopo, e come per Giudici, non può essere decisa a priori o programmata. La lingua poetica è infatti attiva, ha una sua verità, ed è il vero autore della poesia.

Proprio a Giudici si deve, come nel caso di Vittorio Sereni (che nella raccolta Gli strumenti umani dedica ben due componimenti alla figura di Saba, e numerosi riferimenti in altre poesie), un altro ritratto del poeta di Trieste. Si intitola proprio Il ritratto, e come nella poesia sereniana trova la sua occasione di scrittura nella suggestione fotografica. Lo ricorda Giudici stesso nella raccolta di scritti Andare in Cina a Piedi:

Quattordici o quindici anni fa avevo avute in dono da Nora Baldi quattro fotografie di Umberto Saba, da lei personalmente scattate […]. Le avevo fatte allora incorniciare tutte insieme in un quadretto che, di parete in parete, ha poi trasmigrato con me per diverse case, sempre suscitando una qualche curiosità dei profani.  È un Saba vecchio, il Saba di queste fotografie […]. Ma in una, che non ricordo di aver mai visto altrove, il Poeta appare sotto un aspetto di infinita e dolce desolazione: uno in attesa del nulla[3].

Il ritratto che ci offre Giudici è tuttavia meno ancorato ad attributi specifici, e si delinea alla luce del ruolo che il poeta aveva avuto per lui:

[…]
Ma niente di tutto questo –
Perché nel ritratto è effigiato
Appena un vecchio Maestro
Messo in disuso benché amato
[…]

Il ruolo di maestro viene più volte ricoperto da Saba, che negli anni diventa un punto di riferimento per le nuove generazioni di poeti. Impossibile non ricordare, ad esempio, Sandro Penna, che conosce nel 1929 e con cui instaura uno stretto rapporto di amicizia e di confronto poetico, non privo di complessità.

Nella raccolta di pensieri e racconti Scorciatoie e raccontini, con sguardo obliquo e rapido, Saba più volte ritorna con la memoria a Penna, con cui condivide l’idea che per i poeti, la poesia, sia la madre (come afferma nella scorciatoia 13 e come dimostrano le numerose occorrenze del tema materno all’interno del corpus poetico dell’autore):

L’amabile castità di questo poeta viene dal fatto che egli ci ha dato – senza che né lui né noi lo volessimo – i tanto attesi canti della maternità: «trovato ho il mio angioletto / tra una losca platea / fumava un sigaretto / e gli occhi lustri avea.» (Scorciatoia 96)

Il confronto tra i due poeti – l’uno, Saba, più anziano, l’altro, Penna, più giovane ma già convinto di aver superato il maestro – è stato fonte di influenze reciproche. Basti pensare alle raccolte sabiane Parole e Ultime cose, di cui Penna stesso vanta addirittura la paternità (influenza però drasticamente negata o quantomeno ridimensionata dall’autore del Canzoniere). E d’altronde la critica ha notato un incremento della frequenza di canti materni nell’opera sabiana a seguito della conoscenza di Sandro Penna.

Tuttavia a distinguere nettamente i due poeti, aldilà della specifica querelle e delle direzioni e intensità delle influenze reciproche, è proprio quel ruolo gnoseologico che Saba riserva alla poesia. Come ha notato Cesare Garboli, infatti, l’io lirico penniano è privo di consistenza autentica. La poesia di Saba, invece, si basa proprio sull’autentico scandaglio dell’io lirico, sempre fedele a se stesso[4].

Tale ricerca, approfondita al punto da rendere la poesia strumento psicoanalitico – disciplina che molto influenzò il poeta, che fece analisi a Trieste con il dott. Edoardo Weiss, come Italo Svevo – mira a rendere la poesia vero e proprio specchio del poeta. Uno specchio non necessariamente realistico, talvolta torbido o crepato, ma pur sempre riflettente.

Come ha notato Cristina Benussi la scrittura di Saba può essere considerata un’autobiografia «non tanto nell’accezione di Philippe Lejeune, che ne fa una definizione di genere, quanto in una prospettiva più filosofica, per la quale è attraverso un discorso autobiografico che il soggetto narra e spiega come sia divenuto ciò che è: chiarisce cioè per quali vie, e in virtù di che cosa, sia giunto a pensare quello che pensa sul tema che si è scelto di rappresentare»[5].

Più volte, infatti, nel Canzoniere il lettore incorre in autoritratti, come la poesia Così passo i miei giorni:

Così passo i miei giorni, i mesi, gli anni.
Altro non chiedo in gioventù piacere
che tessere nell’ombra vuoti inganni,
care immagini sì, ma menzognere.

Solo a volte mi mescolo alle altere
genti del mondo. E anch’io quei loro affanni
provo: non cure tacite severe,
ma le lotte crudeli e l’onte e i danni.

Onde poi ritornando all’oziosa
pace dei sogni miei lunghi e fatali,
trovo ancora più dolci i colli aprichi,

il mar, gl’interminabili viali,
ove al rezzo dei grandi alberi antichi
il mio cuore s’addorme e si riposa.

O nell’amara poesia Fotografia, in cui, come nel ricordo offertoci da Giudici, è la fotografia di Nora Baldi a dare spunto all'(anti)ritratto:

Questo volto che indurano gli affanni
ed il tempo, e tu a volo,
Nora, gentile fotografa, hai colto;
è il mio, tu dici. – Io, se mi vedo, è solo
morto. O ragazzo di quindici anni.

E anche l’unica opera romanzesca dell’autore, il capolavoro Ernesto, ultima opera di Saba, nasce da un’istanza autobiografica e si mantiene ancorata a un principio di sincerità poetica – affine ai dettami manzoniani, non a caso autore citato come modello positivo proprio nel saggio Quel che resta da fare ai poeti – per tutto il breve arco narrativo.

È nella cattività clinica che Saba, in preda a quella che lui stesso definisce una «crisi di maternità», scrive di getto i primi episodi del breve romanzo, in cui campeggia come protagonista proprio un ragazzo che ha da poco superato i quindici anni. I piani linguistici – il dialetto del giovane Ernesto e l’italiano dell’io maturo – incrementano l’intimità e la privatezza del racconto. “Intimità” che in un primo momento Saba pensa addirittura di utilizzare come titolo. Intimità e chiarezza guidano dunque Saba alla ricerca del vero poetico, ma, come ha notato Maria Antonietta Grignani, mai in senso illuministico: il bisogno di chiarezza psicologica, infatti, deriva semmai proprio dalla negazione della ragione classica[6].

Come uno psicologo di se stesso, dunque, nell’intera sua opera Umberto Saba analizza e fissa in forma artistica traumi ed esperienze private, in un confluire di temi che si congiungono e mescolano in tutto il Canzoniere – libro-totale, per recuperare una nota definizione di Enrico Testa, e vero e proprio romanzo autobiografico in versi – e nelle opere prosastiche, Ernesto innanzitutto, romanzo autobiografico in terza persona.

E se come affermava Elsa Morante, per l’opera di Saba era accaduto ciò che spesso accade alle opere della più grande poesia, e cioè che esse sono sempre troppo moderne per i loro contemporanei, necessitando così di tempi maturi perché il loro senso recondito si dispieghi e possa essere colto nella sua pienezza[7], ancora oggi risulta necessario e fecondo rileggere la sua opera, perché in essa non vi è solo la verità del poeta, ma vi è la verità della poesia:

Al lettore
Se leggi questi versi e se in profondo
senti che belli non sono, son veri,
ci trovi un canarino e TUTTO IL MONDO.
(Umberto Saba)

di Francesca Fulghesu

[1] Stefano Carrai, Saba personaggio degli ‘Strumenti umani’, in «Gli Strumenti umani di Vittorio Sereni», a cura di G. Fioroni, Pensa, Lecce, 2016, pp. 67-80.
[2] Giovanni Giudici, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, Ledizioni, Milano, 2017.
[3] Ibidem.
[4] Maiko Favaro, Saba, Penna e «i tanto attesi canti della maternità», in «Lettere Italiane», Vol. 65, No. 4 (2013), Leo S. Olschki s.r.l., Verona, pp. 580-596.
[5] Cristina Benussi, Umberto Saba e il romanzo della sua vita, in «In un concerto di voci amiche. Studi di letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli», Galatina, Congedo, 2008, vol. II, pp. 341-356.
[6] Introduzione di Maria Antonietta Grignani in Umberto Saba, Ernesto, Einaudi, Torino, 2015.
[7] Francesca Cadel, Umberto Saba, Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante. Scorciatoie anticanoniche nell’Italia del dopoguerra, in «Italica», Vol. 89, No. 2 (Summer 2012), American Association of Teachers of Italian, pp. 253-269.

Per le citazioni delle opere di Umberto Saba si rimanda al Meridiano Mondadori: Umberto Saba, Opere, Mondadori, Milano, 2001.

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