Il cambiamento climatico nel capitalocene

Un’alternativa alla barbarie

Il cambiamento climatico, l’inquinamento, la distruzione degli habitat naturali sono ormai problemi che investono da tempo il nostro mondo. Da anni esistono associazioni ambientaliste che si battono contro la distruzione dell’ambiente: Greenpeace, Legambiente, WWF, Sea Shepherd Conservation Society, Extinction Rebellion. Gli scienziati stanno denunciando lo scriteriato comportamento umano che già provoca immani disastri ambientali. Vengono pubblicati libri, articoli, ricerche che mostrano come di questo passo si andrà incontro inevitabilmente all’estinzione di animali, piante, interi ecosistemi: la “Sesta estinzione di massa”.

Tuttavia, alle denunce allarmate, alle manifestazioni oceaniche, alle dichiarazioni di governi e istituzioni, non sembrano fare seguito decisioni altrettanto drastiche, radicali. L’esito della COP 26 lo dimostra: la montagna ha partorito un topolino. Ma se siamo di fronte al baratro, se ogni istante che passa è un attimo perduto nella lotta che dobbiamo combattere, perché non agiamo “prima di subito”? Perché non viene bloccata la cementificazione del territorio, la distruzione delle foreste, le estrazioni di fonti di energia fossile? Perché non viene messo in atto un piano di reale riconversione dell’economia in tutto il globo? Non è forse quello che è stato più volte affermato come “necessario”, “imprescindibile”, “urgente” dai politici (quasi) di ogni colore?

Per rispondere a queste domande dobbiamo fare un passo indietro. Negli anni Ottanta il biologo Eugene Stoemer aveva coniato un termine per indicare l’impatto che l’umanità ha sull’ambiente: “antropocene”, l’era geologica in cui l’uomo è autore dei processi di mutamento dell’ecosistema.

Questo neologismo è stato poi ripreso e reso di pubblico dominio nel 2005 nel libro del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, Benvenuti nell’Antropocene.

Sembra quasi ovvio utilizzarlo: l’uomo ha una capacità di trasformare l’ambiente circostante che è totalmente sconosciuta al resto del mondo animale e vegetale. Eppure, nella sua ovvietà, il concetto di “antropocene” è estremamente vago, astratto. Chi è il responsabile di questa nuova era geologica? Tutti noi, tutta l’umanità? L’essere umano in generale? E perché il problema si è presentato con la gravità che conosciamo solo negli ultimi decenni? Perché il 70% dell’inquinamento oggi viene prodotto dalle 100 più grandi multinazionali? Questo il termine “antropocene” non lo dice. Sembra ovvio, e, nella sua ovvietà, incontestabile. Eppure rappresenta una visione astratta del problema.

Ora, tutte le civiltà umane hanno avuto un’impronta ecologica, hanno cioè consumato delle risorse naturali sopravvivere e riprodursi. Di più. Tutti gli esseri viventi hanno un’impronta ecologica: il leone che mangia la gazzella, la gazzella che mangia le piante, le piante che traggono dal terreno l’acqua e le sostanze per il loro nutrimento. Tuttavia, evidentemente, non tutti hanno la stessa impronta ecologica, lo stesso tipo di capacità di trasformare il mondo.

Lo stesso vale per le società umane. Gli uomini e le donne, nel corso della storia, si sono relazionati e si relazionano tra di loro e con l’ambiente circostante in modi differenti. Non è la stessa cosa andare a caccia di bufali con l’arco e la freccia, coltivare campi con l’aratro tirato dai buoi o produrre tavoli con i robot.

Tuttavia, le diversità non sono solo di carattere tecnico e tecnologico. Sono, innanzitutto, diversità che riguardano le relazioni politiche, economiche, culturali tra gli individui. Un conto è vivere in una società il cui fondamento è il lavoro schiavistico e al cui vertice vi è un potere assoluto e teocratico, un conto è vivere in una società in cui un lavoratore è libero di vendersi al miglior offerente, lo Stato è quello moderno, laico, burocratico e in cui ogni quattro anni si va a elezioni. Sono società diverse, che sviluppano capacità differenti di soddisfare i bisogni, e sviluppano anche bisogni differenti: il bisogno di un buon libro non era molto comune tra i Neandertahl.

Nonostante le differenze, però, almeno per il momento le società esistite sono state contraddistinte da rapporti di dominio. Dominio politico, economico, culturale, che hanno fatto sì che una parte della società riuscisse a imprimere una direzione allo sviluppo sociale congeniale ai propri interessi, e di converso che il resto della società abbia subito questa direzione.

Siamo purtroppo ancora a questo punto: la nostra è una società fortemente diseguale, contraddistinta da brutali rapporti di dominio e di sfruttamento. Le classi subalterne possono aver ricavato dei benefici: la crescita del benessere negli ultimi cent’anni nei Paesi occidentali lo dimostra. Ma nel complesso sono benefici pagati a caro prezzo.

Sia perché in realtà è ricchezza prodotta dalle classi dominate stesse: «Senza di noi non si può fare niente, perché noi siamo quelli che costruiamo tutto quello che poi la gente vede» ha detto una volta – molto giustamente – un operaio intervistato dal collettivo Clash City Workers[1]. Sia perché i costi materiali in termini di inquinamento, depredazione, distruzione sono scaricati altrove. Basta vedere le condizioni di vita nelle bidonville alla periferia delle megalopoli del cosiddetto “Terzo Mondo” per rendersene facilmente conto.

Ma, oltre al fatto che come nel passato i rapporti sociali sono all’insegna del dominio tra gli individui, cosa contraddistingue la nostra società?

Principalmente il fatto che per produrre qualsiasi oggetto è necessario innanzitutto possedere un capitale, ossia della ricchezza, del denaro, che possa essere investito. Il denaro, che nel passato svolgeva essenzialmente la funzione di semplificare i commerci (invece di portarmi al mercato le sedie da barattare con la stoffa mi porto del denaro: comodo, leggerlo, facile da trasportare, permette di separare il momento della compera da quello della vendita…), è diventato il punto di partenza e di arrivo della produzione: si parte da una certa quantità di denaro per arrivare a una cifra superiore di denaro.

Come sia possibile questo vero e proprio miracolo dell’economia-politica è tema da affrontare in un articolo specifico. In estrema sintesi possiamo rispondere dicendo solo che questo avviene mettendo all’opera la forza-lavoro per un tempo maggiore di quello necessario a riprodurne il valore. Ossia, la forza-lavoro vale X, per produrre X ci si mette un tempo di lavoro T ma viene fatta lavorare T + t. Questo t viene accaparrato senza contropartita. È questa dinamica, questo particolare rapporto di produzione che permette al capitale di imprimere il suo marchio sui rapporti sociali in generale e ci permette di riconoscerli come differenti da quelli del passato. Non è questo il luogo però per entrare maggiormente nel merito. Piuttosto ci interessa sottolineare un’altra cosa.

Se l’accrescimento della quantità di denaro è l’alfa e l’omega della produzione, se la produzione stessa altro non è che un mezzo per accresce denaro, per fare profitti, allora tutto è piegato a questo scopo. Il prezzo da pagare per realizzare un investimento è, faustianamente, l’anima del mondo. Non appena si mette in discussione questo principio, com’è avvenuto durante la pandemia quando la produzione e i consumi sono stati interrotti o rallentati, ecco che l’intera società piomba in uno stato di convulsione e di crisi. Ed ecco che non appena gli impedimenti vengono tolti, subito ci si rimette in moto freneticamente. «Consumate! Producete! Spendete! Fate girare l’economia!»: questo il mantra che viene incessantemente ripetuto.

Di fronte a questo Moloch che corre incessante, sempre bramoso di nuovi mercati da aprire, di nuove risorse da depredare, cos’è il mondo se non un enorme deposito da sfruttare? Cos’è una foresta se non un deposito di legna per farci stuzzicadenti? Questo almeno se ho investito i miei capitali nella produzione di stuzzicadenti. Se li ho investiti nella produzione di tavoli la foresta sarà legna per fare tavoli, se li ho investiti nella produzione di carne è un intralcio da abbattere per fare pascoli, e così via. Cosa sono i ghiacci polari? Un ostacolo che mi impedisce di estrarre il gas e il petrolio sotto l’Artico. Cosa sono le persone? Un’appendice delle macchine che è meglio che chinino la testa e sgobbino… Persino la cura per l’ambiente, se sussunta alla logica capitalistica, è occasione di profitto. Lo dimostrano ad esempio le aree protette date in mano ai privati in Sud Africa, dove la tutela dell’ecosistema è subordinata alla possibilità di stimolare il turismo. Le conseguenze sono a dir poco contraddittorie. Non solo per far arrivare i turisti è necessario sviluppare i trasporti, che inquinano. Non solo è necessario costruire infrastrutture, che distruggono la natura. Ma addirittura si arriva a importare nelle aree specie allogene come le giraffe o i leoni albini, che mettono a repentaglio gli “equilibri” ecosistemici.

Ecco perché il problema ambientale si pone oggi, anche se l’umanità esiste da migliaia di anni. Perché solo da un secolo e mezzo la società è dominata da questo modo di produzione, quello capitalistico. Un modo di produzione tutto teso verso la produzione di ricchezza per la ricchezza, in cui il capitale che si autovalorizza per il fine stesso di autovalorizzarsi è il vero soggetto della società.

Più che di “antropocene” bisogna iniziare a parlare, come fa Jason Moore, di “capitalocene”. Perché il problema non è l’uomo (tanto varrebbe suicidarci in massa se fosse così), ma il capitale.

Il che per altro ci dà quanto meno una speranza. Poiché i modi di produzione che si sono alternati nella storia sono numerosi, non c’è alcuna buona ragione per cui quello capitalistico debba essere l’ultimo. Bisogna cambiare società, cambiare i rapporti sociali. Iniziare a organizzarci per costruire un mondo nel quale gli esseri umani pianifichino collettivamente e democraticamente le modalità per soddisfare i propri bisogni. A partire dal bisogno primario, dalla condizione che rende possibile il soddisfacimento di tutti gli altri bisogni: avere un mondo sano, in cui l’ambiente non è inquinato, in cui gli ecosistemi non sono distrutti, in cui la natura è tutelata.

È un percorso, questo, molto difficile. Sia perché il tempo è poco sia perché la situazione non lascia ben sperare. Ma solo così potremo davvero pensare di trovare un alternativa alla barbarie verso cui cui stiamo precipitando.


[1] Clash City Workers, Dove sono i nostri? Lavoro classe e movimenti nell’Italia della crisi, la Casa Usher, Firenze-Lucca, 2014, p. 63.

di Simone Coletto

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Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.