Un gesto contemporaneo

Gli stornelli di un postino di Neruda

Quando ho iniziato a scrivere ero un ragazzino di 13 anni. Avevo appena finito di vedere Il Postino, con Troisi e Noiret. Il mio battesimo poetico, quindi, è avvenuto grazie a un film. Modo di per sé inusuale: in genere sono i libri a stimolarti. Invece per me fu dirimente una videocassetta che era in allegato con il Corriere a 3.500 lire. Da lì ho cominciato ad avventurarmi nel mondo della poesia e dei suoi testi.

Ci furono poi tre eventi che consolidarono il mio fare poesia (il terzo ve lo rivelo alla fine): il primo fu l’ingresso nel giornalino del mio liceo, Gli Stornelli del Manzoni. Da questo gruppo, che si è raccolto intorno a Rudi, fondatore e primo direttore, sono nati i miei primi articoli in prosa, nonché la messa in scena della mia attività di poeta. Tant’è che molti, con probabile ironia, mi chiamavano “Il poeta del Manzoni”.

L’altro evento fondamentale è stato il premio Marina Incerti. Il mio professore del liceo di italiano, Giancarlo Pontiggia, mi stimolò a parteciparvi la prima volta quando ero in II liceo classico. Non mi classificai tra i vincitori, ma ricevetti una menzione speciale. In III liceo ci riprovai, con dei testi nuovi; andavo per i 19 anni, ero sul punto di finire il quinquennio. Consegnai la busta coi miei testi l’ultimo giorno prima della scadenza del termine, che si dava il caso fosse di domenica. Mi feci accompagnare comunque da mio padre alla scuola, il Pasolini, e infilai la busta sotto l’ingresso principale. Fu con molta sorpresa che scoprii di essere stato un’altra volta selezionato. Allora andai, accompagnato da mio padre e dalla mia ragazza di allora. Ricordo che attesi che pronunciassero il mio nome, ma passavano le posizioni e io non c’ero. Quando arrivarono al secondo classificato esultai: non ero io. Ciò voleva dire solo una cosa: avevo vinto il primo premio. In giuria c’erano Milo De Angelis e Luigi Cannillo. Allora cominciai, introdotto da quest’ultimo, a girare fra diversi eventi di poesia, dove leggevo i miei testi. Fui indotto anche a frequentare la Casa della Poesia, che ai tempi era nella Palazzina Liberty, dove conobbi il Gotha della poesia. Tuttavia, smisi di andarci ben presto, perché mi sentivo spesso a disagio, spesso mi annoiavo, ancor più spesso mi sentivo fuori luogo. Me ne chiesi a lungo le ragioni: in fondo, quello era il mio sogno. Pensai tante volte di non essere adatto al mondo della poesia.

Chi mi legge si chiederà a buon diritto perché sto scrivendo questa specie di autobiografia. Cosa c’entra con la raccolta? Ebbene, ho pensato a lungo a che cosa scrivere in questo numero e sono giunto alla conclusione che parlare di un poeta sarebbe stato riduttivo: di articoli sui poeti ne abbiamo già tanti. Forse troppi. Ma articoli che parlano dello stato dell’Arte, della contemporaneità della poesia, di questi ve ne sono pochissimi, che io sappia. E quale occasione migliore per iniziare a trattare di poesia (e non di poeti), se non in questo numero, dove si parla della raccolta di uomini?

Come avrete intuito, ho potuto osservare da vicino il gruppo della poesia contemporanea; essenzialmente esso è la filiazione diretta del Gruppo ’63. Per chi non lo sapesse, il Gruppo ’63 nasce nel 1963 a Palermo, si appella neoavanguardia e si propone di scompaginare la poesia tradizionale senza però aver in mente un intento comune o una qualsiasi direzione. Un movimento un po’ così. Il problema è che, nonostante le loro velleità rivoluzionarie, i poeti di questo gruppo scelsero scientemente di distaccarsi dalla realtà, di divenire un gruppo elitario. Tra i componenti del gruppo capeggia Sanguineti, per intenderci.

Edoardo Sanguineti, Umberto Eco, Furio Colombo. Meeting del Gruppo ’63. Palemo, 1963

Personalmente credo che questo Gruppo abbia profondamente cambiato (in peggio perlopiù) il panorama della poesia italiana, che abbia allontanato progressivamente il pubblico, fino a disgregarlo completamente, e che abbia perso totalmente il polso della realtà, distaccandosi violentemente dal mondo. Tant’è che oggi la più parte dei poeti ha fatto propria l’idea per cui la poesia sia elitaria. Ricordo che tante volte ho sentito dire, lungo diversi incontri, che la poesia è per forza di cose per pochi, che è da sempre così. Ebbene, questa è una sciocchezza: la poesia ha permeato l’ambiente culturale dacché esistono popolazioni stanziali (e non) dotate di un codice linguistico. La poesia è una delle radici fondamentali della nostra specie, nonché espressione di un’esigenza ben precisa: ricordare i raccordi della nostra umanità.

Una volta feci notare durante una riunione quanto fosse falso che la poesia è per pochi, portando un esempio: abbiamo testimonianza da Foscolo del fatto che era uso comune cantare versi del Tasso, anche negli strati sociali più umili. A dimostrazione del fatto che la poesia è sempre stata diffusa, aperta, capace di unire e capire il mondo in cui viveva; oggi, al contrario, essa ha avuto tendenza sempre più a isolarsi, facendosi gruppo marginale, a chiudersi in un sacello, libero da ogni confronto. Ah, ovviamente l’interlocutrice non seppe che rispondere.

La poesia del passato era elitaria solo nella misura in cui era prodotta da poche persone, ma per motivi evidenti, dato che pochissimi sapevano leggere e scrivere; tuttavia la sua esposizione era di dominio pubblico, aveva un ruolo fondamentale anche per il potere costituito.

L’esagramma in questione coglie un punto a mio avviso essenziale: un gruppo che non trascende i suoi stessi componenti diventa qualcosa di vacuo. La singolarità è nulla se non viene contestualizzata nella raccolta di forze che vanno al di là del sé, in funzione di qualcosa di ulteriore. Nel passato i gruppi poetici avevano un’esigenza comunicativa molto forte, in cui il messaggio era ben chiaro e si voleva, con fini comuni, determinare un cambiamento radicale del reale, nel pieno confronto con esso. Col Gruppo ’63 c’è stata, come già detto, una disgregazione delle finalità, da cui deriva un decremento radicale del senso necessario alla poesia: ognuno aveva la (giusta, di per sé) libertà di poetare come voleva. Il problema è che si è costruita non tanto una struttura poetica maggiormente comprensibile e aperta, ma, piuttosto, uno sperimentalismo eccessivo, cerebrale, incapace di comunicare. È così che la poesia ha perso totalmente il suo pubblico.

Alle serate di cui dicevo, nella Palazzina Liberty, il pubblico era costituito quasi esclusivamente da poeti, fatta salva qualche eccezione. Immaginatevi un teatro pieno in cui il pubblico è costituito solo da attori e capirete bene qual è il problema. Per quanto limitata, la mia esperienza mi ha insegnato che fare arte significa caricarsi di una responsabilità che va oltre il proprio operato. Alcuni diranno che è meglio avere una poesia libera, personale, ma qui non è in gioco la libertà: è in gioco la capacità della poesia di essere letta. Per come stanno le cose, essa non fa altro che avvilupparsi in un giogo che non le è proprio.

E ora veniamo al terzo evento fondamentale: il mio ingresso nella Tigre di Carta, rivista in cui ho ritrovato il senso di ciò che scrivo. Grazie a loro ho scoperto il valore di un gruppo aperto al pubblico, un gruppo che vuole comunicare con l’esterno e dal nulla ha creato uno spazio in Porta Genova dove ci si può aggregare, confrontarsi, vivere la cultura senza offuscamenti o pregiudizi, in cui il pubblico, in un modo o nell’altro, non è fatto solo di attori, poeti, artisti, ma soprattutto di spettatori. Ecco, questo aspetto è fondamentale per qualsiasi arte: la presenza di qualcuno che guardi e basta.

Il vero momento fondante della mia attività di poeta non è stato quella sera in cui ho scritto la mia prima poesia a Campione d’Italia, ma l’ingresso in quel giornalino liceale, impaginato malissimo, ma pieno di idee, prospettive, sfide. E ora che sono redattore di questa rivista che avete tra le mani, sono ancor più cosciente di quanto sia importante fare gruppo per espandersi e, d’altra parte, quanto sia idiota contrarsi in intellettualismi e narcisismi di maniera. Del resto, tornando alla poesia, non credo sia un caso che, se facessimo un rapido sondaggio tra i lettori assidui, quasi nessuno sarebbe a conoscenza dei poeti contemporanei. Vi assicuro però non è solo colpa del pubblico ignorante. È colpa, soprattutto, di chi scrive.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).