Un esperimento di auto-scrittura collettiva
A chi diresti “devo farlo per la mamma”? A chi, invece, “devo farlo per MIA mamma”? Il tuo psicologo è figlio unico? Se non lo è, forse a sua sorella dice “la mamma”. Forse lo dice anche a suo padre. Se ne ha uno, ovviamente. Il mio psicologo non ha parenti finché non gli chiedo se ne abbia. Per ora non ne ha. Però avrà qualcosa che è solo suo, giusto? Lo studio. Ah no, quello lo condivide. Be’, la casa forse. Gli indumenti. Quelli di solito non si condividono. Certo, puoi prestarli. Però sono tuoi. I pensieri, anche. Le idee. Ciò che scrive. Quando mi ascolta, ad esempio, scrive. Scrive sempre. Mi dice di parlare più piano, perché sai, devo scrivere. Sono sue, quelle parole. Cioè, forse sono mie. In fin dei conti le ho dette io. Sono mie o sue? Sono nostre? Le idee, però, sono mie. Anche se a volte le provocano le sue domande. E a volte lui si commuove, o ride di ciò che gli dico. È sua, quella reazione. Sono suoi quei sentimenti. Ma non è questione di proprietà. Non è questione di infilzare una bandiera, affiggere un cartello di proprietà privata, firmare un contratto di acquisto.
Mia madre non è mia. Il mio psicologo non è mio. Ciò che scrivo non è mio. Non è nemmeno tuo però eh, giù le mani. Non farti strane idee. L’ho scritto io. Forse qualcun altro l’avrà anche già scritto qualcosa di simile, anche di migliore, hai ragione. Però questo atto, l’atto di scrivere che sta avvenendo or ora e che sarà già avvenuto mentre leggerai, è pur sempre mio. Voglio dire: lo sto facendo io. Io, sola. Avrò anche usato parole già usate, starò anche muovendo le mani in modi già visti, però è mio. Sai che ti dico? Ora lo firmo anche. Fe… Così ti tolgo ogni dubbio e anche quell’espressione supponente… de… che peraltro ti fa arricciare il naso, lasciatelo dire, in modo … ri… molto fastidioso. Federica. Ecco. Labbra rigide, lingua che sbuca a lato, sopracciglia un po’ tese, mi sto concentrando, scusa ma voglio che la firma sia chiara, ben calcata, mica che poi me la cancelli. Cossu. Firmato. Contento?
E ora non iniziarmela con la storia dell’omonimia, sei ben disperato se è questo il massimo che sai fare. Non sono l’unica Federica Cossu ok, ma questo non significa nulla. Sappiamo tutti che non sono nessuna di quelle che non sono me. Quelle altre che trovi su Google se cerchi il mio nome. Ce n’è una, ad esempio, di Federica Cossu, che fa yoga. Ma mi ci vedi? Sono così rigida che se provo a toccarmi i piedi mi capovolgo. L’unica volta che ho fatto una lezione di yoga – peraltro tenuta dalla mamma di qualcuno, dopo a questo qualcuno gli chiedo se quando parla di sua mamma dice “mia mamma” o “la mamma”, voglio proprio togliermi il dubbio – dicevo, l’unica volta che ho fatto una lezione prova di yoga sono svenuta. Non penso che quella Federica Cossu lì svenga, quando fa yoga. Ti pare? Lo insegna anche, sarebbe ben strano se ogni volta che insegna yoga svenisse. Anzi, probabilmente è l’unica Federica Cossu che quando fa yoga non sviene. Comunque dovrei chiederlo alle altre, non lo so con certezza.
Saranno anemiche anche loro? Il quindicesimo risultato, ad esempio, bassina mora un po’ pallida, sarà anemica? Gli indizi ci sono tutti. Lei si occupa di politica, mi sa che ha scritto anche una tesi su questo. Già più affine a me, hai ragione. Ma lei, proprio come se fosse nata negli anni Sessanta, dopo aver militato in un partitucolo estremista ormai vecchiardo si è messa a commentare i post su Facebook. E no, non ironicamente. Proprio per litigare, come la svastica in centro a Bologna di Calcutta. E poi sono tutte sarde-sarde, quelle lì. Fattore che rende più probabile che siano anche anemiche, ma non è questo il punto. Loro non devono spiegare ogni giorno a qualcuno che no, il mio cognome è sardo, ma io non ci ho nemmeno mai vissuto, in Sardegna. Io sono milanese. Ok, non milanesissima. Non esattamente milanese da generazioni, ecco. Ma a parte che sei un po’ razzista, se fai di queste distinzioni, dato che non penso di doverti spiegare io che l’identità è un concetto in divenire, complesso, stratificato. Nel senso, leggiti Bauman e non rompermi i coglioni.
Io, comunque, son nata a Milano. Milano è la mia città. La condivido con altri milioni di sconosciuti molto cordiali. “Molto”… “Molto” è esagerato. Abbastanza cordiali. Civili. Che comunque risceglierei, non è che sia totalmente casuale che io sia ancora qui, è la mia città, come già ti ho detto. E questo è il mio testo. Quindi leggilo pure, sempre che tu stia ancora leggendo, ma poi restituiscimelo senza modifiche. Non come nel medioevo, ecco, che tutti si impossessavano dei testi altrui senza neanche dire grazie. Nessuno che rivendicasse la proprietà dei propri testi. Dei propri appunti analitici. Delle proprie madri. Erano dei fricchettoni, quei medievali… Ciao, benvenuto, sei nuovo? Non sei lo stesso che mi rompeva i coglioni sull’identità nazionale, mi pare. Facendomi sentire in colpa perché rinnego le mie origini sarde. Che comunque non rinnego, sia chiaro. Leggi pure, ce n’è per tutti. Dicevamo. Non credeteci quando vi dicono che erano reazionari e bigotti, i medievali, erano dei gran promiscui senza rispetto dei confini di proprietà. Tutti quanti, dal primo all’ultimo, per mille anni. Proprio come il poliamoroso che hai conosciuto su Tinder qualche settimana fa. Abbiamo dovuto aspettare molti secoli eh, per poter dire “questo testo è mio”.
A chi diresti “devo farlo per il testo”? A chi diresti “devo farlo per il mio testo”? A nessuno, è una frase un po’ strana. Con il diritto d’autore credo sia nato anche il timore di venire copiati. Prima nessuno temeva di essere copiato, poi all’improvviso ci siamo tutti americanizzati e abbiamo rivendicato la proprietà di parole trite e ritrite e accusato tutti di copiarci quando la verità è che non scriverete mai niente che sia solo vostro. Tutto è stato già scritto. Anche il fatto che tutto sia già stato scritto, è stato già scritto. Potete scrivere per divertirvi, per scardinarvi, per rendervi così flessibili da toccarvi i piedi, ma non crediate che non sia già stato fatto. Siete già in ritardo, belli. Romanzo autobiografico sulla mamma? Già fatto. Mi pare fosse un francese, l’autore. Sì be’, non esattamente sulla mamma. Sulla sua mamma, diciamo. Comunque non faremmo di certo meglio noi, diciamocelo. Neanche unendo le forze, temo. Neanche facendo i fricchettoni abbattendo le barriere architettoniche del diritto d’autore scrivendo collettivamente un’opera sulla madre che a quel punto potremmo chiamare la mamma e non più la mia mamma. Però possiamo provare, male non fa. Alla peggio ci saremmo resi così flessibili da poterci toccare i piedi, come quella Federica Cossu che insegna yoga e non sviene anche se forse è anemica anche lei perché è sarda. Quindi, cominciamo.
Serve ordine. Inizio io, giusto perché ero già qui, e quindi tanto vale. Direi di partire dalla scelta dei personaggi. Senza personaggi non si può far quasi nulla. La mamma a questo punto la metterei, glielo abbiamo promesso. Il mio psicologo non so, in fondo voi non lo conoscete e questo potrebbe creare confusione. Però possiamo anche fare che ognuno pensa al proprio. Di metterli tutti non se ne parla, inizierebbero a litigare su quale scuola psicoanalitica sia la migliore: freudiana, junghiana, lacaniana e non ce la caveremmo più. Il mio è junghiano, per inciso. Anche se, l’ultima volta, mi ha detto che simpatizza anche per Freud, o almeno così ha detto dopo la mia ennesima battuta sarcastica e fuori luogo fatta per evitare di aprirmi sul tema del padre morto (e sepolto, anche se io non c’ero). A proposito, già che siamo in argomento: niente padri, o se proprio volete, scrivetene voi. Io non me ne intendo, non sarei credibile, non avrebbe senso. Poi, chi altro? Le Federiche Cossi (al plurale sembriamo più milanesi, in effetti) evitiamo di metterle, già una è co-autrice, si rischia il conflitto di interessi. Poi direi che se c’è la mamma e se c’è uno psicologo che forse è il mio psicologo non può mancare un protagonista che dica “mamma” a questa mamma e “il mio psicologo” parlando del mio psicologo. Su questo lascio fare a voi, tanto non c’è niente di più irrilevante del protagonista, in una storia postmoderna e poli-autoriale che si rispetti.
Poi. Locazioni. Situazioni. Locazioni e situazioni. Potremmo estrarre a sorte, come con l’I Ching. Ognuno scrive un luogo e poi si pesca. Se no sapete che vi dico? Ce lo inventiamo, il luogo. Qualche accenno qua e là, ogni volta che è il tuo turno aggiungi una stradina, una svolta, uno scorcio, ed è fatta. Questa la segno come risolta, va bene? Dove ho messo la penna? Vabbè. Lo scrivo qui: luogo, fatto. Stile. Lo stile è importante, lo stile non è acqua, ah quella era la classe, è la classe che non è acqua, è la classe che è qualcos’altro, qualsiasi altra cosa ma-di-certo-non-acqua. Forse sempre qualcosa da bere. Voi cosa bevete? Io cocktail con base Campari. Non lo Spritz, eh. Io bevo sul serio, non è che beva per hobby, sono una professionista del bere, con partita iva e tutto il resto. A maggio scorso, dichiarazione dei redditi: trecentosettantotto negroni sbagliati. Ve lo dicevo, che sono milanese. Be’, comunque anche lo stile non è acqua, quindi evitiamo frasi fatte, peggio ancora se sbagliate. Mi fanno proprio accapponare la pelle. È tutto. Auguri e figli maschi. Sperando che non scrivano mai di noi. E non ridete, la mia mamma non ha fatto gli gnocchi. Non le piacciono.
di Federica Cossu
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