Composizione e dissoluzione dell’Arbeiterklasse

La classe non è acqua

Eminenti politici e sociologi si sono interrogati nell’ultimo secolo e mezzo sulla composizione delle classi sociali. Ma le classi, come d’altronde tutta la realtà, sono processuali e vanno incontro tanto a processi di composizione quanto a processi di dissoluzione. In che senso?

«Proletari di tutti i Paesi unitevi». È con questo famosissimo motto che Marx ed Engels conclusero nel 1848 il Manifesto del partito comunista.

Il proletariato, la classe operaia, come vuole una cattiva traduzione di Arbeiterklasse (più correttamente sarebbe classe lavoratrice, che è ben più ampia delle sole “tute blu”), avrebbe dovuto lottare ovunque per abbattere il vecchio mondo e costruirne uno nuovo. Almeno questo negli auspici dei due pensatori.

Fiumi di inchiostro sono stati letteralmente versati per commentare questa frase. Tra chi ha sostituito il richiamo all’internazionalismo con la costruzione del socialismo in un Paese solo, chi ha negato la possibilità da parte dei proletari di superare gli angusti limiti dei loro confini (nazionali o di categoria), chi ha ritenuto poco auspicabile che questo avvenisse, chi ha decretato la morte del proletariato, chi ha scoperto che non esistono solo “i lavoratori” e tanti altri che sarebbe lungo andare avanti con l’elenco, la diatriba si è prolungata per un secolo e mezzo.

Oggi la storia sembra averci consegnato una risposta. Il movimento dei lavoratori che il Novecento ha conosciuto è stato sconfitto, in Italia ormai qualche decennio fa, e le organizzazioni che hanno come riferimento il proletariato sono ridotte alla marginalità più assoluta, anche perché nella mente dei più comunismo fa rima con gulag.

Eppure…

Eppure il capitalismo non sembra proprio lasciarsi ingabbiare nella “fine della storia” preannunciata ormai trent’anni fa da Fukuyama. Ogni anno Oxfam, che non è propriamente un’organizzazione marxista rivoluzionaria, segnala che le disuguaglianze aumentano inesorabilmente, anche a causa di una crisi nella quale il modo di produzione capitalistico si contorce dalla fine dei Gloriosi Trenta. Le conseguenze per la vita di fette sempre più ampie di popolazione sono terribili: miseria endemica, guerre per accaparrarsi le risorse, epidemie sconvolgenti…

Marx, insomma, non vuol proprio morire. E il marxismo nemmeno. Anzi, nonostante come detto prima i partiti sedicenti marxisti versino in una situazione politica comatosa quasi ovunque, la parola d’ordine del socialismo conosce un inaspettato successo anche laddove era impensabile fino a qualche anno fa, come gli Stati Uniti d’America.

«Proletari di tutti i paesi unitevi». Di fronte a una crisi globale, la parola d’ordine risulta più attuale che mai. Ma chi sono i proletari? Dare una risposta non è semplice.

Accennavamo alla cattiva traduzione di Arbeiterklasse. Tradizionalmente il proletario è stato identificato sic et simpliciter con il lavoratore e il lavoratore con l’operaio. Il fatto che la grande fabbrica moderna abbia strappato milioni di persone alle campagne, attirandole con la promessa di un salario sicuro, ma al tempo stesso concentrandole in uno stesso luogo, obbligandole a vivere nelle stesse condizioni, ha creato l’illusione che gli operai fossero la punta di diamante della rivoluzione sociale che covava sotto le ceneri.

In effetti le lotte tra Ottocento e inizio Novecento sembravano giustificare quest’approccio semplicista. Erano o non erano gli operai delle manifatture parigine a essere insorti e aver dato il sangue per il primo Stato proletario che la storia abbia conosciuto, la Comune del 1871? Erano o non erano gli operai delle officine Putilov ad aver guidato l’insurrezione bolscevica del 1917? Sì! Quindi erano lì che si trovavano i soldati del futuro esercito del socialismo.

Futuro esercito però. Preda dell’ideologia dominante, anche se accomunata da condizioni di vita omogenee, questa massa di uomini non era ancora cosciente dei propri interessi, del fatto cioè che dovevano costruire il socialismo. Erano cioè classe in sé ma non classe per sé.

La dizione, schiettamente hegeliana, è presa da Marx, dalla Miseria della filosofia, testo del 1847. Marx all’epoca aveva 29 anni e in questo pamphlet attacca frontalmente le posizioni di Proudhon, il teorico socialista più famoso e seguito del periodo. Nel corso del testo Marx introduce la distinzione citata. Il passo in realtà è un po’ diverso e suona così:

Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa [nell’originale francese: «une classe vis-à-vis du capital, mais pas encore pour elle-même»]. Nella lotta, della quale abbiamo segnalato solo alcune fasi, questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa [nell’originale francese: «Dans la lutte […] elle se constitue en classe pour elle-même»]. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica[1].

Come si può notare anche a una lettura disattenta Marx non parla di «classe in sé». La dizione non compare mai. Compare «classe nei confronti del capitale», cioè classe per un altro. Non è la stessa cosa che dire “classe in sé”.

“Classe in sé” significa che la classe ha una realtà indipendente. Che, riprendendo la traduzione che Nicolao Merker fa della prima tesi su Feuerbach, esiste «sotto la forma dell’obietto [Objekt[2] e non dell’«oggetto [Gegenstand]». Ossia non come «ciò che sta di fronte», come un altro-da-un-soggetto (Gegen = contro, stand = stante), ma come una cosa che ha una sua esistenza autonoma.

Se invece si dice che il proletariato è «classe nei confronti del capitale» si sta dicendo che, a questo punto della ricostruzione fenomenologica, il proletariato ancora non si sa come soggetto, cioè non è in grado di auto-porsi, ma viene posto come classe da un’altra classe, dal capitale, che la costituisce come suo altro, come suo polo negativo.

Secondo punto degno di nota. «Nella lotta […] questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa». Finché il proletariato era solo posto dal capitale, esso era una semplice massa. Iniziando a lottare, questa massa, che ancora non è proletariato, inizia a riunirsi e riunendosi può auto-riconoscersi, sapersi come soggetto. Non è più solo Gegenstand, cioè classe-per-un-altro: fenomenologicamente diviene autocoscienza, classe-per-sé.

Terzo. Questo processo è un processo politico. Non economico. Non filosofico. Politico. Riguarda il modo in cui questa massa (ormai divenuta o in via di divenire classe) si organizza, che strutture si dà: sindacati? partiti? associazioni? club? Riguarda i fini che dà alle sue organizzazioni di classe: lottare per un miglior salario? per una diminuzione dell’orario di lavoro? per attività ricreative di dopolavoro? per costruire il socialismo? Si capisce che non tutte queste organizzazioni e non tutte queste rivendicazioni sono uguali, presuppongono lo stesso livello di coscienza, lo stesso livello della lotta.

Ma se una classe si costituisce lottando allora la classe non esiste oggettivamente prima di esistere soggettivamente e, al tempo stesso, non esiste soggettivamente prima di esistere oggettivamente. Ossia non c’è un prima e un dopo: c’è un processo e questo processo si chiama storia della società, storia che è attraversata, anzi, si costruisce nella lotta: Die Geschichte aller bisherigen Gesellschaft ist die Geschichte von Klassenkämpfen, «La storia di ogni società, sia antecedente che attuale, è la storia di lotte tra classi»[3].

Ora, poiché la costituzione di sé come classe è un processo, esso non conosce mai fine. (O meglio: conoscerà fine se e quando riusciremo a costruire una società senza classi. Fintanto però che questo non avviene, il processo di soggettivazione è sempre in atto). In altre parole è sempre possibile che i traguardi raggiunti vengano persi, che si conosca un arretramento, una frammentazione, una dissoluzione (ecco il tema del nostro numero!) dell’unità di classe, della coscienza costruita nel periodo di lotte.

Anzi, le classi dominanti, se vogliono mantenersi tali, devono produrre un costante processo di dissoluzione, di frammentazione.

Una classe è dominante in due modi, è cioè “dirigente” e “dominante”. È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere “dirigente” (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche “dirigente”[4].

Così scriveva Gramsci dando una definizione sintetica ma pregnante del concetto di egemonia. Dirigente e dominante, una classe egemone è una classe capace di aggregare e risolvere all’interno del proprio programma politico-sociale le contraddizioni e le esigenze dei gruppi/classi alleate e avversarie (di trascendere il livello meramente economico-corporativo e porsi su un terreno etico-politico, di costruzione di grandi sistemi sociali, di nuove civiltà) e al tempo stesso di dissolvere i punti in cui può saldarsi un programma alternativo. E così facendo di impedire ad altre classi di sostituirsi alla direzione della società.

È ciò che per esempio ha fatto la borghesia francese nel 1871, quando ha impedito agli operai parigini di agglutinare attorno a sé la grande massa di contadini proprietari e il Lumpenproletariat[5], «classe non classe […] poiché i suoi membri non sono in grado di produrre un’alleanza che superi i confini locali»[6], ossia non sono in grado di proporre un progetto egemonico, che cioè rompa i limiti delle rivendicazioni economiche-corporative e costituisca una originale soluzione alle contraddizioni esistenti (quindi una nuova società). È quel che il proletariato sta subendo negli ultimi trent’anni, proprio a causa della sconfitta che citavamo in incipit.

Da questa consapevolezza si deve ripartire. Sapendo che nulla è dato, che non c’è nessuna rassicurante certezza nei destini luminosi dell’umanità e nemmeno nelle bontà taumaturgiche di una classe portatrice, in sé, di virtù rivoluzionarie. Bisogna costruirle queste virtù, bisogna creare le condizioni per un cambiamento radicale, per un superamento di «tutta la vecchia merda»[7]. Perché l’unica alternativa a una società totalmente differente, oggi come cento anni fa, è la barbarie.

Note

[1] K. Marx, Misère de la philosophie, trad. nostra.

[2] F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, trad. di M. Rossi, Editori Riuniti, Roma 1985, p. 81.

[3] K. Marx, F. Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, trad. nostra.

[4] A. Gramsci, Quaderni del carcere [1929-1935], a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 2014, Q1, §44, p. 41.

[5] Anche se storicamente è stato tradotto come “sotto-proletariato”, in realtà Lumpenproletariat vuol dire alla lettera “proletariato straccione”; ad sensum si potrebbe tradurre con “proletariato disgregato”.

[6] AA.VV., Marx: la produzione del soggetto, L. Basso, M. Basso, F. Raimondi, S. Visentin (a cura di), Derive&Approdi, Roma 2018, p. 37.

[7] K. Marx, F. Engels, Ideologia tedesca, trad. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 25.

di Simone Coletto

Leggi tutti i nostri articoli di politica

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.