Come in terra, così in cielo

Quando l’uomo dovette portare verso la creatività del cielo la ricettività della terra

cielo

La maggioranza delle mitologie ipotizza che la nostra specie sia nata lungo un livello di realtà mediano, una soffusa demarcazione tra i regni ricchi e tenebrosi del sottosuolo e quelli traslucidi e impalpabili dei cieli. Non tutte riportano questa credenza con la chiarezza delle saghe norrene[1], ma è costante l’allusione a un sotto e a un sopra che in egual misura risultano proibiti agli umani, perlomeno a quelli comuni e vivi. L’humana fragilitas è un fatto autoevidente persino nel nostro mondo medicalmente e produttivamente avanzato, anzi forse lo è ancora di più, visto che nel cielo e nel sottosuolo, entro certi limiti, siamo in grado di andarci e di sperimentarne l’ostilità. I nostri antenati intuivano quanto sottile fosse l’equilibrio in cui si realizza la nostra esistenza e lo descrivevano come un’area di contatto e fertile mescolanza tra princìpi contrapposti. Le definizioni raccolte nell’I Ching, confluite nelle elaborazioni di confuciani e taoisti, vedono nel mondo superno la sede di un potere eideico e creativo, il quale si proietta verso l’antitetico omologo sotterraneo per imprimervi le proprie forme e strutture. La differenza tra questa visione e quella platonica, consiste nel fatto che la ricettività della materia non viene considerata una mera passività. Platone[2] considerava la χώρα – o chora – talmente indolente da essere oppositiva all’opera divina del Demiurgo che vi imprime ordine e bellezza, assumendo le forme ideali solo in modo caduco e approssimativo. Per gli intellettuali dell’estremo Oriente, invece, la ricettività ctonia costituisce una virtù fondativa dell’economia metafisica tanto a livello macrocosmico, quanto a quello microcosmico. Il bisogno che ne abbiamo ci offre l’occasione per individuare soluzioni innovative, al fine di prosperare in territori estremi, unendone le risorse particolari, come la difendibilità, a quelle risorse rese più generali proprio dalla loro intrinseca, perentoria necessità.

cielo terrazzamenti

La principale risorsa concreta di cui la gente necessiti è il cibo, eppure tra i più noti terrapieni antichi sfruttati per isolare uno spazio dall’ambiente circostante, così da selezionarvi e gestirvi una vegetazione antropizzata, svetta un esempio illustre che non riguarda il fabbisogno alimentare, ma quello estetico e celebrativo: i giardini pensili di Babilonia. Le informazioni su di essi sono oscure, perché Erodoto e le altre fonti ellenistiche ne offrono una descrizione coerente, ma non forniscono indicazioni precise circa la loro localizzazione. Lo storco babilonese Berosso[3]ne attribuisce la costruzione a Nabucodonosor II (re dal 605 al 562 a.C), ma egli fu un contemporaneo di Alessandro Magno e nel IV secolo a.C. non rimaneva nulla dei giardini, né è stato finora individuato alcun testo assirobabilonese coevo che ne confermi l’esistenza. Archi come quello della Porta di Ištar avrebbero potuto supportare uno spazio del genere, ma tra i resti della città non è stata individuata nessuna grande struttura volta a sostenere un terreno irrigato. Stephanie M. Dalley[4], orientalista di Oxford, ha ipotizzato che la loro reale localizzazione fosse più probabilmente Ninive, laddove Sennacherib (re dal 705 al 681 a.C.) fece realizzare dei grandi giardini terrazzati nei pressi di quello che lui stesso chiamava «il palazzo senza eguali»[5], documentati dalla struttura in sé, nonché da rilievi e incisioni rinvenute in situ che spiegano anche come ciò fosse stato fatto canalizzando l’acqua del fiume Khors. Del resto, il passaggio di potere tra le due città non fu recepito con chiarezza dagli autori occidentali ed entrambi questi sovrani sono noti per le loro guerre contro i regni ebraici, avendo il primo distrutto il tempio di Salomone e inaugurato la cattività babilonese e il secondo condotto una campagna di conquista in Palestina, saccheggiato Askalon e assediato Gerusalemme, senza però riuscire a espugnarla. Se la creazione di giardini pensili era fondamentalmente un lusso, vi sono territori che impongono a chi voglia o debba viverci lo sviluppo di tecniche adatte a coltivare piante in uno spazio naturalmente inidoneo.

L’arcipelago verticale dell’agricoltura andina precolombiana, come fu battezzato dall’antropologo John Victor Murra, offre un esempio estremo delle abilità adattive umane. La costellazione di popoli che faceva parte dell’Impero incaico[6] era distribuita su un territorio che intervallava le montagne ripide alle strette valli percorse da fiumi, i deserti costieri ai puna e ai margini della foresta pluviale. Nelle diverse ecoregioni non era possibile organizzare un medesimo modello agricolo, pertanto l’amministrazione statale del Sapa Inca ideò un complesso sistema stradale, il Qhapaq Ñan, dotato di gallerie, ponti a corda abbastanza resistenti da consentire il passaggio a uomini corazzati montati a cavallo, come scoprirono gli spagnoli, zattere, cesti sospesi, oltre un migliaio di tambo, stazioni di posta che fungevano anche da centri burocratici e militari, nonché molteplici complessi dedicati all’immagazzinamento e al trasporto delle derrate mediante carovane di lama. Le strade sono un elemento basilare della messa a sistema di un territorio e l’Impero incaico ha dimostrato la loro efficacia anche in un ambiente particolarmente complesso. 40.000 chilometri di percorsi rendevano accessibili oltre tre milioni di chilometri quadrati di spazio, risalendo le montagne fino a cinque chilometri di quota. Questo strumento non consentiva soltanto un rapido sistema di dispaccio interno, ma anche la possibilità di redistribuire i tipi di risorse ottenibili in abbondanza presso una certa categoria di luoghi tra quelli che ne sarebbero altrimenti stati sprovvisti. Anche così lo spazio restava poco e non bastava ottimizzarlo: bisognava crearlo. A questo scopo, gli antichi peruviani ricorsero a un uso estremamente estensivo dei terrazzamenti, simile a quello oggi osservabile lungo la Costiera amalfitana, accompagnandolo con la creazione di acquedotti, canali e fontanili. È il loro stesso nome indigeno, anden, a designare l’odierno toponimo delle montagne in cui sono stati edificati. Lungo queste sequenze di terrapieni sorgevano spesso insediamenti a mezza altezza, talvolta fortificati come i castellieri degli antichi liguri. I siti di Moray, Ingapirca, Tipón e ovviamente la formidabile cittadella di Machu Picchu rendono conto di quanto spazio utilizzabile questo sistema garantisse ai popoli dell’Impero. Nei sopraccitati puna, le gelide praterie degli altipiani comuni in tutta l’area centrale della cordigliera andina, la terra abbondava, ma non era affatto ricettiva. Tra gelate e alluvioni, vi si riusciva soltanto a praticare la pastorizia dei camelidi. Tuttavia, nell’area boliviana fu introdotta e largamente praticata un’agricoltura a piano rialzato, detta waru waru o camellon, soprattutto nei pressi del Titicaca, il più elevato lago navigabile del mondo. Con dei riquadri di terreno sollevato, il rapido e uniforme drenaggio delle inondazioni rendeva fertile un suolo altrimenti pressoché inabitabile. Oltre a essi, venivano creati i cocha, lagune artificiali che conservavano una quantità di acqua piovana sempre attingibile, soprattutto per abbeverare il bestiame. Queste soluzioni ricordano la tecnica della chinàmpa[7] con cui gli aztechi avevano snudato al cielo la terra dai fondali del Texcoco. Queste isole artificiali lunghe e strette venivano create puntellando il fondo del basso e paludoso lago con dei paletti, creando dei rettangoli arabili ed edificabili. La tecnica è tuttora in uso presso l’area di Xōchimīlco.

Tipon

Al netto della particolare solidità dimostrata dal potere centrale di Cuzco, ci si potrebbe allora chiedere perché una realtà caratterizzata da simili sfide territoriali, come l’antico Impero tibetano[8] (618-842 d.C.), non abbia edificato un sistema produttivo e distributivo altrettanto efficiente. I tipici monasteri fortificati himalayani, i gompa[9], sono spesso vertiginosamente arroccati quanto i templi ortodossi della Meteora, ma a ben altra altitudine[10]. Alcuni templi del Himachal Pradesh, per esempio, raggiungono quote mozzafiato, come il Dhankar (3.894 metri), il Kye (4.166) e il Tangyud (4.520). Il Rongbuk, invece, si trova direttamente lungo le pendici dell’Everest, a oltre cinque chilometri di altezza. Questi centri politici, militari e religiosi furono solo momentaneamente soggetti alla preminenza della dinastia Yarlung, il fautore delle cui fortune, Songtsen Gampo, fu colui che importò e diffuse dall’India sia il buddhismo, al quale si convertì nel 617 d.C., sia, grazie al suo saggio ministro Thonmi Sambhota, l’uso della scrittura. Nei centri di studio del suo regno nacque quella particolare forma di buddhismo tantrico che è il lamaismo, i cui sacerdoti erano allora i principali sostenitori della corte imperiale. Il Tibet unito ebbe inizialmente un’espansione formidabile, arrivando a conquistare prima l’area di Xian, poi quella di Samarcanda, impadronendosi della via della seta e di una porzione considerevole dell’Asia centrale, facendo di Lhasa una capitale ricca e monumentale che costrinse la Cina a firmare un trattato di pace nel 822, sotto il regno di Ralpacan. Poco dopo, tuttavia, i sostenitori dello sciamanesimo bön, il precedente culto tradizionale himalayano, scatenarono una guerra religiosa nel cuore dell’Impero, iniziata proprio con l’uccisione del re da parte del fratello tradizionalista Langdarma. Le persecuzioni operate da quest’ultimo ai danni dei buddhisti mandarono in frantumi l’Impero e la guerra civile che ne seguì impedì a Lhasa di recuperare una vera preminenza sulle altre città tibetane fino al XV secolo, quando la scuola lamaista di Gelugpa seppe accumulare abbastanza prestigio da imporre il dominio teocratico del Dalai Lama. A impedire lo sviluppo di una rete infrastrutturale simile a quella andina, contribuirono da un lato queste divisioni, dall’altro un feudalesimo inefficiente che rimase inalterato dall’epoca imperiale fino alla conquista cinese del 1950, un sistema che vedeva il ristretto ceto clericale esercitare contemporaneamente un potere spirituale e temporale su una vasta servitù della gleba.

Quanto detto potrebbe offrire una spiegazione di questa diversità nell’amministrazione del territorio, se solo rendesse conto della mirabile finezza architettonica che riluce nei magnifici palazzi bianchi e rossi, i gioielli che adornano le vette più inaccessibili del mondo. In verità i tibetani non avevano bisogno di creare vasti terrazzamenti monumentali, perché le loro valli non erano paludose e i loro altipiani non erano desertici. L’orzo resiste al freddo meglio del mais e della quinoa e tutt’oggi viene coltivato in avvallamenti che toccano i 4.500 metri di altezza. Inoltre la loro pastorizia era resa fiorente dalla presenza di fertili praterie e boschi, più fruibili di quelli disponibili in Perù. Ogni popolo offre alla creatività celeste il tipo di ricettività terrena che gli occorre per conquistare tanto la luminosa energia dell’uno, quanto la profonda ricchezza dell’altra. Se tibetani e popoli incaici possono essere entrambi ascritti alla categoria degli sconfitti della storia schiettamente geopolitica, le loro opere e la loro genialità riverberano nelle nostre stesse geometrie immaginative, facendoci da cielo e da terra.

Note
[1] Nella quale il nostro mondo è chiamato Miðgarðr, ovverosia il “recinto nel mezzo”, termine che marca il nucleo assiale del Nonimundio, sia verticalmente, sia orizzontalmente. Non è, infatti, il nome dell’intero piano, che si chiama Mannheimr, ma solo la sua regione centrale. Questa centralità non comporta, però, una presenza più intensa del fusto o dei rami di Yggdrasill, perché l’albero cosmico non ha limiti spaziotemporali e si trova ovunque, vivificando ogni angolo della realtà con la medesima intensità.
[2] Cfr. Platone, Timeo.
[3] La sua Storia di Babilonia è andata complessivamente perduta, ma Abideno e Alessandro Cornelio Poliistore ne hanno trasmesso delle porzioni significative alla posterità.
[4] Cfr. Stephanie Dalley, The Mystery of the Hanging Garden of Babylon, Oxford University Press, 2013.
[5] Cfr. Josette Elayi, Sennacherib, King of Assyria, SBL Press, 2018.
[6] Per un’ampia indagine su questa civiltà, consiglio La conquista del Perù di William H. Prescott (Einaudi, 1970), La fine degli Incas di John Hemming (Rizzoli, 1975), L’impero degli Incas di Victor W. von Hagen (Newton Compton, 1977) e i Commentari reali degli Incas di Inca Garcilaso de la Vega (Rusconi, 1977).
[7] Dal nahuatl chināmitl, ovverossia “quadrato fatto di canne.”
[8] Cfr. Laurent Deshayes, Storia del Tibet, Newton Compton, 1998.
[9] Il termine tibetano dgon pa significa letteralmente “luogo distante”, ma ha assunto un senso marcatamente cultuale come i concetti sanscriti di āśrama (romitaggio) e āraṇya (foresta).
[10] Il monastero della Trasfigurazione del Signore è il più elevato tra essi e si trova a 534 metri sul livello del mare. Anche quelli ubicati sul monte Athos si trovano più in basso, raggiungendo lo stesso poco più di duemila metri di altitudine.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.