Una poesia radicale

Intervista con Iuri Lombardi

Secondo te esiste oggi in poesia una critica valida? E se esiste chi la fa?

Innanzitutto, non farei una distinzione tra critica poetica e narrativa; parlerei piuttosto di critica letteraria, perché essa contempla anche la drammaturgia.
La critica letteraria storica si divideva in dieci nomi e in due categorie: da una parte gli accademici, studiosi di letteratura, spesso docenti, che hanno lasciato l’impronta nella critica più tradizionale; poi c’era quella che amo particolarmente, la critica militante, tra cui ricordo Pampaloni, Beniamino Placido e così via, tutti critici che scrivevano sulla terza pagina dei quotidiani.
Al critico non è necessario solo un occhio letterario, ma anche un occhio clinico, ossia delle nozioni non solo di cultura letteraria, ma anche filologica. Purtroppo, la critica letteraria oggi è pressoché scomparsa. Quella che è rimasta è una critica mediatica perché sviluppa il suo lavoro prevalentemente sui social network. Il critico è diventato meno clinico. Nonostante ciò, in questo marasma di critica mediatica, ci sono comunque critici molto validi che continuano ad emergere.

Hai usato un termine molto interessante, l’occhio clinico. È un modo di vedere molto interessante: mi fa pensare al tuo ultimo romanzo, che ha un aggancio col mondo della clinica e in particolare della psichiatria. Rimanendo però sull’occhio clinico nella critica e in generale nel mondo della letteratura, io ho sempre pensato alla poesia come a una forma di cura della realtà. Esiste una cura della realtà per la letteratura?

La cura della realtà credo si sia mantenuta, ma solo in settori di nicchia. La troviamo nella poesia, perché i poeti contemporanei (penso alla generazione nata negli anni Ottanta-Novanta) sono molto effervescenti, soprattutto per quanto concerne la loro produzione poetica. La poesia contemporanea ha quest’occhio clinico: diagnostica il proprio tempo rivoluzionando il linguaggio. Il poeta di oggi non usa più il linguaggio lirico di manzoniana o pascoliana memoria; usa un linguaggio crudo, diretto, un linguaggio dell’esegesi della realtà.
In altri settori questo aspetto non è presente. Se prendiamo la narrativa e nello specifico il romanzo, che dovrebbe essere il punto d’approdo di qualsiasi spettatore linguistico, o comunque una via d’accesso alla realtà che ci circonda, che sia tramite la fantasia o il realismo, è diventato nel tempo un puro prodotto editoriale, perdendo così l’occhio clinico che lo caratterizzava.

Tu hai un occhio complessivo sulla realtà letteraria: sei passato dal romanzo, alla drammaturgia, fino alla poesia. Mi viene da chiederti, domanda che faccio sempre, quando hai deciso di andare a capo e quando di non farlo?

Come diceva Aldo Palazzeschi “Il poeta si deve divertire”, per cui lasciatecelo fare, dico io. Il letterato in generale gioca col linguaggio e in base alla lettura che vuole dare della realtà, lo cambia. Dipende da come voglio osservare e mostrare quello che ho davanti, è così che decido se scrivere o meno in versi. Ogni lettura però è esclusiva in sé, dato che rappresenta un evento, un fenomeno. Una cosa è certa: non vorrei cadere in un concetto crociano, idealista, ma posso dire che la letteratura è un evento, sempre. È un evento lei stessa, che si esprima in romanzo, in poesia, in drammaturgia. Faccio un esempio molto banale: per molti anni in Italia abbiamo assistito a tanti dibattiti assurdi, che non hanno logica, del tipo “ma la canzone è da ritenersi poesia?”. La letteratura, che sia romanzo, racconto, poesia, l’universo letterario in generale insomma, è il presente. La canzone non può ritenersi poesia, tranne le dovute eccezioni, come De André, che ha prodotto alta letteratura, poiché la canzone segue un evento, non è l’evento stesso: il testo della canzone segue banalmente perché è legato alla musica.

Mi piace molto l’idea dell’evento. C’è molto nella vulgata l’ispirazione metaromantica, dato che poco c’entra col Romanticismo. È come se ci fossero due visioni: da una parte quella del poeta ispirato, dall’altra quella più critica, più profonda forse, del poeta che coglie l’evento. Io ho avuto come docente di Italiano Giancarlo Pontiggia al liceo e lui mi disse che il poeta è per certi versi dettato dalla poesia. Citava questa frase di Dante Alighieri ne La vita nova come sintesi di questo concetto: “Amor mi detta”. Che ne pensi?

È possibile che ci sia una passività nello scrivere, la vedo soprattutto in chi vuole fermare l’evento, ma non in chi vuole creare l’evento. Io non credo che la letteratura sia un atto passivo, in realtà. Credo che sia un fatto di vigilanza, accortezza, un fatto quasi indomito che poco ha a che fare con la passività. Chi subisce il fascino e il peso dell’atto artistico è piuttosto il critico, perché lui non fa l’evento, segue sempre all’evento, perché costretto a leggere l’evento. Premesso che la realtà non è mai univoca, ma si presenta a più livelli, cosa che diceva già Platone, quando il critico legge l’evento lo subisce. Chi scrive, al contrario, è il creatore di quella realtà, è la parte attiva.

Ho potuto vedere che hai iniziato con un romanzo, Briganti e saltimbanchi (SiriS, 2006), scritto con Vincenzo Labanca. Com’è stato il tuo inizio? Come hai pubblicato?

Devo premettere che l’esordio è un esordio bugiardo: io nasco poeta, poi finisco a scrivere narrativa. I miei testi giovanili sono facilmente rintracciabili su Inverso di Tarantino, risalenti a prima del mio esordio. Come tutti i giovani mi esprimevo spesso andando a capo e collaboravo con le riviste letterarie di Firenze, la mia città. Su queste riviste pubblicavo le mie poesie, se così si potevano definire. Lo dico perché la poesia non è un semplice andare a capo: risponde a dei canoni necessari, che talvolta quando si è molto giovani non si rispettano. Comunque, a un certo punto mi dissi che forse potevo avventurarmi nella narrativa. Fu così che incontrai un compagno di percorso, Vincenzo Labanca. Fu così che avvenne il mio esordio letterario.
Pubblicai bene, oserei dire, perché non ho dovuto pagare nulla. Oggi non tutti possono dire di non aver mai pubblicato senza dare un contributo alla casa editrice. Che poi la maggior delle pubblicazioni di questo tipo rimangono negli scaffali degli scantinati… Io ho avuto l’occasione e la fortuna di avere voci amiche accanto che mi hanno consentito di avere un esordio da non esordiente.

Nel tuo ultimo romanzo, I banditori della nebbia (LFA Publisher), non ha una visione molto positiva della psichiatria. Come nasce questo romanzo? E come mai questa visione particolare della psichiatria?

Il romanzo nasce per caso, come tutte le cose che scrivo. Del resto, non sono io che cerco le storie ma sono loro che mi vengono a cercare. Apro a questo proposito una piccola parentesi, perdonami ma non ho il tempo di essere sintetico. Io ho avuto la fortuna di nascere e di crescere a Firenze, una città, in verità un piccolo microcosmo, visto che è molto piccola come città, ma da sempre multietnica. Crescendo nella realtà fiorentina, facendo l’università qui, frequentandola per lavoro e lungo le notti in bianco quando ero ragazzo, ho avuto occasione di conoscere personaggi su personaggi, dal cantautore arrivato a Firenze a presentare le sue canzoni, fino al personaggio borderline, il clochard, l’alcolista. Firenze era una selva di una fauna frastagliata. Tutti questi personaggi, che fanno parte della mia formazione, e che costituiscono delle storie di ordinaria follia, hanno fatto sì che poi io in età adulta diventassi anche un romanziere.
Quindi Banditori della nebbia nasce per caso. È nato perché io da sempre mi occupo di due attività: quella letteraria e quella editoriale, in qualità di pubblicitario. Ho lavorato per i quotidiani, per i mezzi di informazione, per le televisioni. Attualmente sono conduttore televisivo per un’emittente locale di Firenze. Da qui mi è venuta in mente la storia di un’emittente televisiva. I protagonisti del romanzo sono infatti i miei colleghi nella realtà, sono una summa dei miei incontri, ovviamente nel gioco della fantasia.
Il discorso della psichiatria è diverso: gli ultimi miei romanzi che sono usciti, tra cui Mezzogiorno di luna (96 rue-de-La-Fontaine Edizioni, 2016), sono romanzi di fanta-politica. Romanzi in bilico fra romanzo civile e politico. Ora, Banditori della nebbia è un romanzo politico, quindi non è propriamente civile. La psichiatria è un altro capitolo. Per le mie idee di uomo, non tanto di letterato, sono legato alle idee dei Radicali. Per questo discorso ideologico mi sono accostato a tutte quelle discipline di Stato che hanno a che fare con le limitazioni della libertà dell’uomo. Quindi mi sono interessato alla psichiatria, conscio dei cambiamenti messi in atto grazie a Basaglia e alla psichiatria democratica.
Essendo io un liberale, o meglio, libertario, per me la psichiatria, come qualsiasi forma di disciplina atta a limitare la libertà dell’uomo, è stata al centro del mio interesse. Ora, grazie a Basaglia, come ho già accennato, la psichiatra è stata superata, non perché non esiste più, ma perché è fuoriuscita da sé stessa, è diventata qualcosa di più ampio e democratico. Non è più quella ghettizzante del manicomio.
A questo proposito, credo che arriveremo a una forma di sistema penale più democratico. Leggendo Foucault, che mi ha fatto compagnia in molte notti insonni, ho maturato l’idea per cui come abbiamo superato la psichiatria contenitiva, supereremo anche il carcere, per creare una forma più democratica di pena.

Già avevo intuito che fosse un romanzo politico dalla dedica a Marco Pannella…

Esatto, è una dichiarazione politica ben esplicita.

Adesso, siccome sei un letterato a 360 gradi, hai una visione molto preziosa: toccando tutti questi ambiti hai una capacità particolare di leggere e osservare la realtà da molti punti di vista. Per questo voglio farti una domanda molto pratica. Molti mi hanno scritto e chiesto come pubblicare. Quello che volevo chiederti è come vedi l’editoria oggi nell’ambito della poesia e qual è la grossa differenza nella prosa. È una cosa che non ho mai afferrato appieno.

Va premesso che la poesia è di nicchia, per cui l’editoria poetica presuppone il rivolgersi ad un gruppo di lettori elitari. Si riscontra quello che dico facendo un banalissimo test: prova ad andare per strada a domandare a dieci persone chi è stato Roberto Roversi, un poeta, e chiedere poi chi è stato Alberto Bevilacqua, un romanziere. Sappiamo bene che la maggior parte degli intervistati supposti direbbero di conoscere Bevilacqua e non Roversi. Questo vale per i principali poeti contemporanei. Ciò avviene perché la poesia di per sé è elitaria.
Per quanto concerne l’editoria, la buona editoria si poggia su tre elementi: salvaguardare l’opera letteraria e, di conseguenza, lo scrittore (che, ci tengo a precisarlo, sarebbe il loro datore di lavoro e non viceversa), facendo girare il libro, pubblicizzandolo; secondo elemento, è avere una buona distribuzione, cosa che la maggior parte delle case editrici non ha, facendo sì che il libro non arrivi quasi mai in libreria e che quindi il potenziale lettore debba ordinarlo alla libreria o comprarlo su internet, limitando il numero di “lettori per caso”; terzo elemento, il più significativo dei tre, è l’ufficio stampa, la parte più importante di una casa editrice che si occupa, per così dire, della propaganda del libro e che fa in modo che esso abbia un pubblico più o meno vasto. È molto importante l’ufficio stampa, il saper comunicare, perché se un libro esce a Firenze è fondamentale che lo sappia anche il libraio di Aosta o di Palermo. Questi tre elementi non sono rispettati, né con i romanzi, né con la poesia. O meglio, per i romanzi avviene in parte, per la poesia non avviene quasi per nulla. A meno che non si tratti di grandi nomi che fanno grandi numeri.

È un mondo complicato, sì. Tante volte, però, di fronte all’idea per cui la poesia è di nicchia, mi sono trovato in polemica con diverse persone relativamente al fatto che, sì, la poesia è un genere difficile nell’approccio, soprattutto oggi, ma rimane un problema cui non ho trovato risposta: come mai si è disperso il pubblico laico della poesia? Ossia, perché i lettori di poesia sono pressoché tutti poeti?

Il pubblico si è slaicizzato per il semplice fatto che si è “analfabetizzato”. Ma la colpa non è del pubblico, attenzione, bensì di una certa editoria che ha portato avanti un progetto completamente sbagliato, in cui l’opinione pubblica è stata pilotata, soprattutto dal potere costituito, ossia lo Stato, che tende non tanto a limitare la libertà del cittadino, quanto a condizionarla, come ebbe a dire Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli; tutto perché gli editori volevano fare banco, motivo per cui nell’ultimo trentennio hanno pubblicato opere letterarie che garantissero solo un ritorno. Di conseguenza il lettore non si rende più conto della valenza dell’opera letteraria. Voglio farti un esempio: tra gli autori da banco, gli autori che oggi definiremmo commerciali, vi erano un tempo dei grandi nomi, dei grandi maestri di letteratura, come Bevilacqua e Giorgio Saviane, entrambi autori di punta delle rispettive case editrici; quindi il pubblico andava in libreria a comprare libri di altissima qualità. Lo stesso vale per il cinema: penso a Rossellini, De Sica, Fellini, Pasolini, Godard, Truffaut. Oggi vediamo al cinema il cinepanettone, motivo per cui si pensa che il cinema sia anche cinepanettone, cosa non vera.
Ecco, è così che il pubblico si è “analfabetizzato”, ma non per colpa sua. È colpa in primis dei mass media e poi dell’editoria.

Sono d’accordo sulla tua analisi. L’altra cosa che volevo dire è che un risultato di quello che tu dici si vede bene quando entri in una delle grandi librerie, tipo Feltrinelli e Mondadori. Per quanto la prima tenti in tutti i modi di mantenere agli occhi dell’opinione pubblica un’allure da libreria radical-chic, colta, alto borghese…

Cosa tipica anche della sinistra italiana…

Esatto. Comunque, quando entri trovi sempre le novità di narrativa, un settore narrativa sconfinato, miriadi di gialli. Se cerchi dei testi poetici, in quei mille metri quadrati di libreria, questi sono sempre relegati a qualche scaffale in un anfratto isolato. Allora lì ti dici che c’è una scelta deliberata delle librerie.

Sì, sì, ho notato anche io questa cosa. Basta andare in qualsiasi libreria per rendersene conto. Un giorno, entrando alla Feltrinelli di piazza della Repubblica a Roma, in zona Termini, avevo come la sensazione di dovermi inchinare di fronte alla loro bibbia: le novità editoriali. Solo che io mi pongo un’altra domanda quando noto questo fatto: le novità, cui ti devi inchinare appena entri in libreria a discapito di libri di valore, sono letteratura? Io direi di no. La letteratura, come ti dicevo all’inizio della nostra discussione, è l’evento. Le novità sono dei prodotti editoriali. Sia chiaro, se lo scrittore mantiene uno certo standard e gli editori glie lo fanno mantenere, tanto di cappello. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, il carrierista scrittore tira fuori progetti editoriali, non letteratura.
Come diceva Jen-Paul Sartre la letteratura è l’arte del non detto. Tante volte la letteratura è ciò che sta al margine, non quello che viene sbandierato ai quattro venti.

Esatto, la letteratura sta al confine, sta al margine. Tempo fa, al liceo, avevo letto In cammino verso il linguaggio di Heidegger, un testo bellissimo, dove fui molto colpito dal concetto per cui il poeta è una soglia. Heidegger fa quest’affermazione analizzando Trakl. Questa cosa l’ho vista molto nel tuo Il sarto di San Valentino (Ensemble, 2018). Credo ci sia bisogno di ritracciare un confine: tante volte la poesia è più capace di altri generi di tracciare una soglia, un confine.

Sì, nella poesia, più che nella letteratura di genere, alberga quel disegno dell’uomo di avanzare una dialettica tra finito e infinito. Il confine della poesia è il viaggio. Qua dovremmo scomodare Lacan che diceva che il linguaggio è ferito, è bucato, che noi non siamo esseri parlanti, ma siamo esseri parlati. Penso al teatro senza spettacolo di Carmelo Bene, ripreso dal teatro della crudeltà di Artaud.
Tornando alla tua domanda, il poeta è l’uomo del margine: sta sempre lì, ogni giorno dice che salta, ma non arriverà mai al varo il viaggio della propria nave. Il poeta è, come dire, una storia incompiuta.

Il poeta è una storia incompiuta. Bellissima frase. Forse il cardine di quello che dici è Amelia Rosselli, mi sembra. Da lettore appassionato dei suoi versi, vedo in lei questo linguaggio bucato, fondato sul non dire.

Certo, è una cosa comune non solo alla Rosselli; direi che è presente in tutta la generazione della Rosselli, quella di Alfonso Gatto per intenderci. A questo proposito, penso al volume uscito per Mondadori con una riproposta di tutti i racconti e tutte le prose di Leonardo Sinisgalli, autore del Novecento, coevo alla Rosselli, Gatto, Michele Pizzo, Riviello. Quella generazione più di altre, approdate all’ermetismo fiorentino su riviste come Campo di Marte o Frontespizio, ha confermato che il poeta è protagonista di una storia mai finita.

Sulle riviste, sembra che ce ne siano davvero poche…

È vero che mancano riviste letterarie ufficiali. Ma oggi chi le leggerebbe? Quasi nessuno, se non i letterati. Bisognerebbe vedere chi erano i lettori della Ronda, della Voce, di Frontespizio, Campo di Marte, Lacerba… Infatti, i lettori di queste riviste erano anche persone comuni, profani della materia. Oggi le riviste letterarie vengono lette solo dagli addetti ai lavori.
È morta più che altro la rivista tradizionale. Oggi ci sono in realtà molte realtà sul web, come YAWP, di cui faccio parte. La rivista letteraria di qualità è emigrata da un piano ufficiale alla rete. Insomma, le riviste esistono, solo che sotto varie forme. Fanno un lavoro tanto nobile che una rivista come YAWP non ha nulla da invidiare rispetto alle riviste ufficiali del passato.

Che cosa hai in cantiere in questo momento?

Di poesia ho in cantiere una raccolta di poesie che è già pronta. Si intitola Dizionario delle notti. È una riscrittura in frammenti del De Rerum Natura di Lucrezio in chiave moderna. Ho voluto riportare ai nostri tempi il discorso di Lucrezio, facendo così una riscrittura più che una rilettura. È una raccolta lucreziana, direi epicurea, legata molto al concetto del carpe diem.

intervista a cura di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).