La visione di Núñez

Il quaderno del topo muschiato (Taut, 2020) è l’ultima fatica di Víctor Rodríguez Núñez, poeta cubano, nato nel 1955 a La Habana. Leggendolo ho potuto notare come il suo stile fosse molto distante da come ci si potrebbe immaginare una poesia caraibica. Penso ai grandi poeti sud-americani, fra tutti Neruda, e vedo in Núñez una forte distanza da quello che potrebbe essere un modello culturale poetico.

La sua poesia è molto occidentale, nel gusto e nelle atmosfere: ha qualcosa di anglofono nello stile e nelle scelte linguistiche. Ma, soprattutto, l’ambiente, l’idea (visione) che porta avanti ricorda una periferia inglese, popolata da creature mutevoli, animali per lo più, tracciati alla stregua di esseri umani; una pianura di simboli, in cui la natura si identifica totalmente nella complessità dell’inconscio.

Per intendere quel che dico vorrei parafrasarvi una poesia, la 19, che parla di una pioggia. L’inizio della poesia – «la pioggia ara i marciapiedi/ciottoli che germogliano» – traccia un quadro ben preciso: un elemento naturale trasforma l’elemento umano e ne fa germogliare ciottoli, che paiono appunto frutti della terra. È questa una fusione piena tra natura e umano, una fusione che si intreccia e avvoltola in questa immagine che trovo potente. Poi, questi ciottoli germogliano «alzando profumi di mai», in originale suona: Elevando los aromas de nunca. La traduzione rende benissimo quest’aria: i profumi del mai, profumi che non sono, non esistono, ma al contempo esistono, si affrancano della realtà e si manifestano, trasformando quei ciottoli in fiori, non più prodotto dell’uomo, ma assoggettamento di quest’ultimo alla pioggia che si riprende la natura arando, appunto, i marciapiedi.

In seguito, compare un tu:

alla pioggia grugnisci
                  alla maniera dorica
le sventoli la coda rossa e bianca
demarchi la sua insonnia

 

Questo tu è l’animale uomo, mi pare, solo che ha forme di animale. E qui vediamo quanto sia costruita bene questa visione dell’uomo-bestia e quanto sia ben tracciata la reciprocità dei due viventi: me lo figuro come un gatto-uomo che si rivolge alla pioggia con un grugno.

In seguito, torna la pioggia, che viene anch’essa umanizzata, come se scendesse a patti col mondo: «Ha labbra screpolate/pozzanghere per l’audacia/anima non incarnata». Questi versi sono di una bellezza rara, oltre che potenti nella figurazione che ne esce: tutto si intreccia in una dimensione chiara, netta, precisa, ma allo stesso tempo sfuggente. In particolare, quell’intuizione dell’anima pozzanghera. La pozzanghera come anima della pioggia.

Qui finisce la prima stanza e nella seconda si cambia prospettiva, si traccia un quadro, come se l’autore spostasse lo sguardo da sotto la pioggia, da dentro la pioggia, e si mettesse alla finestra:

piove tutta la notte decimale
senza goccia di tormento
nell’aria fangosa
            il raggio è una larva
il ritmo asciuga quadrettato
si annulla la crescita di una volta
sabbia tra le mani
                sull’aurora renitente
manico del suo silenzio che sorride
non smetti di gracchiare.

 

Questi versi bastano per se stessi, sia per ricchezza lessicale, sia per stilemi, sia per potenza immaginifica. Non ho altre parole, se non un consiglio: leggete assolutamente questo libro.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).