Lo psicotico è normale

Abulie, aponie, apatie: quando la normalità è psicotica

Lo psicotico è normale. Questo è un aforisma di Lacan. Ne ho trovato a fatica il senso, forse ancora adesso non riesco bene a capirlo, ma lo intuisco. Eppure, ci arriveremo, basta questa frase a spiegare in tutto la psicosi. La schizofrenia, l’esempio più classico di psicosi, è uno stato di alterazione del contenuto del pensiero, associata a dispercezioni, spesso uditive, eloquio disorganizzato, comportamento grossolano, sintomi negativi; ciascuno di questi sintomi dev’essere presente per «una parte di tempo significativa durante un periodo di 1 mese» (Sadock et al. 2018).

Il tempo è fondamentale, perché il paziente schizofrenico si manifesta nella costanza dei sintomi. Sono sintomi invalidanti, spesso devastanti, che impediscono di avere una vita normale, come intuirete. Quando si parla di schizofrenia, infatti, si pensa spesso a figure tra il romantico e il romanzato: sono quei tipi inquietanti che parlano da soli, un po’ strani, con gli occhi costantemente allucinati. Ecco, nell’ambito clinico le cose non sono così caratterizzate.

Partiamo da un presupposto: sappiamo come esordisce la schizofrenia. Spesso non lo fa coi cosiddetti sintomi positivi (i deliri, per intenderci), ma con quelli negativi. All’esordio cioè, spesso in età adolescenziale o post-adolescenziale, l’individuo manifesta una progressiva tendenza all’isolamento, alla solitudine. Tende a fallire nel lavoro, nella scuola, ad avere pochi rapporti sociali, smette di esistere e di essere nel mondo. Comincia da qui una sorta di distacco emotivo, esistenziale e vitale dall’Altro.

Se guardiamo ai sintomi negativi, questi sono molto simili a quelli che riscontriamo nella depressione: abulia, anedonia, ritiro sociale. A distinguere la psicosi sono dettagli che spesso emergono poco nelle fasi prodromiche. La sospettosità, per esempio, l’interesse per l’occulto, idee bizzarre: niente di troppo particolare, in realtà. Per sintetizzare, quindi, si riscontra un iniziale ritiro sociale, evidenziato dalla frequentazione di pochi amici o nessuno, nessuno sport di squadra, hobby solitari e manifestazioni di piccole stranezze. E poi viene l’esordio clinico.

psicotico cat
Cat, Illustrazione di Louis Wain, 1930- 1939.

Essenzialmente lo schizofrenico rifiuta il mondo e con esso tutto ciò che lo concerne. Sono state avanzate tante teorie sulle cause, e di sicuro quella genetica è una componente fondamentale. Tuttavia, non è questo il focus su cui voglio concentrarmi; quel che vorrei analizzare è il senso di quell’isolamento, il suo significato. Partiamo da un presupposto: la psicosi, in tutte le sue declinazioni, non solo nella schizofrenia, è una forma di difesa, un argine contro l’esteriorità. Nello psicotico, infatti, l’Altro esiste, è ben presente, ed è percepito come qualcosa da cui difendersi; dire che gli psicotici sono fuori dal mondo, che non capiscono il mondo, sarebbe profondamente sbagliato.

Il problema sta in due fattori: da una parte l’Altro, che è vissuto come una minaccia o comunque con inquietudine, è sin troppo presente; dall’altra il proprio Io, costruito con la massima solidità possibile, di modo che sia inscalfibile. Quest’ultimo aspetto si capisce bene pensando a un fatto: nella psicosi l’alterazione del contenuto del pensiero, il delirio, è incoercibile, è un tratto tanto peculiare quanto importante, fondante direi. È una convinzione talmente radicata che nulla, tante volte nemmeno il farmaco, può eliminarla, perché essa è alla base della formazione dell’Io, della sua protezione.

Quindi, come mai Il mite mi ha fatto pensare alla psicopatologia della schizofrenia o, più in generale, della psicosi? Perché, come esposto nell’esagramma, lo schizofrenico è un individuo che si rinchiude progressivamente in se stesso, perseguendo un fine più alto: la creazione di un mondo, un mondo delirante che si sostituisce a quello della quotidianità. Spesso nello psicotico il delirio è un delirio di grandezza, che a sua volta non è altro se non un modo di difendersi da una parte e dall’altra, un moto di orgoglio quasi, una modalità trasfigurata della propria sofferenza, volta verso ciò che c’è di più in alto, ossia Dio.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).

    Visualizza tutti gli articoli