Il revisore

Mejerchol’d e le quiete borghese: una vittima dello stalinismo

Il tema dell’azione e dell’ozio, come la duplice maschera del teatro che nel riso e nel pianto è riuscita a intrappolare il corso degli eventi umani in cavillose trame, racchiude una dicotomia per eccellenza. Rispondere a cosa possa voler dire cercare la mitezza nelle pratiche teatrali del XIX secolo russo pare più una sfida sofistica che un programma direttamente affidabile, vista la violenta rivolta che vide allora la società; tuttavia, seppure l’arte sovietica post-rivoluzionaria sia stata programmaticamente intenta a decostruire la mollezza dell’accademismo, vi sono, tra gli esclusi da questa canonizzazione, innumerevoli esempi di brezze lievi che hanno raccontato, con passo pedissequo e inarrestabile, i soprusi del nuovo asse politico: la pratica di autori come Aleksandr Solženicyn ci ricorda che anche l’esilio, il raccoglimento, sono evidenze nerborute. In un certo senso il tema richiama alla mente anche quelle immagini sature dei film di Ėjzenštejn: sono immagini come il cavallo bianco stramazzato ed esausto dell’Ottobre, che proprio su un ponte levatoio, un passaggio, trova la sua morte; sono immagini come la carrozzina che inerte scivola su una scalinata di caduti sotto il bombardamento della corazzata Potëmkin. Sono immagini virulente, ma del tutto languide, effimere in senso stretto. Mitezza come una forma dell’effimero potrebbe diventare, allora, una traduzione moderna del tema proposto per questo numero della Tigre di Carta. Nel primo Novecento sovietico l’effimero diventa la condizione dell’alienato, la natura umana come l’oggetto massimamente esplorato – sebbene inesplorabile (sempre per tornare alla dicotomia delle prime righe) – da grandi artisti nella letteratura dell’epoca.

revisore Mejerchol'd - Dipinto di Boris Grigoriev 1916
Mejerchol’d, Dipinto di Boris Grigoriev, 1916.

In questa circostanza vorrei fare luce su quello che a tal proposito può dirci la parabola artistica di un regista teatrale come Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, il quale, nella rivoluzione sovietica, da partecipe diventa vittima, mostrando, con la propria morte, che l’arte della vita è cercare costantemente il fugace. Nelle proprie scelte d’artista Mejerchol’d dimostra sicuramente riguardo verso la condizione dell’effimero costruendo personaggi che hanno un interno, un nascosto, un trattenuto che non emerge mai chiaramente del tutto nel gioco di finzioni in scena.

Cercare la mitezza in Mejerchol’d deve sicuramente portare non tanto alla sua pratica attoriale, la cui tassonomia gestuale pare più cercare lo slancio dello scoppio, quanto alle sue soluzioni registiche della “maturità”, dove lo slancio, in particolare nelle scelte musicali, si traduce più come interruzione, cesura: la drammaturgia musicale tenderà al contrappunto. La mitezza assume, nelle riflessioni del regista, delle interessanti testimonianze di quello che può essere stata la reazione degli artisti allo stakanovismo più spietato della propaganda dell’epoca. La calma assume i connotati di un eterno inarrivabile nelle riflessioni del regista: costantemente i suoi protagonisti vengono intrappolati in epopee grottesche, per raggiungere, infine, sempre quella tranquillità che il punto archimedeo della completezza identitaria pare proiettare sull’esistenza nella commedia. L’effimero delle rinnovate maschere mejercholdiane è proprio la ricerca di quel punto del tutto insondabile, specialmente se contestualizzato in un universo dall’estetica futurista e costruttivista. In un certo senso l’arte del teatro, così come quella della letteratura, è da considerarsi nella Russia dell’epoca una pratica che cerca nel realismo quella denuncia nella scelta di un registro per cui il punto focale è sospeso, in un contesto che, per quanto mosso da questo istinto al raggiungimento della quiete, ne ignora il percorso per ottenerla.

revisore Ritratto di Mejerchol'd - Alexander Golovin 1917
Ritratto di Mejerchol’d, Alexander Golovin, 1917.

Mi scuso con il lettore se decido di tralasciare un dettagliato resoconto di vita del regista in questione: credo che poche date bastino per capire dove punta questo scritto. Mejerchol’d nasce a Penza, cittadina sul fiume Sura, nel 1875 e viene confessato come ortodosso nello stesso anno; corre l’ottobre 1917 e in Russia diventa l’Ottobre, una rivoluzione nell’organizzazione della vita: dopo un regicidio vuole che si cambino le gestioni a livello capillare; nel 1918 con il numero 225.182 il nostro protagonista diventa tesserato al Partito Comunista Russo sotto la guida di Lenin; è nel 1923 che Mejerchol’d riesce a fondare la propria compagnia e a consegnare il proprio metodo attoriale diventando guida del Teatro Nazionale di Mosca; tuttavia la fortuna artistica è breve: gli spettacoli presto subiscono la mannaia della censura. Tra il 13 e il 20 giugno 1939 Mejerchol’d partecipa alla Conferenza pansovietica dei registi lamentando l’isolamento da tutti i suoi colleghi; il 20 giugno 1939 avviene l’arresto con l’accusa di trotzkismo e di fomentare la disobbedienza ai soviet. L’ultima delle sue corrispondenze dal carcere politico di Butyrka è datata 13 gennaio 1940 e in essa Mejerchol’d denuncia le torture e le false dichiarazioni estorte con queste barbarie. Vorrei in questo piccolo processo di memoria segnare anche il nome di due donne fondamentali per la sua arte, la madre Elizaveta Al’vina Ljtugarda Neeze, che fu essenziale nell’infanzia di Mejerchol’d per il suo avvicinamento al teatro, e la seconda moglie, Zinaida Nikolayevna Reich, che finì brutalmente uccisa a coltellate negli occhi per la sola colpa di essere stata amante di un presunto sovversivo.

Dopo questo rapido volo è chiaro perché lo spettacolo di Mejerchol’d su cui rifletterò per questo numero 23 è uno spettacolo della “maturità”: nel 1926, al debutto sulle scene de Il revisore, la svolta e l’adesione alla rivoluzione del regista è più che matura. Nello spettacolo, infatti, prende forma una drammaturgia ponderata e attenta, il teatro di regia può dirsi solido. Lo spettacolo, parafrasando il critico letterario Konzicev, è un allunaggio alla ricerca di un pianeta inesplorato come Gogol’. Mejerchol’d ne traccia in solitudine una topografia che è una interpretazione libera (e per l’epoca scandalosa) della drammaturgia di riferimento. La storia è semplice: a una cena a casa di un sindaco di provincia, riuniti intorno a un tavolo sono commensali di rilievo; la quiete viene sconvolta dalla notizia che sta per arrivare tra loro un esattore dei soviet; ogni personaggio alla tavolata reagisce all’ansia in modo diverso in una commedia di tanti microcosmi; agli attori vengono affidate poche e spoglie direzioni, lasciandoli improvvisare; la scenografia si adatta agli scopi diventando uno sfondo con numerose porte da cui tutti possono entrare e uscire a ogni improvvisazione; la musica, proprio la musica, è l’elemento della mitezza e su questa vorrei insistere. Sebbene anche i gesti su cui gioca l’improvvisazione degli attori non siano quelli sensazionali e acrobatici di sempre, ma i più miti movimenti delle sole mani, per adeguarsi al salotto borghese dove il tutto avviene, credo che nella musica emerga il vero senso della quiete: sono numerosi i generi musicali che il regista usa per connotare ulteriormente le azioni dei singoli personaggi in azione. Ecco allora che quel punto di cui si parlava emerge sul finale, quando tutti i generi, mescolati lentamente, diventano suoni soffusi fuori campo, affievolendosi sempre di più, buttando la commedia nel silenzio totale, la fine dell’azione, la sosta del caleidoscopio. La regia, in questo caso, è una firma appena accennata; l’arte viene mostrata come un insegnamento al recesso, alla grandezza del silenzio estatico; in questo lavoro, un nevrastenico come Mejerchol’d naviga finalmente in bonaccia.

Bibliografia

Picon-Vallin, B., Mejerchol’d, MTTEdizioni, Perugia 2006.

Ėjzenštejn, S.M., Visse, scrisse, amò. Memorie, a cura di Giorgio Kraiski, Editori riuniti, Roma 1990.

Gavrilovich, D., Vsevolod Meherchol’d. Le autobiografie inedite. 1906, 1913, 1921, Universitalia, Roma 2012.

Rudnitsky K., Meyerhold the Director, Ardis Press, Heaterway 1981.

di Stefano Ghidetti

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