La radice delle cose

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Qualche giorno fa abbiamo pubblicato su questo sito un intervento di Filippo Lepre intitolato Per un’educazione all’intelligenza e non alla performance. Come annunciato nello scorso articolo, riteniamo questo un ottimo spunto per iniziare un dibattito sui meccanismi di produzione del sapere e della conoscenza al giorno d’oggi. L’articolo che segue vuol essere un contributo alla riflessione e discussione collettiva. Buona lettura.

La produzione di cultura non è un’attività come tutte le altre. Costituendo il fluido in cui siamo perennemente immersi fin dalla nascita, la cultura è piuttosto la condizione di possibilità di ogni attività umana.

Non si può uscire dalla cultura, come non si può uscire dalla società. Anzi, se anche qualora un singolo individuo si isolasse dal consesso umano, se decidesse di vivere da anacoreta, bene costui si porterebbe con sé la propria cultura. Cultura in cui è sorta la sua decisione di ritirarsi dal mondo civile e che gli permetterebbe di sopravvivere lontano dal resto dell’umanità.

Approfondendo ulteriormente il discorso, si può dire che le specifiche forme che storicamente la cultura ha assunto, cioè le differenti culture, non soltanto riflettono le diverse modalità di relazione sociale, ma esse stesse sono la manifestazione tangibile delle differenti forme con cui gli esseri umani si sono rapportati tra di loro nel corso della Storia. Esse sono le relazioni umane, ma guardate dal punto di vista culturale.

In altre parole, le relazioni sociali – mutevoli a seconda dei luoghi, dei tempi, delle circostanze – si sviluppano (e si possono sviluppare) soltanto a condizione di esprimere determinate forme di cultura. L’uomo cioè è un animale naturalmente culturale o, detto altrimenti, la cultura è la condizione di possibilità delle relazioni umane.

Tuttavia – o forse proprio in virtù di questo nesso inscindibile –, la cultura è anche un’attività come le altre. Tutti i giorni vengono prodotti libri, canzoni, quadri… E non solo: anche un tavolo o un martello implicano e concretizzano una certa cultura e un certo grado di sviluppo culturale. La cultura, in quanto attività specifica, ha i suoi meccanismi, i suoi luoghi della produzione e obbedisce alla medesima logica a cui obbedisce la produzione, ogni produzione!, in una data epoca storica.

Questo carattere duplice, contraddittorio, della cultura fa sì che qualsivoglia discorso che pretenda di porre il problema della cultura mettendo da parte le modalità di relazione tra gli individui nel migliore dei casi risulta un discorso limitato, parziale, nel peggiore, un discorso contraddittorio e fuorviante. Per questa ragione, il primo passo per cercare di comprendere qual è oggi lo stato della cultura è interrogarsi sullo stato delle relazioni sociali nella nostra società, una società dominata dal modo di produzione capitalistico.

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Molto ci sarebbe da dire e per ragioni di spazio non possiamo farlo. Ci limiteremo pertanto a soffermarci su due punti, essenziali per il nostro discorso.

Innanzitutto è necessario prendere atto di un dato di fatto: il modo di produzione capitalistico è oggi l’unico modo di produzione nel mondo. A differenza anche solo di cinquanta, sessant’anni fa – quando una porzione più o meno ampia di umanità viveva ancora in modi di produzione differenti (variamente qualificabili: di sussistenza, agricoli…) – oggi l’intero globo è attraversato dalla circolazione di capitali e merci. La cosiddetta globalizzazione, nome volgare per definire un fenomeno che sarebbe più corretto chiamare “imperialismo”, ha rappresentato a partire dagli anni Settanta il definitivo superamento dell’eredità delle società antecedenti. Questo significa che oggi non c’è un “al di fuori” rispetto al capitalismo. Ogni rapporto umano obbedisce alla sua logica di funzionamento, riflettendo cioè le sue leggi immanenti.

Questa trasformazione ha avuto due conseguenze. La prima è che tutti i rapporti sociali sono mediati dalla forma-merce. Se si vuol mangiare si deve comprare il cibo, se ci si vuol vestire si deve comprare i vestiti, se si vuol leggere si deve comprare un libro e così via. La merce è il modo apparentemente naturale in cui si danno gli oggetti di consumo, al punto che “bene di consumo” e “merce” finiscono per essere intercambiabili e che una delle discipline che studia le qualità dei beni di consumo – spesso in dialogo con altre discipline come la fisica, la chimica, la geografia, ecc. – lo fa a partire dal loro essere “merci”, da cui il suo stesso nome: “merceologia”.

Naturalmente, l’obiezione secondo cui ci si può sempre appropriare di merci a prescindere dal rapporto di compravendita, ossia sostanzialmente rubandole, non cambia di una virgola il discorso, poiché per rubare una merce è prima necessario che esista il rapporto di compravendita, così come più in generale per infrangere una legge è innanzitutto necessario che la legge esista.

Più seria appare invece un’altra obiezione al nostro discorso. Ossia il fatto che oggi si sono sviluppate una serie di norme giuridiche che tutelano l’appropriazione di prodotti, spesso i cosiddetti “prodotti intellettuali”, al di fuori dello scambio denaro-contro-merce. Ci riferiamo in particolare al copyleft e a tutte le varianti di licenze libere che sono state inventate negli ultimi decenni (le Creative Commons ne sono un esempio). Tuttavia, ancora una volta, queste forme giuridiche si possono sviluppare soltanto come eccezioni di un rapporto, quello di scambio, che viceversa è la “normalità”. Proprio il carattere eccezionale di questa forma di appropriazione gratuita non mette in discussione i fondamenti dei rapporti capitalistici di produzione. Tutt’al più, possono contribuire a far emergere una fondamentale contraddizione che si agita nelle pieghe di questa società. Una contraddizione tra l’ulteriore sviluppo delle forze produttive (e cioè della società stessa) e i rapporti giuridici di produzione oggi esistenti che si ergono come ostacoli a questo sviluppo.

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Dicevamo la forma-merce e il fatto che questa media ogni relazione sociale. Questa capacità della merce di infilarsi in ogni interstizio non è una caratteristica soltanto del modo di produzione capitalistico. Si può dire che anzi è proprio di tutte le società mercantilistiche sufficientemente sviluppate. E, se è vero che la società capitalistica è una società mercantilistica, è altrettanto vero che non tutte le società mercantilistiche erano società capitalistiche.

Vi è però una sostanziale differenza che è propria solo del modo di produzione odierno. A differenza delle società mercantilistiche, infatti, nel modo di produzione capitalistico la forma-merce è a sua volta termine medio nel ciclo della forma-denaro.

Cosa significa questa affermazione apparentemente un po’ involuta? Significa che il processo produttivo, ogni processo produttivo, assume generalmente una forma specifica che era presente solo marginalmente nelle altre società: la forma denaro-merce-denaro.

In altre parole, il modo di produzione capitalistico è caratterizzato dal fatto che per produrre viene anticipata una certa somma di denaro. Questa somma di denaro viene utilizzata per comprare delle merci che sono i mezzi di produzione (generalmente strumenti di lavoro, materia prima e forza lavoro), i quali, combinati insieme, produrranno nuove merci (più o meno diverse da quelle di partenza) che verranno a loro volta vendute per ricavare un’altra somma di denaro. Una somma di denaro del tutto identica a quella anticipata tranne che per un particolare, ossia per il fatto che dev’essere una somma maggiore, poiché nessuno investe del denaro per non guadagnarne o peggio per perderne.

Formalizzando quanto detto, il ciclo della produzione capitalistica si presenta così:

D – M (strumenti di lavoro + forza lavoro) – M’ – D’

Dove D’ è uguale a D+d, ossia alla somma di denaro anticipata più il surplus, il “di più”. Come sia possibile questo vero e proprio miracolo che permette di ottenere 100+n da 100 semplicemente grazie al passaggio da denaro a merce e da merce a denaro sarebbe una questione da affrontare, ma non lo faremo in questa sede[1]. Piuttosto ci preme sottolineare un’altra cosa. Poiché la forma-denaro è il prius e l’esito del processo di produzione, l’alfa e l’omega, la condizione di partenza e il fine a cui tendere, il processo produttivo viene relegato a un mero mezzo, a un mero strumento dell’aumento di denaro.

Non ha importanza se si producono farmaci, serie TV (e non è un esempio casuale: la casa farmaceutica Procter & Gamble produce ad esempio soap opera!) o cioccolatini, l’importante è che la somma di denaro guadagnata sia maggiore della somma di denaro investita, che il capitale investito cioè produca profitti.

Ora, l’aumento incessante di ricchezza beneficia senza dubbio chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione: gli azionisti delle aziende, i padroni delle fabbriche, i capitalisti insomma. Jeff Bezos, per esempio, è l’uomo più ricco del mondo e siamo sicuri che questo non gli dispiaccia affatto. Ma, e questo ci porta al secondo punto da tener presente nel nostro discorso sulla cultura, il continuo rinnovamento del ciclo produttivo, l’estenuante ricerca di un aumento di ricchezza prodotta anche a discapito della stessa vita naturale e umana (la crisi ecologica lo insegna), non è funzionale tanto o solo al miglioramento delle condizioni di vita del singolo capitalista.

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Una volta messo in moto questo processo si autoalimenta, a prescindere dalla volontà dei soggetti agenti, dei singoli individui. Il capitale, in quanto sistema di relazioni umane finalizzato all’aumento di ricchezza prodotta, finisce per essere esso stesso un soggetto agente e per imporsi con la forza dell’inevitabilità proprio a quell’umanità che l’ha fatto sorgere.

Sperimentiamo questa inevitabilità tutti i giorni. Come dicevamo prima: se si vuol mangiare si deve comprare il cibo, se ci si vuol vestire si deve comprare i vestiti, se si vuol leggere si deve comprare un libro. Non c’è un “al di fuori” in cui situarsi, uno spazio libero da questi meccanismi.

Il capitale è il vero soggetto della Storia delle società capitalistiche. E se un tempo ancora esistevano i capitali d’industria, con i loro capitali individuali, che orientavano la produzione delle loro aziende, oggi sempre più questi sono sostituiti dai manager: privi di interessi materiali immediati, questi agenti della produzione sono pure e semplici maschere sul proscenio della Storia, che interpretano una parte data loro da questa forza apparentemente naturale, senza volto e con mille volti, senza nome e con mille nomi, che chiamiamo capitale. Dei puri e semplici funzionari che rispondono a leggi non scritte da loro.

Torniamo così alla nostra produzione culturale. Nel processo di autovalorizzazione del capitale è coinvolta ovviamente anche la produzione di cultura, sia nel senso di attività specifica sia nel senso di “fluido”, “spazio” entro cui prendono forma le relazioni sociali tra gli individui e tra l’essere umano e il mondo circostante. Oggi la cultura è una merce come le altre. In quanto merce i criteri della produzione non possono essere che i criteri della produzione di merci: la valorizzazione del capitale. Ma la cultura dà anche forma specifica alle relazioni tra gli esseri umani. Poiché oggi il capitale è soggetto agente che tutto sussume, la cultura ne esprime la logica immanente. Ecco allora che, per esempio, la ricerca scientifica appare come un processo essenzialmente competitivo, che lo spirito critico viene sacrificato sull’altare dell’efficienza, la nozione sostituisce la comprensione e così via.

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Negli ultimi decenni, per altro, questa “internità” della produzione culturale alle logiche capitalistiche si è approfondita. E non pensiamo soltanto all’arte, ai libri, ai film, alle canzoni…, che sono una parte, senza dubbio importantissima, della produzione culturale, ma pur sempre una parte. Pensiamo alla tecnologia, alla scienza, alla conoscenza applicata alla produzione. C’è un passo del VI capitolo inedito del primo libro de Il Capitale, in cui Marx già prefigura la capacità del modo di produzione capitalistico di sussumere, ossia di sottomettere, ogni forza produttiva, ogni capacità umana, alle sue esigenze. Poiché non destinato alla pubblicazione, il passo conserva tutta la densità delle prime stesure, ma vale lo stesso la pena di leggerlo:

L’incremento delle forze produttive sociali del lavoro, o delle forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (reso collettivo) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine, e, in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi, come ogni lavoro su grande scala a tutto ciò corrispondente […], questo incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione della scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – al processo di produzione immediato, si rappresentano ora come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione. Questa mistificazione, propria del rapporto capitalistico in quanto tale, si sviluppa ora molto più di quanto potesse avvenire nel caso della pura e semplice sottomissione formale del lavoro al capitale[2].

Marx qui ci sta dicendo fondamentalmente quattro cose.

Primo, che nelle società in cui domina la produzione capitalistica la produzione è necessariamente produzione su grande scala, quindi produzione industriale.

Secondo, che perché ciò sia possibile anche il lavoro dev’essere su larga scala e che l’applicazione del lavoro su larga scala comporta un incremento delle forze produttive sociali del lavoro.

Terzo, che quest’incremento delle forze produttive implica la loro socializzazione e questa socializzazione avviene mediante la cooperazione, la divisione del lavoro, l’impiego delle macchine, l’applicazione della scienza alla produzione.

Quarto, che questo processo non è mai neutrale poiché avviene all’interno della logica e dei bisogni del capitale. Ossia, è sottomesso al capitale. Questa sottomissione è definita da Marx “reale”, per distinguerla da quella “formale”, caratterizzata dal fatto che il capitale si appropria di processo produttivi e forme di relazione sociali preesistenti (è il caso per esempio della manifattura nel Settecento, quando i lavoratori autonomi sono stati progressivamente cooptati da singoli capitalisti che hanno eroso gli spazi di autonomia dei lavoratori stessi facendoli lavorare su commissione)[3].

È difficile trovare parole più precise per descrivere la situazione odierna. Con l’estensione del modo di produzione capitalistico a tutto il globo terraqueo, la sottomissione reale delle forze produttive alle esigenze del capitale è infatti ormai da tempo un dato di fatto. Oggi non si tratta più nemmeno di applicare la scienza alla produzione: è la scienza stessa, anzi più in generale la cultura, che è una forma specifica della produzione capitalistica, e quindi riflette le sue leggi immanenti.

Ecco che allora ogni prodotto culturale non può essere creato senza un anticipo di capitali e senza prevedere, almeno in linea di massima, un ritorno del capitale anticipato. Si investe insomma per guadagnare e quindi si investe là dove si ritiene ci siano degli “spazi di mercato”. E se il prodotto qualitativamente non sarà valido, poco male: il film, la canzone, il libro, la teoria scientifica, ecc. non sono importanti per se stesse ma in relazione all’investimento fatto. La pietra di paragone della qualità è la vendibilità. Vendibilità che può essere immediata – nel caso di un libro, per esempio, è il numero di copie acquistate – o mediata: una teoria scientifica è vendibile se è utile, ossia se può essere incorporata in strumenti tecnologicamente sempre più avanzati.

Le conseguenze sulla produzione culturale sono devastanti. Ciò che dovrebbe essere la massima espressione dell’essere umano in quanto umano e non semplice animale diventa un semplice mezzo in vista di un fine estrinseco, altro e alieno rispetto all’attività culturale stessa. Kant riteneva che l’imperativo categorico si potesse esprimere più o meno come segue: tratta sempre gli essere umani come fini e mai come mezzi. Quest’affermazione si potrebbe parafrasare per esprimere l’atteggiamento che l’essere umano dovrebbe tenere nei confronti delle opere culturali: bisogna trattarle sempre come fini e non come semplici mezzi. Il modo di produzione in cui viviamo opera esattamente all’inverso. Mercificando tutto, rende tutto al tempo stesso un mezzo. Un mezzo in vista di un unico, monodimensionale fine: l’accrescimento del capitale[4].

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E val poco obiettare che resistono produzioni “indie”, low budget, che implicano addirittura lavoro volontario (la Tigre di carta, su cui scriviamo, ne è un esempio). Intanto perché queste produzioni, appunto, resistono, ossia si contrappongono a un modello dominante senza riuscire, e spesso nemmeno avere la velleità, di scalzarlo. In secondo luogo perché queste produzioni non esulano dalla logica di produzione capitalistica, semplicemente lo fanno su scala infinitamente più ridotta: per produrre un film low budget serve comunque un budget, per produrre e far circolare una canzone “indie” servono comunque dei soldi, per stampare le fanzine o le riviste come la Tigre di carta serve comunque un finanziamento.

La sussunzione della cultura alle logiche capitalistiche non ha però modificato solo le modalità di produzione dei prodotti culturali. Come detto in precedenza, allo stesso tempo si è imposto un mutamento genetico del concetto stesso di cultura, del significato di “cultura”. La critica che Filippo Lepre muove nel suo articolo coglie, da questo punto di vista, nel segno: il nozionismo dell’insegnamento, la sua immediata traduzione prestazionale (i test), l’incapacità o quanto meno la mancanza di volontà di cogliere la pluridimensionalità dell’intelligenza sono tutti problemi che affliggono la cultura odierna. Se ne potrebbero elencare altri connessi a questi: l’incapacità di costruire un senso critico negli studenti, l’idea secondo cui la conoscenza si rivolga ai meri fatti (e che quindi esista una base di neutralità su cui eventualmente si erge una sovrastruttura di opinioni), la preminenza assoluta che le discipline apparentemente più “tecniche” (più “rivolte ai fatti”) hanno assunto nel corso del tempo…

Fenomeni, questi, dalle conseguenze deleterie per la nostra società, che come sappiamo è ormai immersa in una crisi culturale da cui sembra incapace di uscire. Ma, appunto, fenomeni, la cui “verità”, la cui essenza, risiede altrove. Ossia, fenomeni che possono essere compresi e soprattutto modificati soltanto alla luce di una critica radicale. E, come diceva Marx, la radice per l’uomo è l’uomo stesso ossia i rapporti sociali esistenti.

A questa strada – una strada tra l’altro da percorrere mai individualmente e sempre collettivamente – non c’è alternativa. O meglio, l’unica alternativa è la sterile indignazione o, peggio, l’accondiscendenza nei confronti di ciò che, ben lungi dall’essere una soluzione al problema, ne è parte attiva. Di ciò che cioè contribuisce ad alimentare il modo di produzione capitalistico, un Moloch inarrestabile che con la sua forza travolgente tutto schiaccia e tutto distrugge: ecosistemi, civiltà, intelligenze.

Note

[1] Per chi volesse cimentarsi consigliamo il sempreverde Das Kapital di Karl Marx, almeno il primo volume. Non fatevi ingannare dalla mole: è una lettura più agevole di quel che sembra e soprattutto illuminante.

[2] K. Marx, Il capitale. VI capitolo inedito, trad. di B. Maffi, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 57-58.

[3] Questo concetto, espresso in modi differenti, torna più volte nella riflessione marxiana. Nel terzo tomo de Il capitale, ad esempio, Marx pone la stessa questione dal lato del profitto che il singolo capitalista ricava dall’investimento, profitto considerato come non tanto come creazione di ricchezza da parte del singolo capitale del capitalista specifico ma come appropriazione particolare da parte del capitalista specifico della ricchezza sociale prodotta in generale. Scrive Marx: «Nel modo capitalistico di produzione non si tratta soltanto di ricavare dalla massa di valore, messa in circolazione sotto forma di merce, una massa di valore equivalente sotto altra forma – denaro o altra merce –; ma si tratta di ricavare dal capitale anticipato per la produzione lo stesso plusvalore o profitto di ogni altro capitale della stessa grandezza, o pro rata della sua grandezza, qualunque sia il ramo di produzione in cui esso è impiegato; si tratta quindi di vendere le merci a prezzi che assicurino come minimo almeno il profitto medio, ossia di venderle ai loro prezzi di produzione. Sotto questo aspetto il capitale stesso si rende conto di essere una forza sociale, di cui ogni capitalista costituisce un elemento tanto più importante, quanto più importante è la sua partecipazione al capitale complessivo sociale» (K. Marx, Il capitale, vol. III, a cura di M. L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 239). Questo significa che il processo di sussunzione reale alle esigenze del capitale ha raggiunto un livello di perfezione tale, e siamo ormai da tempo a questo livello, che il capitale è oggettivamente un soggetto autonomo, capace di agire, inglobando ogni aspetto della vita consociata, indipendente dalla volontà dei singoli capitalisti «impone[ndosi] agli agenti della produzione come una legge cieca» (ivi, p. 310), i quali da par loro si limitano a incarnarne i bisogni.

[4] Quanto detto non significa che la singola opera non possa essere valida anche qualora il modo di produzione capitalistico dovesse essere superato. Il problema infatti non è l’opera in quanto tale ma le modalità di produzione delle opere culturali, cioè il sistema entro cui prende forma la produzione complessiva e che, in modo non meccanico, si riflette nella singola opera. In altre parole, il problema sono sempre le relazioni che la società intesse con ciò che produce, sia nella fase della produzione sia nella fase del loro consumo.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.