Per un’educazione all’intelligenza e non alla performance

intelligenza think tank

Riceviamo e pubblichiamo questa riflessione critica sui meccanismi che oggi guidano la produzione del sapere. Riprendendo l’esperimento inaugurato circa un anno fa con gli articoli sulla pandemia, cogliamo l’occasione per aprire uno spazio di dibattito e confronto sulle pagine, o per meglio dire meglio sui monitor, della Tigre di carta. Chiunque voglia pertanto contribuire alla discussione con le proprie riflessioni può inviare i propri testi a collabora@latigredicarta.it. Buona lettura.

Come diversi studenti, parallelamente all’attività di studio provvedo alla mia indipendenza economica, cercando di coniugare la mia vita accademica con quella di lavoratore – nel mio caso autonomo – in qualità di insegnante privato. Fra i miei allievi posso ravvisare appartenenti a diverse classi sociali, in merito alle quali, purtroppo – siccome i meccanismi di distribuzione del reddito in Italia sono oltremodo iniqui – ravviso una grande polarizzazione delle ricchezze. Più in particolare, fra i vari hobbisti mi capitò di impartire lezioni ad un rampollo dell’altissima élite finanziaria milanese – mi sovverrebbe il termine “intellighenzia”, ma fra poco vi renderete conto che si tratta di tutto fuorché di intellighenzia – e da questo incontro dovetti confermare quello che sino ad allora era solo un pregiudizio: ovvero che forse abbiamo un’idea un po’ sovrastimata dell’élite.

Il nucleo discorsivo del presente articolo trae spunto proprio dalle osservazioni in me suscitate dall’incontro con questo rampollo, e dunque, dal contatto diretto con una forma mentis di cui questo ragazzo è improvvida vittima, con un’impostazione del sapere che io ho definito “prestazionale”.

Parlando del più e del meno, ed anche della scuola, vengo a sapere che l’adolescente, nel programma scolastico di una esclusiva scuola inglese è inquadrato in un sistema educativo che, oltre a non contemplare materie come la filosofia e la storia delle arti, è funzionalmente sottomesso alla logica dei test: gli iscritti affrontano un programma didattico che è funzionale unicamente al superamento dei test universitari per l’ammissione ai College anglosassoni, glissando a piè pari su tutto ciò che esula dal dominio dei punteggi. Purtroppo, di questa impostazione ne risente il ragazzo, la cui cifra intellettiva, e mi dispiace dirlo ma devo, ne va a detrimento. Va bene, potrebbe essere un caso… potrebbe darsi che il rampollo non brilli di suo ma che i suoi colleghi di punteggio siano tutti di fino intelletto… ma poi cosa avviene? Avviene che do lezioni anche alla madre, i cui percorsi accademici evidentemente sono identici a quelli del figlio, e mi rendo conto che il livello di partenza delle domande è preoccupante… ed allora mi sovviene un dubbio: ma non è che a furia di studiare solo per i test, inseguendo insulsi punteggi, si ottiene l’effetto contrario rispetto a quello auspicato? Non è che così facendo si ha meno la possibilità di sviluppare a tutto tondo l’intelligenza?

Mi riservo il beneficio del dubbio, ovvero di aver preso a riferimento un campione poco rappresentativo, tuttavia, la neurologia ci insegna che un orientamento didattico funzionale esclusivamente al superamento dei test atrofizza il pensiero laterale, sclerotizza lo spirito critico, anchilosa l’intuito e di conseguenza riduce l’intelligenza, perché il funzionalismo equipara l’intelligenza stessa a fenomeno monodirezionale e mono quantificabile. Questa impostazione semplifica e sminuisce il concetto di intelligenza, fenomeno in realtà molto complesso, poco quantificabile tramite i test ed eterogeneo, siccome di intelligenze ve ne sono almeno sette, se non nove. Il grande limite di una visione funzionalista dell’intelligenza è quello di privilegiare l’intelligenza intesa in senso cognitivista a discapito di quella intesa in modo più laterale, che compete alla capacità di ragionamento, di argomentazione e più in generale di produzione di idee. La stessa intenzione di quantificare l’intelligenza anziché qualificarla, è una distorsione che esautora dal dominio dell’intelligenza tutte quelle mansioni che sarebbero appunto poco quantificabili. Come quantificare la capacità di produrre teorie, di sviluppare personali punti di vista, di fare ragionamenti astratti e di essere creativi? Direi che è impossibile… perché tutte queste mansioni, che sono delle funzioni dell’intelligenza, seguono delle modalità cognitive che si poggiano su processi molto lunghi. Beninteso, non mi dichiaro contrario ai test in toto, tuttavia ritengo che privilegiarli spesso come unica forma di selezione per garantire accesso ad università ed aziende sia ingeneroso ed incoerente nei confronti dei funzionamenti del nostro cervello, poco meritocratico ed un pessimo filtro analitico nei confronti delle potenzialità di una intelligenza.

Da qui la seconda considerazione: ma, se i rampolli dell’alta finanza, i cui percorsi formativi li rendono degli individui che hanno privilegiato solo alcune funzioni dell’intelligenza – beninteso, ad alti livelli, ma solo alcune funzioni fra le molte – arrivano poi ad assurgere a posizioni manageriali di rilievo, a dirigere fondi, think tank, istituti di consulenza ed imprese di questo genere, ciò significa che alla lunga noi avremo una classe dirigente sempre meno brillante, perché convinta che l’intelligenza sia un banale fenomeno inquadrabile nell’ambito della prestazione da punteggio, della performance quantificabile e quantificante. Considerando che le assicurazioni, i fondi di investimento, le società di consulenza e gli istituti bancari sono in genere le entità che erogano ed indirizzano finanziamenti rivolti spesso al mondo della cultura, e che costituiscono i bacini di utenza di tutti i “professionisti del punteggio”, c’è da preoccuparsi…

Se partiamo dal presupposto che le università per chi vuole lavorare nella finanza e nel management promuovono un’impostazione del sapere iper-settoriale in cui le intelligenze sono inespresse (siccome l’intelligenza è divisa in almeno sette branche) e se, proseguendo in questo ragionamento, realizziamo che i cambiamenti socioculturali vengono innestati proprio da questo tipo di élite, ci rendiamo conto che le conseguenze di tale sistema possono essere esiziali.

intelligenza trap

Mi si potrebbe ribattere che anche un cardiochirurgo, un fisico teorico ed un ingegnere energetico seguono un percorso educativo iper-settoriale, verissimo, ma l’élite dei cardiochirurghi e degli ingegneri non promuove modelli socioculturali, quella economico-finanziaria sì… è questo il guaio. E purtroppo, la settorialità a cui è sotteso il Gotha dei dirigenti e manager, è un fatto abbastanza recente: la classe politica e finanziaria fino a qualche decennio fa era formata da persone spesso di dubbio valore morale, ma sicuramente di solida caratura intellettuale, di persone che non si erano formate con logiche efficientiste legate alla cultura della prestazione. Altro guaio, riconducibile ad una sempre più rimarcata separazione fra potere e sapere, è il fatto che questo scarto si riflette anche sui mercati dell’arte popolare, di consumo. Prendiamo l’esempio della musica leggera: fino agli anni 90’ in Italia la musica di consumo aveva fra i suoi protagonisti artisti totalmente rispettabili come Dalla, Battisti (già defunto ma comunque ascoltato anche in quegli anni), Battiato, De André e moltissimi altri; insomma, i prodotti della musica popolare erano di indubbio valore artistico. Oggi gli stessi sono sostituiti da chi fa Trap, genere che non solo è povero di contenuti, ma è anche aberrante dal punto di vista musicale.

Ma cosa sta succedendo allora? Tutto ciò è sintomo dello specialismo, di un sapere e di un modello di intelligenza sempre più settoriale? I fatti mi invitano a ritenere che laddove la frangia più influente della società fonda la propria educazione su un sapere prestazionale, laddove l’élite è formata da individui selezionati in base questi criteri, l’humus intellettuale di questa frangia sarà deludente.

Abbiamo allora dinanzi un doppio problema: non solo l’impoverimento della temperie culturale di questa classe, ma anche (e soprattutto) il fatto che sia questa la classe che promuove i cambiamenti sociali: un chirurgo che non si è mai interessato di filosofia può benissimo eccellere nel suo lavoro, ma un manager di una multinazionale che non sa la differenza fra Aristotele e Picasso rischia di far danni, perché il suo potere decisionale, la sua capacità di elaborare strategie di mercato o di gestione delle risorse umane è un compito che è molto più pervasivo, è un compito con una gittata ed un potenziale di influenza infinitamente più potente di quello di un chirurgo che sostituisce una valvola aortica.

Vi è un terzo aspetto, che trovo parimenti inquietante: ovvero che vi sono sempre più famiglie benestanti che spingono i propri figli ad intraprendere un percorso accademico orientato al management in ambito economico o alla finanza, come se solo questi fossero i percorsi per instradarsi verso un Eldorado in grado di coniugare sicurezza patrimoniale con rispettabilità sociale. Leggendo i romanzi del Novecento, ricordo bene che le famiglie borghesi contemplavano nello spettro dei mestieri rispettabili anche quella di medico, di giurista, di docente, di commercialista; ho l’impressione che questo spettro, per le famiglie più che benestanti, oggi si sia ridotto solo ai mestieri connessi con la finanza e col management. E sappiamo tutti benissimo che la grande tara cognitiva di chi lavora nell’ambito della finanza è quella di filtrare tutti i risultati sotto il prisma dell’efficienza, e dunque di escludere dal bacino dei finanziamenti tutto ciò che non massimizza il profitto. Di conseguenza il musicista diventa un sognatore, il medievalista uno sfigato, il filosofo un intellettualoide disadattato e l’attore di teatro un ramingo naufrago in un mare di espedienti svilenti, perché operano in settori di ricerca in cui il profitto è sicuramente benvenuto ma non è il fine ultimo delle proprie attività.

intelligenza cultura classica

Tuttavia, siccome detesto il disfattismo totale che spesso pervade un’ampia frangia di opinionismo a cui mi sento vicino, non tutti i portati di questo pensiero “prestazionale” sono per forza nocivi. Recentemente si sta facendo strada nel mondo delle istituzioni culturali l’idea di avvicinare le politiche culturali a quelle di un’azienda, ovvero l’idea di parametrizzare la vendita dei prodotti culturali alla stessa stregua di come avviene in un’azienda, che elabora strategie mirate per vendere i propri servizi e prodotti commerciali. Io non sono contrario a questa idea, per il semplice fatto che se essa porta frutti che danno fondi al mondo della cultura, ai lavoratori nelle arti, e se questo denaro permette di avvicinare più pubblico alle arti, alla ricerca scientifica, all’umanismo, ben venga. Questo sistema sembra funzionare e decisamente bene nei paesi anglosassoni ma anche in quelli germanofoni e francofoni. I vari lettori di Jacobin (fra cui il sottoscritto) e socialisti dovrebbero avere l’onestà di riconoscere questo successo, invece di continuare a sostenere lo stesso adagio da anni, secondo cui il mondo delle imprese è indegno di amministrare la cultura. Sia chiaro, non sto muovendo una requisitoria nei confronti del mondo manageriale e delle imprese, ma sul fatto che i dirigenti e le alte cariche di questo mondo siano selezionati con criteri che fanno storcere il naso anche al più inesperto neuroscienziato, con criteri che promuovono una visione monca dell’intelligenza, una visione poco intelligente dell’intelligenza.

Per cui, ben venga l’intellighenzia, ma a patto che sia effettivamente intelligente.

di Filippo Lepre

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