Incontri non-ravvicinati del quarto tipo

Dopo la pubblicazione de La voce del matto di Alessandro Centolanza e Agitatevi, organizzatevi, studiate di Simone Coletto, pubblichiamo il terzo intervento del ciclo di attualità iniziato una settimana fa.

Come sempre, invitiamo i lettori e gli autori che ci seguono, qualora interessati, ad arricchire il discorso con articoli o commenti sui social.

«Una storia molto semplice, vissuta da una persona qualunque, che doveva essere testimone di un evento straordinario, un’esperienza sconvolgente e ossessionante, di quelle che cambiano completamente la vita.

(Steven Spielberg)

Questa era la storia che voleva raccontare Spielberg con il suo film.

Ecco, finalmente ci siamo dentro.

Con la differenza che adesso gli incontri sono tutti “non-ravvicinati”.

Quando siamo di fronte a un problema, Henri Laborit dice che c’è una terza via rispetto agli atteggiamenti attivo e passivo (combattere o restare supini), ed è quello a volte sanissimo della fuga, che lui elogia nella figura di una barca che scappa di fronte alla tempesta col mare in poppa e un minimo di tela (cfr. H. Laborit, L’elogio della fuga).

Attualmente di tipi ne abbiamo invece quattro:

– I° tipo (combattivo): coloro che manifestano in modo distruttivo, o a essere generosi “luddista”, (Milano, da piazzale Loreto a Buenos Aires, 27 ottobre 2020), oppure mite, o a essere generosi “gandhiano” (“L’assenza spettacolare”, piazza Scala, manifestazione civile e ordinata di venerdì 30 ottobre 2020)

– II° tipo (acquiescente): la maggioranza di coloro che, per paura del contagio o della sanzione, si mascherinano, stanno a casa, fanno (quasi) tutto giusto.

– III° tipo (fuggiasco): i pochi che scappano in campagna/mare/montagna/lago/bosco dentro cascine/baite/chalet/villette/tende/yurte etc.

– IV° tipo (ignaro): colui che continua a fare quello che faceva prima, laddove possibile, e non fa più l’ex lecito come se fosse stato vietato da sempre.

Notare: il quarto tipo è sparpagliato e va per la maggiore, se ne trova una buona dose nel secondo tipo, una bella manciata anche nel primo e un pizzico persino nel terzo.

È una tattica geniale, una mia cara amica dice sempre: «Sembra grave ma non è», non nel senso: «Non è grave», ma proprio «Non è», non sussiste.

Più che di tipi umani si tratta di tipologie di reazione: rientrato dalla sua protesta, il tipo I può diventare tranquillamente un tipo II osservando appieno i decreti fra le quattro pareti di casa. E persino il tipo III può fare quel che fa, cioè compiere un esodo, per le stesse preoccupazioni del tipo II.

Il fatto però che il tipo IV, come approccio di fondo, fa da denominatore a quasi tutti i restanti atteggiamenti poiché trasforma la presenza del pericolo in un’assenza.

In un modo o nell’altro, pur lagnandoci, semi-protestando, fra esami di coscienza ed emulsioni della bile stiamo più o meno facendo tutti così.

(Fra parentesi: in queste parole, giuro, non c’è critica. Forse solo un involontario dispiacere perché la realtà sta ricalcando sempre più la sua identità poco raccomandabile, questa crisi è un fenomeno sorprendente ma ciò che riflette non sorprende affatto, come gli specchi di Borges: ci siamo sempre noi dentro, nessuno stupore).

Sintomi del quarto tipo: gettarsi capofitto sul digitale, alienarsi.

A proposito di alieni. Quelli nel film di Spielberg creavano suspense perché erano attesissimi ma non si vedevano mai (si intravedevano nel finale, al massimo). Erano la presenza dell’assenza – lascio ai dotti i riferimenti ad Heidegger e alla Shekinah ebraica.

Quest’anno, tutt’al contrario, i presenti (gli Altri) si fanno assenti ma ci sono sin dall’inizio della storia. Siamo noi. Ecco l’ossimoro di un “incontro non-ravvicinato”. L’atteggiamento del IV tipo, distorcendo il pericolo in una bolla di sapone (un po’ come il carnivoro che non si interroga sul proprio atto), finisce col trasformare anche la presenza degli altri in un’assenza (sempre come il carnivoro).

Risultato: siamo tutti monadi (con porte e finestre chiuse).

Nel film di Spielberg era suspense come sospensione e attesa febbrile. Il finale era ignoto, come si deve a ogni buon film secondo l’ottica di Hitchcock, il maestro della tensione, cioè: la vita senza le parti noiose.

Qui, invece, sembra a tutti di essere piombati in un film di fantascienza, ma con dentro soltanto le parti noiose. Anziché attesa febbrile, la febbre attendista. E c’è il rischio che il finale sarà: l’eterno ritorno dell’eguale, che l’umanità non imparerà niente, sebbene Žižek sostenga che il mondo post-Covid non sarà (o non dovrà essere) più lo stesso.

È il pianeta che non sarà più lo stesso, proprio perché il mondo non cambierà di una virgola. E questo, paradossalmente, costringerà poi anche il mondo a cambiare.

Una sorta di compromesso fra Alain Badiou – secondo il quale non c’è «niente di nuovo sotto il sole», visto che le epidemie sono sempre più frequenti e già l’espressione “SARS2” suggerisce una ripetizione del già visto – e invece Žižek il quale coglie nella crisi un possibile segnale di cedimento del capitalismo utile a una svolta comunista.

A proposito di Žižek (e di alieni), ho vinto l’imbarazzo di scrivere una cosa su Facebook (già il mezzo era contraddittorio):

«Avendoli letti in sequenza, mi si sono mixate due frasi: una di Žižek in Virus (Ponte alle Grazie, 2020), in cui il filosofo sloveno fa una cit. cinematografica (come spesso fa) dalla stranota scena delle pillole di Matrix, per dire che o viviamo passivamente gli eventi in corso o prendiamo la pillola del risveglio e reagiamo.

L’altra è da A che punto siamo? di Giorgio Agamben (Quodlibet, 2020) in cui il filosofo italiano denuncia una regressione al valore della nuda vita da salvare anche a costo di rinunciare alla vita affettiva e sociale.

Dal mix è venuto fuori questo: sarebbe inquietante ma anche interessante chiedersi cosa succederebbe qualora si arrivasse a un livello di tale invivibilità del mondo (per ragioni mediche e ambientali) da ritrovarci tutti di fronte all’alternativa fra una vita mascherinata, distanziata e malsana oppure una vita in cui il proprio corpo viene messo in vitro per essere tutelato mentre il nostro avatar può tornare a vivere, toccare e fare tutti i “gioca jouer” che ci piacciono tanto.

Quindi un: pillola blu/rossa ma al contrario, a partire dal mondo fuori Matrix».

Gli esseri umani, in questa finzione, non sarebbero più le pile d’alimentazione di una razza aliena, ma di loro stessi. L’uomo come “macchina biologica” di Gurdjieff portato alle sue estreme conseguenze.

Bene, restiamo un po’ sul tema della “nuda vita”.

A differenza di Agamben, non credo nemmeno che la “nuda vita” sia un valore (neanche lui lo pensa, in realtà), tuttavia ciò è esattamente l’essenza del suo valore (qui forse non condividerebbe, chissà).

La “nuda vita” è un olone, cioè quella porzione di un sistema complesso che vista dal basso è un elemento autonomo e conchiuso, vista dall’alto è a sua volta parte di un mosaico.

La nostra singolarità corporea (che oggi cerchiamo di tutelare) è, come sanno tutti, un universo a sé stante di organi, apparati, esseri minuscoli, misteri. Ed è simbolico che nella scomposizione di questo coacervo, le pratiche indiane (Prāṇāyāma) abbiano scavato sino al nudo respiro: l’essenziale è l’input-output “semi-volontario” (già questa parola dice tutto) di ossigeno-anidride carbonica, i due reagenti della nostra atmosfera. È il grado zero (o 0,1) del nostro esistere. È simbolico per la pervicacia con cui il Covid-19 assalta proprio là, nei polmoni, dove il nocciolo della nuda-vita-nella-nuda-vita si sostiene.

Ebbene, quando tutti questi valori su scala imperscrutabile si sommano e collimano fino a creare il corpo umano, nasce l’idea della “nuda vita” che vogliamo salvare e che funge da premessa per ogni altro valore possibile. Per questo l’obiezione ingenua ad Agamben sarebbe: eh, ma se togli il mattoncino fondamentale della nuda vita non puoi coltivare tutti gli altri valori perché manchi del sostrato su cui innestarli.

Anche qui suona paradossale: valore significa etimologicamente “essere forte, sano”, quindi da un certo punto di vista la nuda vita è un valore eccome e la coeva lotta per salvarlo dalla pandemia una più che valida crociata.

Eppure, questa mera “forza” si colora di virtù solo quando può riversarsi dentro un contenitore. Senza la cornice (arte, cultura, politica, blablabla) non è che il valore non ci sia, ma non si vedrà mai perché gli manca il contorno, come nei disegni.

Quindi la domanda è: meglio un disegno con solo linee o soltanto colori? Credo che la risposta sia: il valore scaturisce dall’incontro grafico tra figura e sfondo.

Tanto per complicarla dicendola con Simmel: il mehr-Leben (il surplus vitale) riempie un mehr-als-Leben (un più-che-vita), cioè una forma determinata, ossia qualunque elemento prodotto dal mondo dell’uomo.

Ora, nell’istante in cui l’uomo si affranca dall’animale si impegna un sacco per contraddistinguervisi, e tutto ciò che si eleva al di sopra della triviale sopravvivenza, in teoria il superfluo, diventa (come diranno poi Wilde e Puškin), il necessario. Tanto meno il peso della vita grava sul magnare la pagnotta e salvare la pellaccia, tanto più la bilancia si esercita su tutte le attività figlie di questo nuovo, bianco e libero margine. Così la sovrastruttura diventa struttura.

Infatti si dice buffamente “sopra-vivere” (über-leben), perché il vivere di base, sottostante, è ormai il vivere dell’uomo-non-più-animale, che parla, commercia, dipinge, fa all’amore, produce, sperpera.

Così nascono i valori.

Nei momenti di cataclisma però ci si ricorda dell’inghippo, sebbene le battute d’arresto e persino le quarantene del passato (più simili a ghettizzazioni in realtà) erano volte esattamente a non estinguere altrove l’otium fra i pochi rimasti sani e illesi (di solito nobili, ma non sempre).

Oggi invece servono a poco i confronti con le pesti e le quarantene del passato perché, da questo punto di vista, una quarantena totale è come nessuna quarantena (l’opposto del recinto di Wittgenstein). L’angolo giro (360°) coincide con l’angolo nullo (0°).

Con totale non intendo che tutti i Paesi siano in lockdown contemporaneamente e di concerto, ma che rischiano di diventarlo potenzialmente, non esistono quindi “posti di riposo” (per dirla con Winnicott).

E, non ultimo, una quarantena totale “esautora” occhi esterni capaci di rilevare le criticità.

È questo, perciò, uno di quei momenti della storia – mi azzardo a dire – in cui la curva evolutiva «sopravvivenza → più-che-vita» accenna a piegare la sua parabola planando di nuovo sulla sopravvivenza, tornando cioè a porre il problema della sopravvivenza al centro delle preoccupazioni.

Finalmente i due percorsi di filogenesi e ontogenesi, che da tempo gli scienziati osservano in parallelo, si fanno tangenti anche sugli esiti. Persino nella breve e personale vita di ognuno di noi, infatti, si passa da una fase in cui la nuda vita è all’apice delle preoccupazioni a una parentesi più matura in cui invece possiamo esprimerci proprio perché franchi di quella zavorra, finché nell’età anziana tornano a riscuotere il credito le esigenze della “nuda vita”.

Sia l’umanità che l’individuo sono sempre stati scissi fra queste due velocità e marce evolutive. Anzi, forse la stessa evoluzione consiste proprio in questo scarto, fra la tartaruga dei bisogni e l’Achille dei vizi.

Tutto questo mi fa venire voglia di pensare che ci stiamo avvicinando alla fine dei valori, ma non certo per motivi apocalittici come invocano alcuni squinternati, ma perché tocchiamo ora con mano la batteria dei valori, il suo cuore pulsante, dopo averne maneggiato tutto il tempo i transistor.

Che forse la batteria andava cambiata ormai lo si sospettava.

Basti pensare che al giorno d’oggi alcuni presunti valori (esempio facile: la famiglia) erano ormai sindoni di loro stessi. Quante famiglie si costituiscono solo in nome del “valore” della famiglia? Senza nessun legame effettivo (e affettivo) che tenga botta di fronte alle prove della coppia e della materni-paternità? Cosa c’è di meno valoriale di questo? L’infelicità in nome di un mito.

Le pile di questo valore erano ormai scariche.

Non c’è da essere apocalittici, ma piuttosto rivoluzionari (in senso etimologico): stiamo riportando le dita nella presa, con tutti gli svantaggi del caso. Affinché nuovi valori tornino, il mondo deve tornare ad esserci ostile, a darci attrito. Dobbiamo scaricare per ricaricare.

Il virus sarà la nostra presa a terra.

Covid


A mio (dis)gusto, per esempio, il caso fulgido di tutto questo ambaradan è la strage dei visoni.

È stata una retromarcia contro tutta la fatica spesa per ergere il fragile castello di una presa di coscienza sull’animale che dunque siamo.

Ci sono solo due fasi epocali in cui i valori assumono la logica dell’ubi maior e rotolano su se stessi: quella embrionale e quella senile. Quella dell’areté omerica e medievale e quella postmoderna. Nella fase di punta, invece, i valori dovrebbero assumere una ramificazione problematica, certo, ma intrecciata. È così che, fra dispute e ovazioni, entrano nel parco delle leggi.

I milioni di visoni invece sono stati “eseguiti” perché non li si poteva quarantenare. O, più assurdamente ancora, perché a frotte hanno contratto il morbo (passatogli da noi, fra l’altro) essendo già costretti al loro lockdown cucito ad hoc dall’industria delle pellicce.

I visoni non sono soggetti giuridici, sono stati quindi eliminati (e non “condannati a morte”).

Ecco quindi due clausole aggiuntive del mito della “nuda vita”: non solo vita allo stato biologico, non solo intesa come longevità, ma anche forte del motto: mors tua, vita mea.

E qui mi chiedo: perché invece non votare lo slogan: vita tua, vita mea?

Cioè, abbiamo visto tanti governi ricorrere a un certo tipo di estreme misure per prosciogliere i sintomi (contagi, febbri), ma non ne abbiamo ancora visto uno vietare pubblicamente la macellazione e l’assunzione di carne dando un colpetto anche all’eziologia delle cause: animali ammassati, dalla dieta monopolizzata, trattati ad antibiotici che contraggono e poi passano varie patologie.

Avete mai pensato a cos’hanno in comune con noialtri il pipistrello (l’eminenza grigia del Covid-19), il visone, il procione, lo zibetto e tutti gli altri probabili scagnozzi che se lo sono passato come il “ce l’hai” a scuola?

Sono tutti onnivori.

Il pipistrello poi (topo con le ali) è anche, come noi, cannibale.

Come dice Pollan nel suo bel libro Il dilemma dell’onnivoro, gli onnivori hanno una marcia in più che si rivela anche una rogna: l’imbarazzo della scelta. Donde le nozioni di bene e male (cibo buono-cattivo). È questo che l’uomo di oggi non ha ancora il coraggio di fare: scegliere, finché si mette da solo nell’angolo in una situazione senza possibilità di scelta.

La “scelta della non-scelta” kierkegaardiana diventa: la “non-scelta della scelta”, cioè: per non avere scelto, ora l’opzione del lockdown si fa stringente e claustrofobica.

L’unica manovra ufficiale svolta ultimamente dai governi verso l’aggressività umana contro gli animali è stata tutelarne alcune categorie (panda, tigre bengala, foca monaca, etc.). Questo significa che nei confronti degli animali l’uomo ragiona tutt’al più nell’ordine della specie, non dell’individuo. L’animale va salvato quando la sua specie è in via d’estinzione. Comincia a individuarlo solo quando si parla di mammiferi, possibilmente carini, salendo su su verso i pets per arrivare ovviamente a sé stesso. Quelle antiCovid sono misure per salvare l’animale che è in noi.

«Mi sono informato!», ho sentito dire da qualcuno, «Per fortuna i visoni si riproducono copiosamente e in fretta». Il colmo dello specismo, insomma.

pandemia visoni

Oltre che con L’interpretazione dei sogni di Freud, gli esperimenti di Planck degli elettroni e i dieci problemi matematici di Hilbert, il Novecento si è aperto con un libro letterariamente mediocre ma che ha voltato pagina su un aspetto cruciale.

Parlo de: La nube purpurea di M.P. Shiel (1901), non solo perché è uno dei primi intrecci post-apocalittici (una nube di gas tossico stermina l’umanità, muoiono tutti tranne il protagonista che si trovava in spedizione al polo nord), ma perché per la prima volta, in un prodotto culturale, l’umanità viene trattata come specie integrale, minacciata nella sua interezza a prescindere da razze e popoli, i quali anzi si mischiano simbolicamente nel panico generale.

Ha qualcosa di rivoluzionario, se pensato in pieno positivismo.

Innestandosi il tutto sulla tradizione individualista di stampo illuminista, borghese e liberale, ha lentamente generato i paradossi ben delineati dagli altri autori dei presenti contributi, sia quando Simone Coletto parla dell’incoerenza fra l’attuale individualismo sfrenato e la difesa dell’individuo monadico, sia nell’ambiguità dell’articolo di Alessandro Centolanza fra l’iniziale accusa all’individualismo e la voce isolata e a tratti anti-collettivista del matto che allerta sull’ora giunta del “salto della specie”, ambiguità che si nasconde appunto nei fatti e non nelle intenzioni dell’autore.

Ambiguità che sta tutta nel metodo 2.0 di massificare il popolo, come già diceva Günther Anders, cioè non più radunarlo tutto insieme sotto il balcone del Reichstag, ma frazionarlo nei miriadi di loculi domestici, posizionandolo davanti a TV, PC, Tablet, etc.

L’Italia poi soffre dell’equidistanza (anche geografica) fra Cina – laddove la forma sovrana consente spicci ed efficaci metodi di contingenza, che chi loda miopemente lo fa tralasciando gli “accessori” totalitaristi del pacchetto regalo – e l’estremo statunitense che può simulare indifferenza al lockdown, soprattutto poco fa col Presidente-Imprenditore, dato che la sanità non essendo pubblica ha meno diritti da tutelare in nome della frustra autodeterminazione.

L’Italia è invece epicena: in parte liberal liberista, ma con inserti di statalismo e un recente passato di sinistra attiva.

Ma scusa, che cazzo c’entra questo col virus e la filippica sugli animali?

C’entra eccome. Limitatamente ai concetti, il dibattito sull’individualismo viene inaugurato fra XVII e XVIII nel confronto fra Locke e Hume sulle nozioni di “individuo” e “persona”. Cosa caratterizza l’identità personale? Un nucleo indivisibile (donde in-dividuo) che, fatta la tara sugli attributi accidentali, permane come sostrato nell’uomo? Oppure a caratterizzare l’uomo come persona (non a caso: “maschera”) sono quei momenti in cui appunto si imbeve di tali implementi estetici, relazionali, dei suoi status e delle sue contingenze?

In questo presente, il dubbio si può riosservare non più al cannocchiale ma col microscopio, scrutando, come detto, la fauna che il corpo umano ospita all’interno di sé e che olisticamente lo connota a livello individuale.

Questa ridda conta anche… i virus.

Perciò, tanto per cominciare: i virus sono esseri viventi? I biologi dicono: boh. Sono parassiti incapaci di sopravvivere da soli, però hanno quel quid che noi conosciamo bene, l’istinto a sopravvivere e proliferare.

C’è allora un doppio filo che lo lega alla questione animale: la liceità di farlo secco senza farsi scrupoli («Ci mancherebbe, se no fa secco me!», ricordano i fan del mors tua, vita mea), e poi, legato a ciò, l’interrogativo sulla sofferenza animale: gli esseri privi di nervi soffrono? (molluschi, piante). No scusa, perché se si scoprisse che in qualche modo anche le piante soffrono (ma forse non c’è neanche bisogno di appurarlo), ecco che l’uomo sarebbe in toto un virus anche lui, perché nessuno (nemmeno il più vegano-jainista-crudista) potrebbe alimentarsi senza stroncare egoisticamente un’altra vita.

E dato che, come dice Derrida, il faut bien manger («bisogna pur mangiare», ma allo stesso tempo: «bisogna mangiare bene», nella doppia accezione francese), persino chi dovesse altruisticamente lasciarsi morire d’inedia, si darebbe in pasto alla morte. Alla fin fine, nel rito reciproco del sacrificio, un carnivoro da qualche parte si trova sempre.

Ecco perché mi fanno ridere gli esperimenti condotti a Tel Aviv sui megahertz che emetterebbero le piante quando vengono potate malamente o private dell’ossigeno per dimostrare che “soffrono”. Ne senso, avete davvero bisogno di fabbricare un emule del pianto per possedere la cognizione del dolore? Avete bisogno di sentir muggire mamma mucca per capire che perdere un figlio non è proprio il massimo della vita, che capiti al bovino o all’ultimo degli scarafaggi che ci parla in arabo e non lo capiremo mai? (come il leone di Wittgenstein).

Ecco perché, forte di una riflessione che devo a una docente dell’Università di Milano, comincio a diffidare anch’io dell’incensata empatia.

È l’empatia di cui si serve il carnefice per immedesimarsi e meglio torturare la vittima. È l’empatia che sfruttano, inconsapevolmente, gli amici degli animali per astenersi dal divorare il Vallespluga ma poi postare le foto del loro cane col cappello da babbo natale su WhatsApp. Che carino, sembra un umano. Quanta e dolce empatia in quei neuroni a specchio.

E allora ammetto: odio gli animali domestici e sono convinto che la morale sia una delle grandi conquiste dell’umanità solo quando, con Kant, si affranca dall’empatia (che è pur sempre il viso apollineo dell’imperativo ipotetico), e infine sì: voglio empatizzare col virus, bistrattato “essere” sub-cellulare, dal nome ispirato alla radice del termine “veleno”, ma che in un utopico mondo dei fini avrebbe pari dignità di vivere quanto il grillotalpa e la pecora.

(Per inciso: i popoli precolombiani non avevano le nostre sgradevoli malattie probabilmente perché non possedevano animali domestici. E, inciso su inciso, a causa di ciò sono stati sterminati a milioni dal nostro alito fetido. Chi è il veleno qui?)

L’unica sfiga del virus è: trovarsi sul crinale della “nuda vita”. È vita? Non è vita?

Fa bene Žižek a ridicolizzarci, noi cuspide dell’evoluzione, per essere stati messi ginocchioni dall’atomo biologico. È come il finale della lotta fra Merlino e Maga Magò. Il drago sconfitto dal batterio. Giuro che se mi ripiglio il Covid (sì, me lo sono già beccato), gli darò un nome.

San Giorgio.

pandemia maga magò

La sua postura sul crinale dell’essere mi sospinge a una serie di paralleli.

Quello con l’animalismo e l’ecologia l’ho già speso. Gli animali non innervati e le piante soffrono? E se no, è giusto o sbagliato papparsele?

Ma non finisce qui. Per me il virus Covid-19 è disinvoltamente collegabile al tema dell’aborto.

Il virus e il feto condividono non una ma due somiglianze: una condizione nella zona grigia fra essere e non-essere (goodbye Parmenide) e il fatto che entrambi non possono sopravvivere da soli, ma hanno bisogno del corpo-ospite.

Domandina: se ci fosse un caso in cui le lastre rivelassero che un feto oltre i 3 mesi di vita (quindi per la legge italiana già inammazzabile) avesse caratteristiche morfologiche tali per cui sicuramente al momento del parto ucciderebbe la madre (non ci son santi, manco col cesareo), come si procederebbe? Si salva la mamma o il bambino?

Qui il mors tua, vita mea non è così facile come nel caso del virus, nevvero?

Non dimentichiamo che l’aborto in Italia è stato sdoganato non solo per motivi ideologici, ma anche perché c’era un tale suburbio di aborti segreti che conveniva liberalizzarli. Forse per allentare il lockdown ci vogliono tanti di quegli assembramenti clandestini da far rivalutare le passeggiatine al parco rispetto alle adunate in cantina superinfestanti. Via che scherzo ne’?

Rimanendo sul crinale, il virus che esiste e non-esiste allo stesso tempo come il gatto di Schrödinger va in risonanza con i temi del suicidio e dell’eutanasia. Al di sotto di quale condizione psicofisica l’essere umano deve scendere per potersi chiedere: se questo è un uomo e se il valore della nuda-vita è ancora valido?

Non si capisce bene, dato che da una parte trattare il suicidio come atto illecito sembra rivalutare una vita degna a priori di essere vissuta nonostante impedimenti psico-sociali, mentre nel caso del testamento biologico sembra che una vita possa non essere più dignitosamente tale in caso di impedimenti somatici.

Balza così di nuovo all’occhio che quello della nuda vita è un limite inesistente, come nei paradossi eleatici del calvo e del mucchio di sabbia. Siamo simbionti in extra con le nostre condizioni etico-sociali e intus con il serraglio di microrganismi che ospitiamo.

Se Žižek allora descrive l’attuale situazione di sospetto e delazione di tutti contro tutti, in quanto ognuno è diventato un potenziale untore, come una “guerra civile”, aggiungiamo che il setting si sposa benissimo con la lotta intestina della febbre antivirale che è a tutti gli effetti, nel nostro microcosmo, l’analogo di una personalissima guerra civile. Questo perché i limiti della nostra civiltà (o meglio: civilismo) sono molto elastici.

Il valore della nuda vita è, in realtà, il valore del nostro grado di civiltà.

Il virus, in questa guerra civile, quando ci uccide non lo fa per deliberata intenzione, noi siamo la sua casa e il suo trampolino di lancio per infettare (cioè “abitare”) altri corpi, con stratagemmi da squatter (tossire, starnutire, etc.). Il fatto che nel frattempo noi muoriamo, come dice Diamond nel noto Armi, acciaio, malattie, è un incidente di percorso che i virus stessi si risparmierebbero volentieri, non fosse che anche loro ragionano in termini di specie.

Se esistesse un metodo medico per arginare questo “effetto collaterale” (sintomi compresi), non sarebbe male ospitare dentro di sé una bella colonia di virus, come in parte già facciamo.

E forse i virus stessi tentano dal canto loro di imboccare la stessa strada, motivo per cui (al di là dell’immunità di gregge) la forza del malessere si espande ma cala d’intensità, come nel caso storico della sifilide, passata da agente mortifero fulminante a patologia lenta e longeva (per quanto straziante).

E qui arriviamo al nostro caro vaccino.

Quando, fra pochissimo, si tratterà di discettare sulla sua obbligatorietà saranno cazzi.

Ad esempio non capisco – dico sinceramente, quindi spero di venir edotto – su come mai i vaccini basici (esavalente, trivalente, etc.) siano obbligatori in virtù dell’immunità di gregge, ottenibile solo se la stragrande maggioranza si adegua per compensare la piccola fetta di soggetti deboli (anziani, malati cronici) che rischia a sottoporvisi, quando poi però viene annunciato che il vaccino anti-Covid verrà riservato in primis alla fascia più bisognosa: anziani, malati etc.

Mi chiedo quindi: se quella fragile fetta può assumere questo nuovo vaccino, perché è obbligatorio che lo prendano tutti?

Poi c’è il grande tema che questo presunto vaccino (anche se dovremmo parlare al plurale, perché c’è più di un candidato, il che genera sottoproblemi di compatibilità, ma va be’), non è di quelli che suscita anticorpi ma inocula RNA messaggero nelle cellule, il che ammonticchia i paradossi: in nome della nuda vita siamo disposti a diventare OGM. Ecco un’altra clausola utile a circoscrivere (o smagliare) la nostra definizione di “nuda vita”, escludendo la nozione di vita “pura”, “originaria” (qualunque cosa voglia dire), andando verso quella forma di vita adulterata di cui si interroga la bioetica.

Com’è, come non è, quando si tratterà di prenderlo mi lagnerò meno e me lo sparerò endovena anch’io, perché l’obiezione di coscienza è decisamente più fallace dei pur aleatori ma certamente etico-pratici e benefici risvolti (e vi parla uno che non piglia la tachipirina neanche con 40 di febbre).

Una cosa, però: spero che a ingiungermelo non sarà un DPCM, ma quantomeno un decreto-legge.

pandemia virus

Ecco raggiunto il cuore del carciofo. Il tema politico.

Metto subito le mani avanti (ovviamente coi guanti anticontagio): anche qui zero lamentele. Bisogna pensarci due volte prima di criticare l’attuale classe dirigente, perché per capire quanto tiri una tempesta sarebbe meglio aver maneggiato un po’ il timone, per rendersi conto di quant’è difficile manovrarlo.

È anche vero, però, che il mal d’auto lo soffrono i passeggeri e non l’autista.

Ha voglia Agamben ad avvertire l’inquietante accentramento di poteri dell’esecutivo, che in passato è stato preludio di pagine nere della storia politica. Questa tendenza va pur sempre di pari passo col fatto che i cittadini si rivolgono sempre ad personam nei confronti del Premier per inquadrare un bersaglio polemico, invogliando loro per primi un’interpretazione monarchica della figura presidenziale, come se la disinvoltura dell’enunciazione decisionale fosse la medesima nei casi di figure come Conte, Trump e Xi Jinping, ignorando così l’assetto completamente differente del loro agire nei diversi sistemi politici.

Detto questo (per chi non si è già addormentato) un’ultima girandola di dubbi circa le condizioni pratiche sull’attuabilità della norma:

– la quarantena a casa presuppone che.. si abbia una casa. I senzatetto che fanno?

– se si trovano obtorto collo nell’illecito come si agisce? Li si ingabbia? Spostiamo così il problema: le carceri non sono assembramenti coatti?

– se la disobbedienza al lockdown implica una sanzione pecuniaria, cosa significa? Che i ricchi possono non fare la quarantena? (se si paga la multa entro tot giorni, ammonta credo a 280€, provate a calcolare gli introiti giornalieri di un dirigente o di un “pezzo grosso” e poi pensate se non gli convenga una diuturna infrazione)

– se invece scatta il penale (enfatizziamo all’estremo il nostro esperimento mentale), tipo: nessuno rispetta la quarantena, che si fa? Detenzioni di massa con rischio di superaffollamenti carcerari? Sparare sulla folla? Così per salvare la nuda vita, via! La stronchiamo.

Sono tutte ovviamente indebite esagerazioni, utili solo a resuscitare il bambino col riflusso d’acqua sporca.

E dunque, a costo di dire stupidaggini (ma almeno sperare di suscitare qualche reazione) tentiamo un po’ di pars costruens, quella gravemente manchevole in Agamben e altri.

Stando al bollettino dell’ISS aggiornato al 7 novembre 2020, la panoramica dei casi è

pandemia ISS

Fino ai 40 anni siamo negli indici di letalità delle normali influenze annuali, nelle due fasce successive i numeri cominciano ad aggravarsi, ma forse non tanto da giustificare un contingentamento. Dai 60 anni in poi i numeri schizzano, spiegando l’attuale collasso del sistema.

Ovviamente non bisogna riflettere solo sulla mortalità ma anche sul tasso di terapie intensive, che minacciano il meltdown del sistema sanitario. Le InfoData aggiornate a oggi (21 novembre) rivelano che quasi tutte le regioni superano la soglia di sicurezza del 30% dei posti letto, molte vanno oltre il 50%, alcune si spingono fino almeno all’80%.

Da qui la cascata di proposte e controproposte su lockdown per fascia d’età o, com’è passato stupidamente per la testa anche al sottoscritto, l’introduzione di un meccanismo ibrido fra sanità pubblica e modello statunitense in cui, a fronte di un’unanime quarantena fiduciaria per non ledere il libero arbitrio, a coloro che ricoverati venissero diagnosticati i sintomi del SARS-CoV-2, solo in quel caso scatterebbe un ticket a pagamento, magari modulabile per fasce d’età etc.

Qualcuno inveirebbe contro la discriminazione, qualcun altro ricorderebbe che nel caso della lista d’attesa per i malati terminali di cancro (che fra parentesi stanno venendo adesso falcidiati dalla precedenza al Coronavirus) tale triste logica è già invalsa da tempo, ma poi ribatterebbero altri ancora a ricordare che più che dei posti letto la penuria riguarda il personale anestesista (e hanno tutta la mia comprensione, mia madre era “gasista” anche lei prima di andare in pensione).

Insomma, abbiamo capito l’antifona: tutta una sarabanda di punti di vista.

Proprio questo corridoio di cristalli mi ha a lungamente frenato da mettere su carta le mie labili opinioni. Ma il succo è proprio che quest’arena di Sic et non – che stiamo cercando di rinscenare su piccola scala nello spazio editoriale di questa rivista – dovrebbe coagulare soprattutto in seno al legislativo, il potere che (e qui Agamben non ha tutti i torti) ultimamente si è visto più accantonato.

A caldo della sorpresa della prima ondata, lo stato d’eccezione era comprensibile. Ciò che spinge a temerne la messa a regime (il che sarebbe lo specchio fedele del concetto stesso di postmodernismo: un insieme che fa dell’eccezione l’unica regola imperante), è la mancata occasione di rinvigorire il lavoro democratico dell’officina legislativa del Paese nella “pausa” fra la prima e la seconda ondata.

Ecco perché alcuni gridano all’anticostituzionalità della situazione.

Articolo 32 della Costituzione Italiana:

«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

Il DPCM è a tutti gli effetti una «disposizione di legge»? Bah.

Poco importerebbe, se si fosse recuperato il tempo perduto dando una forma più legalista ai suoi interventi, in modo da sciogliere taluni forti dubbi come: si può imporre la mascherina?

Certo, su questo smettiamola di fare gli spitinfi: quanti oggigiorno parlano di sopruso solo perché vige il divieto di circolare nudi per strada? Di fatto la legge impone già di vestire determinati indumenti. Peccato, controbatte qualcun’altro, che la mascherina non sia un capo d’abbigliamento, ma precisamente un «trattamento sanitario» che solo una legge a tutti gli effetti potrebbe imporre.

Lo stesso dicasi per la manovra d’avvicinamento al secondo lockdown. Se le Camere, nella pausa estiva, avessero fissato dei paletti (es. dai 30mila casi in su scatta la quarantena automatica), non si sarebbe vissuto il cinema delle conferme e smentite e della lenta frana delle attività divise in strati che ha messo tutti nella più assoluta perplessità.

Ci sono altri due problemi. Il primo è che i DPCM possono intervenire a gamba tesa solo su settori specifici di frattura. Perciò si sottolinea allo sfinimento l’aspetto medico-sanitario dell’emergenza, perché mettere sullo stesso piano il tema della nuda vita e quello della vita socio-politica, lavorativa etc. inficerebbe il DPCM stesso dal momento che si capirebbe che esso non è intervenuto chirurgicamente su un circoscritto punto debole (per quanto abnorme).

Infine, più grave e meno discusso di tutti, quest’ultimo aspetto.

Fintanto che non viene formalizzano nell’alveo pienamente legale, il DPCM conserva la fastidiosa sfuggevolezza a venire abrogato da un referendum. Infatti un grossolano ma effettivo rasoio occamiano sarebbe, in questo momento, proporre il seguente referendum: preferiamo il lockdown oppure fare come la Svezia ma, come detto sopra, mettere ticket a pagamento per i pazienti ricoverati con sintomi da Covid-19? Cittadini italiani, a voi il voto.

Per intraprendere questa pantomima, e scoprire che l’80% degli italiani voterebbe per il lockdown e zittire così non dico le critiche, ma quantomeno il sottobosco degli pseudo-problemi e delle ipocrisie, sarebbe necessario che il DPCM, sottoforma di decreto-legge o sotto altra veste cristallizzata, fosse quantomento abrogabile.

Certo, per dare un colpo anche alla botte, aggiungo che ha tanto sbagliato il governo a non fare questa operazione di trasparenza, chiamando a raccolta il legislativo durante gli scorsi mesi, tanto quanto ha sbagliato il popolo a non servirsi della nemesi pubblica del DPCM, ossia il Disegno di legge di iniziativa popolare, che può essere evocato da 50mila primi firmatari e può proporre dal basso tutti questi spunti e, si spera, di ben più lungimiranti ancora.

Quando diciamo che quindi il governo in vacanza è rimasto pancia all’aria, guardiamo la trave nel nostro occhietto e ricordiamoci che quando Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace ma agli inizi promessa del pianoforte, lesse un articolo sulla carenza di medici di frontiera per aiuti nel continente africano, ha mollato la musica e gli agi di una vita senza turbolenze per iscriversi a medicina pur di andare a operare di appendicite i tribali dell’Africa nera.

pandemia Albert Schweitzer

Come Incontri ravvicinati del terzo tipo, da cui siamo partiti, rompe con la tradizione dei film sugli alieni che virano in tragedia proponendo un finale ottimista, faccio scorrere anch’io a mo’ di titoli di coda una carrellata rinfrancante sugli aspetti positivi del Coronavirus.

– Un rinfocolato interesse per la cosa pubblica. Lagnoso, polemico e qualunquista ma pur sempre meglio dell’indifferenza civile verso cui stavamo veleggiando. Poiché il virus contagia tutti, tutti si sentono giustamente in diritto di parlarne. Diamo aria alla bocca, finché ce n’è nei polmoni.

– Strettamente collegato a ciò abbiamo: tutti si sentono parimenti liberi di dir stronzate. Il che è meno peggio di quanto sembri. C’è un comune denominatore nell’arcobaleno di pareri dilagante, cioè che tutti sono convinti di saperla più lunga degli altri, che gli altri sono stupidi, o perché proni a uniformarsi o perché incoscienti nello sgarrare. Anche questo aspetto non sembra così encomiabile, ma è sempre meglio che sentirsi schiacciati da un mondo incomprensibile, fatto di entità non più immanenti e animizzate, come la borsa, le leggi di mercato, il direttorio delle banche, su cui è persino difficile dir stronzate tanti pochi sono i punti di riferimento.

– Senza soluzione di continuità: per tutti coloro che biasimavano il capitalismo, finalmente un fenomeno che (per quanto indotto dall’assetto global-industriale dei nostri interscambi) ha soverchiato l’aura dell’economia mandando a ramengo il bilancio di interi Stati pur di difendere (a ragione o a torto, sinceramente o ipocritamente qui non importa) i propri cittadini.

– Continuando l’effetto domino: aria più pulita, interruzione momentanea (si spera di impararne qualcosa) del riscaldamento globale. Come nota William Ruddiman in L’aratro, la peste, il petrolio, dal momento che l’uomo ha iniziato a liberare gas serra ben prima della rivoluzione industriale, sin quando si è impadronito dell’agricoltura liberando dai suoli carbonio come fossero spugne, è immancabile che in ogni deflessione pestilenziale della storia (peste nera, tifo, spagnola etc.) i dati di emissione di metano e co2 abbiano subito un brusco rallentamento.

– Infine, collegato a tutti questi collegamenti, la deduzione che, appunto: tutto è interconnesso. Finalente (forse) ce ne siamo accorti. Come diceva Albert Howard, agronomo inglese, quasi un secolo fa, bisogna «trattare tutto il problema della salute del suolo, delle piante, degli animali e dell’uomo come un unico grande argomento».

Mi scuseranno quindi i pochi lettori che saranno arrivati in fondo a questo articolo se ho apparentemente divagato randomicamente rispetto al tema di partenza. Volevo dare un saggio di questa rete che ci avvolge, e che avvolgeva i miei dubbi circa il mettermi a scrivere sapendo che questo vaso di Pandora ha un aspetto da matrioska.

È buffo decurtare con una quarantena il più-che-vita in nome della nuda vita quando imperterrite le industrie agricole (con il tacito assenso dei governi) spruzzano diserbanti figli della fissazione dell’azoto i quali fanno l’esatto opposto, condizionando la nostra salute in nome di un effimero momento di gastronomico piacere.

Il fatto è che, tanto per buttare in padella l’ultima specifica del concetto di “nuda vita”, il mito della longevità si sposa con lo spauracchio della morte lampo. L’ultimo attimo di vita viene ingenuamente sopravvalutato rispetto a tutti i precedenti, dimentichi del: si muore ogni giorno, proprio perché una morte improvvisa per crisi respiratoria è considerata peggiore di una lenta agonia per assunzione di grassi saturi e carbon fossile formato BigMac.

Provate a vedere quanto è impegnativo uscire dalla grande macchina: non fare alcuna azione che rientri negli ingranaggi suddetti, cercarsi o coltivarsi i propri cibi, fare le scelte giuste, etc. Sin dalle età arcaiche abbiamo faticosamente strappato al demiurgo quel tempo extra dall’onere della sopravvivenza che abbiamo chiamato libertà, per poi oggi doverlo spendere tutto a difenderla.

Almeno adesso stiamo intuendo un’altra accezione del ricorrente slogan «There is No Planet B», non solo che se spremiamo questa terra fino al midollo non ce ne sarà un’altra su cui traslocare (nonostante le criptiche allusioni della fantascienza, Interstellar and co.), ma che il nostro attuale “Plan B” è proprio il lockdown, cioè un non-Planet, un non-luogo quasi beckettiano nel quale siamo noi a venire attesi.

Il filosofo Lévinas diceva: «L’uomo si situa nel mondo come se fosse venuto verso di esso partendo da una sua proprietà, da una casa nella quale può, in ogni istante, ritrarsi». Ma se questa sua proprietà non esiste, allora il suo luogo originario è: questo stesso ritrarsi.

In ciò, la condizione dell’uomo finisce per coincidere perfettamente con quella del virus. Anche il virus demolisce dall’interno la sua casa sempre convinto di avere un Pianeta B da infettare. Di fatto il virus vive dentro di noi come in quarantena.

L’illusione di salvarci rompendo il guscio dall’interno constata oggi che oltre quel problema si apre soltanto una nuova scala di grandezza problematica.

Vediamo, come scrisse Blake, il mondo in un granello di sabbia.

Siamo quindi la matrioska di noi stessi.

di Federico Filippo Fagotto

pandemia matrioska

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!