Agitatevi, organizzatevi, studiate!

Contributo a una riflessione sulle manifestazioni degli ultimi mesi

Continuiamo il ciclo di interventi sull’attualità, iniziato venerdì con l’articolo di Alessandro Centolanza: La voce del matto.

Rinnoviamo anche in questo caso l’invito ai lettori e agli autori che ci seguono, qualora fossero interessati, ad arricchire il discorso inviandoci articoli e contributi.

 

La società in cui viviamo è in crisi. Crisi sanitaria, economica, politica, culturale. In sintesi crisi organica, che riguarda tutti gli aspetti del vivere consociato. È così da anni, anzi, da decenni. La fine, negli anni Settanta, dei Gloriosi Trenta, ammesso che siano mai esistiti, ha aperto uno squarcio che non si è ancora ricomposto. Gramsci scriveva che è in questi periodi, in cui il vecchio muore e il nuovo tarda a nascere, che si situano i pericoli di colpi di mano, di “uomini provvidenziali” che prendono il potere e dirigono con pugno di ferro la transizione. È senz’altro vero, ma non basta. La crisi può essere governata, il suo sviluppo può essere indirizzato verso cambiamenti molecolari, che si avvicendano giorno dopo giorno, senza strappi sensibili. È ciò che è avvenuto negli ultimi decenni. Il passaggio dalla liberal-democrazia a quella che alcuni autori chiamano post-democrazia[1], proprio per indicare il carattere transitorio tra la liberal-democrazia “classica” e un autoritarismo di cui si intravedono i prodromi ma che non è ancora giunto a maturazione, lo dimostra.

Questo non significa che siano del tutto assenti accelerazioni, anche prepotenti. La pandemia di quest’anno ne è un esempio. Da tempo si agitavano sotto la variopinta scorza dei rapporti sociali contraddizioni insanabili. Tra salute e lavoro, per esempio; tra pubblico e privato; tra interesse individuale e collettivo; tra capitale e ambiente… La pandemia ha portato tutto questo, che già di per sé costituiva un momento dello sviluppo della crisi permanente in cui siamo immersi, a una maturazione ulteriore e ancora più violenta.

Tutto sembra saltato intorno a noi. Il sistema sanitario mostra tutte le sue deficienze, le catene di comando si spezzano, gli interessi dei capitali balzano prepotentemente sulla scena politica, senza più infingimenti o mediazioni, schiacciando come un Moloch tutto ciò che si interpone sul loro cammino: salute, vita, diritti. È la debacle della società liberale.

Ma illudersi che una pandemia riesca dove hanno fallito i rivoluzionari di un tempo è quanto meno puerile. Ogni modo di produzione trova in sé le forze per superare le proprie crisi. In questi mesi, mentre come si usa dire “l’economia di tutto il mondo sprofondava”, ossia milioni di persone venivano impoverite e le loro condizioni di vita peggioravano drasticamente, alcuni miliardari hanno aumentato i loro patrimoni.

Le crisi, di norma, funzionano così: colpiscono la maggioranza della popolazione, ma nel frattempo creano opportunità di arricchimento ulteriori per chi già era in una situazione di vantaggio. In altre parole, acuiscono le disuguaglianze sociali. Ogni illusione, reazionaria perché interclassista, che «siamo tutti sulla stessa barca» (quanto l’abbiamo sentito ripetere in questi mesi?) evapora di fronte alla dura realtà dei fatti: c’è chi la barca l’ha comprata, anzi magari anche più di una, e chi invece è affogato.

A proposito di mare. Il Grande Timoniere, cioè Mao Tse Tung[2], ebbe però a dire una frase che calza a pennello. Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente: Il quadro presentato poc’anzi sembrerebbe confermare quest’affermazione. Purtroppo non è così.

La tremenda sconfitta del movimento dei lavoratori nel secolo scorso ha infatti lasciato la classe sociale che più avrebbe da approfittare di questa situazione di crisi, il proletariato, orfano di una rappresentanza politica degna di questo nome. Tra sedicenti comunisti divenuti socialdemocratici prima, social-liberisti poi e infine liberisti a tutto tondo (l’attuale Partito Democratico per non far nomi), altri sedicenti comunisti che procedono come gli indovini danteschi, con lo sguardo rivolto al “glorioso passato” dell’URSS (i marxisti-leninisti, come amano definirsi), gli eredi del movimento antagonista degli anni Settanta, ormai in crisi di identità e di progetto dagli anni Settanta, e infine quelli un po’ più seri sul piano teorico, che mai furono stalinisti e sempre anzi avversarono la burocratizzazione in salsa sovietica, ma che sono disorganizzati e frammentati quasi a confermare lo stereotipo che accompagna il trotzkismo, il movimento dei lavoratori si trova in una situazione disperata e disperante.

manifestazioni

Il risultato è che, per limitarci al caso italiano, tra scelte governative assolutamente inadeguate e contraddittorie, mobilitazioni di commercianti e prese di posizione di politicanti più o meno imbarazzanti, chi oggi è totalmente assente dalla scena politica è proprio il proletariato, sono i lavoratori. Cioè i più colpiti dalla crisi. Quelli che, normalmente, cioè in periodi “di grassa”, non riescono a mettere da parte un patrimonio abbastanza cospicuo da far fronte a un qualsiasi rovescio della sorte. Quelli che, in decenni di smantellamento dei diritti, di precarizzazione, di riduzione delle tutele, devono fare oggi appello a un welfare dimidiato e insufficiente, a una sanità che non cura, a degli ammortizzatori sociali che non ammortizzano, a una situazione di insicurezza esistenziale che li (ci!) condanna a vagabondare per tutta la vita tra un lavoretto e la disoccupazione.

Proprio questo soggetto sociale, che tanto avrebbe da guadagnare da una rottura degli attuali rapporti di produzione e dalla costruzione di una società alternativa, quando si mobilita, si mobilita su rivendicazioni iper-parziali (solamente la scuola, solamente il mondo dello spettacolo, solamente i trasporti) oppure al traino della piccola-borghesia.

«Se ci chiudi ci paghi» si è sentito dire durante le proteste delle ultime settimane. Ma chi paga? Lo Stato, ossia la collettività, ossia tutti noi? Oppure i padroni che nei decenni scorsi (e tutt’ora, proprio durante questa pandemia) hanno fatto miliardi di profitti?

E chi viene pagato? I lavoratori che hanno perso il posto di lavoro e sono sul lastrico o i padroni che hanno dichiarato bancarotta? E se sono questi ultimi a venir pagati, la domanda sorge spontanea: ma perché se i profitti sono sempre privati le perdite sono sempre socializzate? Ma poi, il rischio d’impresa tanto decantato dall’ideologia liberale vale solo quando c’è da guadagnare e non quando c’è da perdere?

Nelle parole d’ordine che abbiamo sentito in queste manifestazioni c’è tutta la contraddittorietà della borghesia più o mono piccola. Da un lato viene auspicato l’intervento della società e ci si rende conto che l’individuo non sopravvive se rimane solo, isolato, monadico. Dall’altro però si rivendica l’individualismo più sfrenato, la libertà di non render conto a niente e nessuno, il guadagno personale come movente universale dell’azione. Le due cose non stanno insieme, è facile comprenderlo.

La rabbia però cova sotto le ceneri.

Nei giorni di scontro più acuto non c’è stato giornale, radiogiornale, trasmissione d’attualità che non abbia sentito l’esigenza di occuparsi in modo insistente delle proteste. Il refrain, (originalissimo bisogna dire!) era: «Protestare è legittimo ma bisogna evitare le violenze». Con la variante, più perbenista, del «Bisogna separare i violenti dai legittimi manifestanti». Dopo la crusca dal grano, è opportuno separare i violenti dai manifestanti…

Ora, non siamo con chi ha esultato senza indugi di fronte a queste proteste. Il vandalismo fine a se stesso è, senza possibilità di replica, idiota. Ma la realtà è molto complessa e diversificata: le proteste a Napoli non sono le stesse di Roma, di Milano o di Torino.

E senza dubbio il moralismo e la paura blu che i giornali dimostrano è stomachevole. Quando non sono in malafede, pare quasi che questi signori non abbiano mai visto un movimento di massa. Che per natura è composito, differenziato, contraddittorio. Perché ogni movimento, dalle jaquerie alle rivoluzioni, è fatto di un amalgama quasi indistinguibile di settori più coscienti, consapevoli dei propri obiettivi e organizzati in vista del loro perseguimento, e settori invece arretrati, confusi, che partecipano in maniera gregaria, spesso al traino.

Settori che se la direzione del movimento non è in grado di renderli coscienti, di esprimere con parole d’ordine chiare, precise, i loro bisogni e le loro necessità, di norma dopo la grande esplosione tornano a uno stato di passività (e in questo caso tutto si spegne e l’“ordine” e la “normalità” tornano a regnare sovrani).

Ma che, se viceversa vengono fatti maturare, progrediscono e permettono un avanzamento complessivo del movimento di protesta, il quale da mero movimento, appunto, di protesta può diventare movimento di trasformazione. E in questo caso, anche se non si ha un superamento totale della frammentazione e delle differenze interne (resteranno cioè sempre dei settori più arretrati e disorganizzati di altri), si può mettere in moto un processo di autonomizzazione dei subalterni, di costruzione del gramsciano «filosofia originale delle masse popolari»[3], che significa anche organizzazione autonoma e consapevole rispetto a quella delle classi dominanti, preludio di un periodo rivoluzionario. Ciò a cui, chiunque sia cosciente che questo mondo va cambiato, deve mirare.

Si tratta in ogni caso di un percorso, lungo, faticoso, assolutamente non lineare. Non si può pensare che d’emblée i lavoratori, come massa indistinta, composta da persone dalle più disparate provenienze, diventino consapevoli dei loro interessi particolari, assolutamente critici nei confronti del modo di produzione capitalistico che li sfrutta, li aliena, ecc., e si muovano come un sol uomo verso una società radicalmente alternativa. Viceversa, vorrebbe dire, banalmente, non fare i conti con la potenza dell’egemonia dominante, la quale esercita una forza coattiva inconsapevole su tutti, comprese le persone più critiche. E eserciterà i propri influssi ben oltre un’eventuale presa del potere da parte della classe lavoratrice e l’inizio della costruzione di una società diversa (cosa quest’ultima che oggi per altro non è nemmeno all’ordine del giorno).

Ma proprio per questo è tanto più necessario guardare con interesse agli embrioni di rifiuto dell’esistente che si sono visti nelle scorse settimane. Non per plaudire in modo acritico, ma perché questi embrioni possono evolvere. Perché possono sedimentare organizzazione, consapevolezza che lottare si può e si deve. Per riprendere la famosa citazione di Gramsci:

Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza. Studiate, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza.

Note

[1] Vedi M. Nobile, Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari Editore, Grotte di Castro 2012

[2] Verso il quale – precisazione necessaria a scanso di equivoci – chi scrive non guarda certo come riferimento politico.

[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, Q11, §13, p. 1396.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.