Rosadeiventi

Un “diario di bordo sonoro” per catturare il canto del Mediterraneo contemporaneo

Almeria, Spagna. Agosto 2015. Scortandoci fino all’uscita del residence dove vive per sei mesi all’anno, Joseph Salvador – milionario, malato di cancro, avido consumatore di cannabis a scopo terapeutico, e contestualmente sprovvisto della dentiera che il sonno e la fretta gli hanno fatto dimenticare sul comodino – sovrasta il cigolio del cancelletto e, sdentatamente, affonda: “So, what about the wind? Or, was it just an excuse to come here?”, regalandoci suo malgrado un felicissimo explicit che, capovolte come siamo, usiamo adesso per confondervi, e confondendovi iniziare.

Qual è la storia? Chi parla a chi? Che cosa c’entra il vento? E perché dovrebbe essere una scusa? Perché, anzi, uno dovrebbe aver bisogno di una scusa per fare qualcosa? Per fare che?

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Rosadeiventi in 344 parole

Le presentazioni, innanzitutto: rosadeiventi è un progetto di narrazione sonora sui venti del Mediterraneo, sostenuto dal premio Fuorirotta (2015) e ospite a diversi festival di viaggio, giornalismo e cinema[1], animato da una domanda bellissima e inguaiata: è possibile catturare la voce del vento? E così, tra il 2015 e il 2016, noi (Alessandra, scrittrice, e Alice, compositrice) abbiamo visitato alcune tra le più importanti città di porto della sponda occidentale per raccogliere storie e suoni sui venti.

Il risultato visibile, ancorché parziale, è quello che ci piace chiamare “diario di bordo sonoro”: una serie di podcast che raccontano il viaggio tappa per tappa, da Palermo a Trieste, passando per Marsiglia, Gibilterra, Tangeri e così via. La meta di là da venire, invece, è un disco: un LP che, quattro venti sul lato A e quattro sul lato B, ospiterà otto tracce-omaggio, una per ciascuno dei favolosi dèi che ancora oggi eccitano e fiaccano i pensieri di questa parte di mondo. Ogni vento protagonista e aedo. Ogni vento con la propria identità linguistica e sonora, e il proprio patrimonio di storie da raccontare. E poi?

Poi rosadeiventi diventerà una performance, anzi, un vero e proprio tour in luoghi impossibili: cantieri, qanāt, piattaforme petrolifere, magazzini e musei del vento, fino a giungere a lei, la Torre dei Venti di Atene, luogo-simbolo del Mediterraneo classico e già contemporaneo, sepolta com’è tra negozi di alimentari e airbnb gestiti da tedeschi.

L’idea è quella di costruire una narrazione alternativa, o meglio contemporanea, di questo piccolo, grande mare che presto sarà deserto e, ovviamente, delle sue molte e varie genti. Non una messa in opera dei miti e delle leggende sul Mediterraneo per com’era, ma un racconto in divenire del Mediterraneo per com’è adesso, nella sua realtà minima, singolare, attuale. Facile, no?

Più facile, a dire il vero, sarebbe chiudere il vento in una botte.

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Mediterraneo non è Medioevo

Chiunque abbia l’ambizione di raccontare il Mediterraneo in modo nuovo si trova di fronte un testo enormemente scritto, un discorso stradetto, tanto all’indietro – nel segno di quello “storicismo sentimentale” che iconizza ogni ulivo e di ogni vedova fa una prefica – quanto in avanti, o almeno al presente: per la cronaca, il Mediterraneo è, sempre e comunque, il mare degli sbarchi e dei naufragi, e in generale di quell’“antimondo” di commercio d’armi e di esseri umani, criptodittature e crimini ambientali, che costituisce il rovescio della civile Mitteleuropa. Non si potrebbe dirlo meglio di quanto faccia Predrag Matvejević, studioso, navigatore e psicogeografo del Mediterraneo, che riassume così lo stato dell’arte: “Il cosiddetto discorso poetizzante (sole, mare, isole e altre cose simili) si consuma perlopiù a livello di kitsch. Fra questi due discorsi (il pedagogico e il kitsch) resta uno spazio molto ristretto: il pericolo di deviare nell’una o nell’altra direzione, in una specie di pastiche sul Mediterraneo, non è facilmente evitabile”[2]. Insomma, guardare il Mediterraneo con innocenza è difficile, soprattutto, forse, per chi lo abita.

Se poi, oltre a parlare del Mediterraneo in modo nuovo, uno volesse anche parlare del nuovo Mediterraneo, del Mediterraneo contemporaneo, il discorso si complicherebbe ulteriormente: d’accordo le polene, i gerghi, gli ex voto, i santi… ma le ruote panoramiche? I traghetti? Le case occupate? Gli yacht e i loro nomi indecenti? I naturisti? I surfisti!, gli insospettabili surfisti del Mediterraneo…

Sì, ma come? Come si fa a raccontare qualcosa che è già stato raccontato? Cambiando punto di vista, si direbbe. E se il punto di vista fosse qualcosa di invisibile? Ancora meglio, ancora meglio…

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Tra epiteti e pettegolezzi

Scegliere il vento come punto di vista per raccontare il Mediterraneo ha una ragione in apparenza quasi banale: Bora, Scirocco, Maestrale e tutti gli altri appartengono a tutti gli effetti al pantheon del Mediterraneo. Più in generale, il vento sembra possedere un’intrinseca qualità mitica, divina, conseguenza immediata della sua invisibilità: proprio come Dio, infatti, il vento non si vede ma produce effetti. E allora ruah, il soffio vitale con cui Yahweh comincia la creazione, come l’arabo ruh (“respiro”, “spirito”); e ancora il latino ventus, dalla radice sanscrita *vā, azione che diffonde [v] con continuità [ā] (dunque “soffiare, essere diffuso”, da cui, al negativo, nirvana, o “estinzione del soffio vitale”), o il greco ánemos, che tra vento e anima salda una parentela strettissima. Insomma, il vento sembrerebbe essere il mito del Mediterraneo, il suo grande dio occulto.

Se fosse tutto qui, però, non sarebbe sufficiente. Il dio che cerchiamo non è un reperto: dev’essere vivo, qui e adesso, per le strade e nei discorsi degli uomini. E in effetti, al di là degli innumerevoli modi di dire tutt’ora in uso (“fiutare il vento”, “buttare al vento”, “darsi le arie” e così via), il vento è una presenza costante della nostra vita – anche se non sempre, propriamente, di quella quotidiana. Qualche esempio? A Marsiglia, il Maestrale è obnúbilamenti, attenuante riconosciuta in caso di crimini d’impulso. A Palermo, lo Scirocco è condonabandíti, perché nasconde nelle sue stanze i mafiosi latitanti. A Trieste, la Bora è sciogliorméggi, forza inarrestabile che libera dai lacci l’Ursus, la vecchia gru galleggiante ormeggiata al porto, e la sospinge al largo. Come se un gigante stanco scampasse al solito circo. Ovviamente: gli epiteti sono nostri, le storie sono vere.

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Immaginare senza immagini

La seconda ragione è fisica: il vento – l’aria – è veicolo del suono. Ragione che è anche filosofica: per il fatto stesso di essere invisibile, il vento – il suono – è portatore di immagini.

Ecco una cosa per la quale abbiamo lottato: rosadeiventi è un progetto sonoro. Questo significa che, a parte poche, specifiche e assai significative immagini, in giro non troverete fotografie né video, ma suoni, solo suoni: i podcast, per adesso; il disco, quando sarà. Ed è una scelta radicale, dettata dalla convinzione che, come ci piace dire, si immagini meglio senza immagini – o meglio, senza le immagini degli altri. Un esempio al contrario è il cinema.

Quando guardiamo un film, in realtà facciamo una cosa molto semplice: noi aderiamo all’immaginario dell’artista. Non siamo liberi di immaginare: ci sediamo e guardiamo le immagini che il regista ha composto per noi. Quando ascoltiamo qualcosa, invece, il nostro corpo è libero (possiamo muoverci, allontanarci, fare altro), come libera è la nostra mente, che infatti ha la possibilità – anzi, la necessità – di completare quello che ascolta con immagini proprie: un ambiente, un personaggio, un’azione. Il suono pretende non soltanto la nostra partecipazione, ma anche la nostra collaborazione. Il suono salva la nostra capacità immaginativa. Il suono è la cosa più vicina alla letteratura[3].

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Anemofilìa, o “delle belle scuse”

Il vento perché è un mito vivente, un nume quotidiano. Il vento perché è veicolo del suono. Il vento perché è una bellissima occasione creativa. Perché, in quanto “grande assente”, solletica l’immaginazione. Perché “qual è il tuo rapporto col vento?” è una domanda abbastanza assurda da incoraggiare una risposta, e insieme abbastanza innocua da farsi dimenticare. Il vento e la sua forza centripeta, perché parlare di vento è stato il pretesto per iniziare una conversazione che ha portato le persone a raccontarci la loro vita, il loro rapporto col tempo, con la malattia, con la solitudine.

Dopodiché, semplicemente, siamo anemófile. Ci piace il vento, è la nostra perversione. Ci piace farci spettinare, rapire, disorientare dai venti destri e sinistri, dominanti e irrilevanti, catabatici, bavosi… Ci piace e basta. Non è forse questa una buona ragione? Anzi, non è la migliore delle ragioni possibili? In fondo, non è nella natura umana cercare scuse credibili, perfino belle, semplicemente per fare le cose che ci piace fare?

Joseph Salvador, l’uomo della domanda sdentata, è il protagonista della puntata di Almeria: quasi mezz’ora di ascolto in cui il vento non viene neanche mai nominato. E la ragione la diciamo, neanche troppo nascostamente, nel breve esergo che introduce il podcast: “Dove l’uomo con la gola inferma parla per ore della sua vita intera: di denaro, solitudine, ulivi secolari, del perché amare le parole, del perché preferir loro le mani. Dove il vento è Levante, ma si fa da parte, per rivelare, finalmente, che vento è un altro modo di dire: alma, anima”.

Maggiori informazioni, tutte le illustrazioni e i podcast in ordine di crescente maestria: http://www.progettorosadeiventi.com

Per tenerci d’occhio:

instagram @rosadeiventi.progetto

facebook @rosadeiventi2016

soundcloud @rosadeiventi #1 [parte prima]; @rosadeiventi [parte seconda]

Altre opere firmate da Ambra Gurrieri

instagram @ambra_gurrieri

Note

[1] Premio residenza artistica B.R.A.C.T. (2017); Internazionale Festival (2017, 2019); Detour Film Festival (2017); Trento Film Festival (2017); Immagimondo. Festival di viaggi, luoghi e culture (2017). (È evidente che nessuno ha capito esattamente che cosa facciamo).

[2] Peraltro, se c’è qualcuno che è riuscito a evitare il pasticcio è proprio lui: P. Matvejević, Breviario Mediterraneo, Garzanti, Milano 1991.

[3] A proposito: nel 2017 abbiamo tenuto un’intera sala del Multiastra di Padova al buio per ben cinque minuti. Cinque minuti di fronte a uno schermo nero, semplicemente, ad ascoltare.

di Alessandra Cappelletti

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