La Mite di Dostoevskij

Dalle mani di uno scrittore irrequieto, la Rusalka che si piega ma non si spezza

Cosa rende ancora peggiore la tragedia di una morte prematura, del suicidio inaspettato di una giovane sposa che si getta dalla finestra della sua casa? La mitezza. La tranquilla, quasi dimessa accettazione della morte, quel piccolo passo nel vuoto che riporta alla terra, letteralmente, che riconduce la sofferenza al suolo, là dove tutto ha origine.

Attorno a questa morte incospicua, a questo “suicidio mite” come Dostoevskji stesso lo definì, è imperniato Krotkaja, La mite. Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto a San Pietroburgo, il racconto altro non è che un attonito, confuso flusso di coscienza del marito della morta che ne veglia il corpo appena dopo l’accaduto. La Krotkaja è una figura del tutto particolare, e unica nella sua tragicità: non ha la passione bruciante di Medea, né la disperazione folle di Ofelia, non è una donna in grado di ammaliare generazioni di lettori con il suo eloquio o il suo ardore; ella non parla quasi, addirittura non ha nome né figura particolareggiata. Possiede e domina le pagine del racconto attraverso una mancanza, quella della vita. E la morte, si sa, è assoluta e pervasiva, rende l’assenza una presenza impossibile da ignorare.

Questa donna giovanissima, di appena sedici anni, emerge dalle parole del marito come una creatura quieta, timida, quasi timorosa di manifestare ciò che prova. La sua mansuetudine, però, non è sintomo di debolezza, come si potrebbe pensare a una lettura superficiale.

La Mite per il marito è «Eh già, fiera! Io le persone fiere sono quelle che preferisco. I fieri sono così affascinanti quando… dai, quando non hai dubbi del tuo potere su di loro, non è vero?». Questa mitezza, però, risulta fuorviante tanto per il lettore quanto per l’io narrante: ingannato dal silenzio e dalla mancanza di aggressività della ragazza, egli smette semplicemente di vederne la forza. Invece la Mite ha ardore dentro di sé. Quella docilità che il marito scambia per mancanza di nerbo è in realtà un fuoco profondo e quieto che brucia senza distruggere altro se non se stesso. Perché quando l’impeto della rabbia e della delusione divampa nella giovane e la porta a tentare di uccidere il marito, è proprio la mitezza a fermarla. E l’uomo scambia il gesto per debolezza. Invece no. La giovane compie il suicidio, l’ultimo e più aggressivo atto di ribellione, che è però anche l’estrema accettazione del proprio essere mite: la Krotkaja non rivolge la propria aggressività verso il marito, ma verso se stessa. Accetta l’impossibilità di ferire l’altro nella maniera più completa. E allora, nell’impossibilità di staccarsi e di elevarsi da una vita che le richiede ferocia, essa compie un gesto simbolico, un passo nel vuoto che letteralmente la riconduce in basso, a contatto con l’origine, alla terra.

la mite
Flowers in the wind, olio su tela di John William Waterhouse, 1902.

Il richiamo alla terra echeggia insistente nelle parole del narratore-marito, quasi come un presagio della fine; la Krotkaja viene descritta anche come smirenie, “umile”, e la parola ricorre più volte, utilizzata quasi come sinonimo. Il termine contiene la radice mir, “pace”. L’umile è dunque colui che possiede la pace. E a volerci pensare, la parola umiltà ha la stessa radice di humus, “terra”, radice che condivide anche con il termine “uomo”. Colui che è umile appartiene al suolo, dalla terra è originato e di terra è formato. E qual è allora la differenza tra umiltà e mitezza? Che cosa rende mite l’umile sposa che si getta nel vuoto? La mitezza è tinta di accettazione (e, si badi, non di rassegnazione, che ha sfumatura di sconfitta) e la tragedia si spalanca in tutta la sua indicibilità proprio per questo: la Mite è consapevole della propria umiltà, di stare ancorata al suolo, e accetta la propria incapacità di essere aggressiva. La sceglie attivamente, nel frenare la mano che regge la pistola, e la persegue nel gettarsi nel vuoto. E così facendo annichilisce e annulla tutta la severità del marito, i suoi discorsi, i tentativi di spiegare il passato, le costruzioni contorte che egli usa per giustificare il suo operato. Con un solo gesto la giovane riporta ogni cosa a una dimensione terrena, umile. Resta la morte, reale nella sua definitività, morte che impedisce la parola e la divagazione, l’autoassoluzione, e rende muti.

Nella storia della letteratura occidentale sono poche le figure miti che si incontrano e spesso si rischia di liquidarle con giudizi negativi. Se nelle culture orientali la mitezza è una virtù fondamentale, e scevra di qualsivoglia accezione negativa, nel mondo occidentale viene spesso accostata alla stolidità, alla sconfitta, alla debolezza. Ne è un esempio Lucia Mondella de I Promessi Sposi. A chi non è mai capitato di dire o sentir dire: «Quanto è noiosa Lucia, non fa mai nulla, viene sbatacchiata di qua e di là e non fa altro che pregare e piagnucolare»? Ebbene, no. Lucia è un perfetto esempio di personaggio mite, di una mitezza declinata da Manzoni in chiave puramente cristiana. Lucia reagisce (non “subisce”) a tutto ciò che Dio mette sul suo percorso con mansuetudine, ed è proprio questa sua dolcezza remissiva che le permette di resistere alla gimcana di avventure e sfortune che le capitano. Minacciata, sradicata dal suo piccolo mondo, attraversa addirittura la peste con la stessa mitezza di un agnello che si affida al proprio pastore. Il che non significa che la giovane non si angosci, non giudichi e non si disgusti. Ma con la sua semplicità di contadina si rimette a una forza superiore che la rende forte abbastanza da non dibattersi e crollare nelle intemperie. E in questo caso, forse perché abbandonatasi a un’entità superiore e onnipotente, la mite Lucia, a differenza della Krotkaja, trionfa. La sua mitezza vince sulla concupiscenza del nobile, sulla testardaggine del fidanzato, sul dolore e sulla chiusura dell’Innominato, sulla morte stessa.

Questa forza silenziosa appartiene invece a pieno titolo al mondo orientale, che ne coglie e ne abbraccia le contraddizioni: in questo orizzonte, l’azione non è agitazione o moto convulso, né la passività è sinonimo di inazione o pigrizia, la quiete non denota mancanza di sentimenti. La mitezza diviene l’accettazione tranquilla tanto della gioia quanto del dolore, il coraggio senza violenza, la forza senza durezza, l’amore senza collera. È, se vogliamo, una virtù passiva, di sottomissione e accettazione. Queste caratteristiche sono, nel mondo eurocentrico, simboli di debolezza e mancanza di virilità, e vengono di solito associati alle donne. Ma, come scriveva Levi-Strauss, l’oriente è donna, forse anche perché crede meno nel valore della virilità come la concepiamo noi. E dunque la vulnerabilità è meno tabù, specie quella causata dalla morte o dall’amore.

La mitezza è attesa e auspicata nelle parole del narratore in Ricordi di mia madre, di Inoue Yasushi, parole nelle quali echeggia la desolazione per la perdita di una persona amata, e che dipanano, dolceamare, il filo di una vita intera senza negare né le ombre né le luci accettando ciò che è stato. Ed è altrettanto presente, anzi rivendicata, nell’affrontare, mansueta, la vita della geisha Komako nel romanzo Il paese delle nevi di Kawabata. Di fronte alla complessità del reale, all’ineluttabilità dei sentimenti che si provano e che non sempre sono corrisposti come si vorrebbe, la donna rivendica il suo diritto alla mitezza, e alla dignità del poter svolgere il ruolo che si è scelta fino in fondo, accettandone le conseguenze. E questa è una differenza fondamentale nella concezione della mitezza tra oriente e occidente. Se nelle società occidentali la mansuetudine è tinta di sconfitta, in quelle orientali è invece ammantata di profonda dignità. Una dignità che, secondo un famoso detto, “si piega ma non si spezza” e torna infine, anche se a volte solo nella morte, ad alzare il capo.

E viene da domandarsi, allora, quale sia il reale valore di una virtù come la mitezza: se il vero trionfo non stia, forse, nel trovare un equilibrio piccolo, silenzioso ma immensamente saldo durante il cammino, così profondo da rendere affrontabile tanto la vita quanto la morte.

di Claudia Campana

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