La culla e la contingenza

Uno sguardo di reciprocità fra Umano e Natura

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Quest’epoca definita Antropocene è un’epoca di urgenze multi specie, tra cui quella umana: un’epoca di grandi estinzioni e morti di massa, di disastri incessanti le cui imprevedibili specificità vengono stupidamente scambiate per l’inconoscibilità stessa; un’epoca in cui ci si rifiuta di conoscere e coltivare la propria responso-abilità, in cui ci si rifiuta di essere presenti nella e alla catastrofe che avanza, in cui si tende a distogliere lo sguardo in un modo che non ha precedenti[1].

Ci ritroviamo a vivere sulla Terra nell’Antropocene, in tempi confusi, torbidi e inquieti, tempi in cui le nostre azioni sono la principale causa ecologica di quella che molti studiosi definiscono VI estinzione di massa: una «de-faunizzazione»[2] che, secondo i calcoli di Edward Owen Wilson, vede la scomparsa di circa 30.000 specie ogni anno, in particolare nelle regioni tropicali[3]. In questi tempi drammatici la dicotomia tra Umano e Natura sembra consolidarsi sempre di più: noi – esseri ormai fuori-natura – e le nostre colpe ricadono su una Terra inerme e passiva. Per rispondere alle esigenze etiche dell’epoca in cui viviamo però questa dicotomia non è più sostenibile e in questo breve articolo cercheremo di mostrare come uno sguardo evoluzionistico possa chiarire il rapporto complesso e di reciprocità presente tra Umano e Natura.

Secondo molti studi i fattori ecologici, come i grandi cambiamenti climatici e le migrazioni, sono stati infatti determinanti per la nascita, lo sviluppo e la diffusione della nostra specie, di Homo sapiens[4 ].

L’emergenza del genere Homo sembra infatti essere legata all’andamento di grandi cambiamenti ambientali: 2,8-2,6 milioni di anni fa il nostro genere nacque con la crisi climatica improvvisa che diede inizio all’era delle glaciazioni e che sconvolse con radiazioni ed estinzioni tutto il genere delle australopitecine. Secondo la Turnover-pulse hypothesis diElisabeth Vrba questa perturbazione ambientale causò un’esplosione a livello regionale di forme evolutive diverse sia nei mammiferi (come antilopi o roditori) che nell’umano. Niles Eldredge descrive questi fenomeni con la metafora dello slothing busket: immaginiamo un secchio contenente dell’acqua e che iniziamo a far oscillare, più è forte il movimento del contenitore e più l’acqua dentro al secchio si muove, fino a traboccare[5]. Allo stesso modo, al crescere delle perturbazioni ecologiche aumenta anche l’entità del cambiamento evolutivo, che può portare all’estinzione o a una diversificazione delle specie. Attraverso fenomeni di speciazione e di sperimentazione adattativa portati da cambiamenti ambientali siamo nati e ci siamo caratterizzati come Homo[6]. L’emergenza del nostro genere sarebbe stata un evento fortemente contingente, è stata una «nascita catastrofica»[7] che ci vede estremamente legati all’instabilità climatica dell’Africa.

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Non solo, il clima africano sembra essere legato anche alla successiva diffusione e diversificazione del genere Homo. A partire da 1,8 milioni di anni fa iniziarono a intensificarsi le grandi oscillazioni glaciali, caratterizzate da un’alternanza ciclica (con un ritmo di 100.000 anni circa) di fasi glaciali fredde e fasi interglaciali miti: se sul lungo termine questo fenomeno causò un progressivo inaridimento del clima africano, sul breve termine lo rese particolarmente instabile, con un continuo passaggio da periodi umidi a periodi secchi. Il continente africano sembrerebbe essere stato come una pompa che spingeva a sé e lontano da sé le popolazioni ominidi: un motore di migrazioni che portarono l’espansione del genere Homo fuori dall’Africa e che causarono la sua progressiva diversificazione e speciazione[8]. Due sono le migrazioni principali, probabilmente non le uniche: la prima Out of Africa, intorno a 1,8 milioni di anni fa, spinse H. ergaster fino in Georgia, speciandosi (probabilmente) in H. Erectus in Asia. La seconda Out of africa, avvenuta 800.000 anni fa, vide invece protagonista H. heildelberghensis, che dall’Africa emigrò in Europa e in Asia dove portò rispettivamente alla nascita di H. neanderthalensis e (probabilmente) a quella di H. denisova. Noi Homo sapiens ci separammo come specie automa intorno a 200.000 anni fa (o forse anche 300.000 anni fa secondo ultimi ritrovamenti) da un gruppo di H. heildelberghensis africano che non migrò e già dopo alcune decine di migliaia di anni, a partire da 130.000 anni fa, cominciammo anche noi a uscire dall’Africa. Dobbiamo pensare che i primi H. sapiens migrati incontrarono in diverse ondate i discendenti di chi era migrato precedentemente: la nostra specie incontrò e si incrociò con H. neanderthalensis, con H. denisova e incontrò anche H. erectus. Le migrazioni umane produssero un’evoluzione umana plurale unica fino a tempi molto recenti[9]. Infine ci fu un’ultima ondata tra 50.000 e 40.000 anni fa, partita di nuovo dall’Africa da piccolo gruppo di H. sapiens e che portò presto, in concomitanza ad altri fattori, alla scomparsa di tutte le altre specie Homo. Secondo alcuni autori la peculiarità di questa ondata, più invasiva, è legata a caratteristiche culturali e tecnologiche di un «Homo sapiens cognitivamente moderno»[10]. Un H. sapiens 2.0ormai completamente in grado di adattarsi a diversi ambienti alterando per i propri fini espansivi le nicchie ecologiche che incontrava e a discapito, probabilmente, delle altre specie.

La Niche Construction Theory[11] è essenziale per comprendere e rivalutare il rapporto tra organismi ed ambiente nei processi evolutivi e in particolare quello tra umano e ambiente. In questo contesto di studi gli organismi non sono entità passive che la selezione può modellare a suo piacimento. Le attività comportamentali e metaboliche di una popolazione biologica (ad es. costruire un termitaio, ecc..) cambiano le nicchie ecologiche, che influenzano così sia le risorse ambientali che le stesse pressioni selettive, le quali a loro volta retroagiscono sugli organismi stessi. Gli organismi mutano attivamente il proprio ambiente e gli ambienti modificano selettivamente gli organismi. Ciò significa che l’organismo è un attore attivo che co-dirige la sua stessa evoluzione, modificando sistematicamente gli ambienti e influenzando così il quadro delle pressioni selettive. Gli organismi non solo erediterebbero un corredo genetico, ma anche la stessa nicchia ecologica modificata[12].

pinguini

La grandissima capacità dell’uomo di modificare il proprio ambiente, portata forse esattamente dai continui adattamenti all’instabilità climatica – e di conseguenza alla plasticità del comportamento di Homo – potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale nella nostra evoluzione. L’emergenza di nuovi strumenti tecnologici e di nuovi comportamenti, ad esempio l’utilizzo intensivo e non più solo sporadico del fuoco[13], avrebbero causato una serie di effetti retroattivi e a cascata in grado di plasmare sia l’umano che il suo ambiente: ci sarebbe stato un allentamento delle pressioni selettive esterne al gruppo, più “ecologiche”, e si sarebbero consolidate le pressioni interne legate all’organizzazione sociale tanto da portare modificazioni alla stessa fisionomia di Homo, ad esempio addolcendone i tratti[14]. In un certo senso è come se modificando l’ambiente, rendendolo “luogo confortevole”, una “culla”, l’uomo non consapevolmente avesse modificato sé stesso. Proprio questa tendenza a crearsi un luogo a parte, nuovo, in grado di opporsi alle contingenze ecologiche (ma frutto delle contingenze ecologiche) è una delle caratteristiche principali che ci hanno reso ciò che siamo, che ci hanno trasformato nella prima specie planetaria e nel principale fattore ecologico nell’Antropocene.

Non dobbiamo dimenticarci però che se siamo diventati ciò che siamo è proprio in risposta a grandi cambiamenti ecologici. Siamo co-divenuti con la Natura. Siamo figli della contingenza, siamo figli della Terra e dei suoi cambiamenti. Eppure, se la Terra insieme agli esseri viventi che la costituiscono è caratterizzata da una arrendevolezza placida che porta all’equilibrio tra passività ed attività – il gioco di forze alla base della vita e dell’evoluzione – ecco che nell’umano questo equilibrio si rompe e la potenza dell’attività, incontrollata, genera la catastrofe. Il cambiamento climatico attuale potrebbe infatti essere interpretato come frutto di un gigantesco processo di nicchia ecologica[15]. Oggi c’è una grande urgenza che tale equilibrio venga ritrovato ed è importante ricordare che siamo parte costituente della Terra: le nostre azioni e quelle degli altri organismi agiscono su noi stessi attraverso di essa. Non siamo ancora in grado di estraniarci da questo gioco di interazioni e la Terra, nostra culla evolutiva, ha insita in sé una componente di inviolabilità e di potenza che dovremmo tornare a riconoscere ed accettare.

Note
[1] D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, tr. it. di C. Durastanti e C. Ciccioni, Nero, Milano, 2019, p. 58.
[2] R. Dirzo et al., Defaunation in the Anthropocene, Science, 345, 2014, pp. 401-406.
[3] E.O. Wilson, The future of life, Vintage, New York, 2003.
[4] In questo articolo è stato necessario semplificare e riassumere i fatti e le teorie paleoantropologiche proposte sull’evoluzione umana. Per maggiori approfondimenti si consiglia la lettura di G. Manzi, Il grande racconto dell’evoluzione umana, Il Mulino, Bologna, 2013 e G. Manzi, Ultime notizie sull’evoluzione umana, Il Mulino, Bologna, 2017.
[5] Si veda: N. Eldredge, Reveinventing Darwin. The Great Debate at the High Table of Evolutionary Theory (1995), tr. it. di S. Frediani, Ripensare Darwin. Il dibattito alla Tavola Alta dell’evoluzione, Giulio Einaudi editore, Torino 1999.
[6] Un esempio perfetto di questo è il passaggio nel genere Homo ad una andatura bipede obbligata, con tutte le sue ricadute a catena a livello fisiologico, come la estensione del bacino e la liberazione degli arti.
[7] Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, II ed., Meltemi editore, Milano, 2018.
[8] Cfr. M. Maslin, et al., East African climate pulses and early huma evolution, Quaternary Science Review, 101, 2014, pp. 1-17.
[9] Cfr. T. Pievani, Homo sapiens e altre catastrofi. Per un’archeologia della globalizzazione, II ed., Meltemi editore, Milano, 2018 e T. Pievani, Migranti, da due milioni di anni, Micron, pp. 21-25.
[10] Ibidem.
[11] Si veda: J. Odling-Smee, K. Laland, W.W Feldman, Niche costruction, Princeton University Press, Princeton 2003.
[12] Cfr. T. Pievani, Come ripensare la teoria evoluzionistica. Una pluralità di pattern evolutivi, Noema, 9 (2018), p. 10.
[13] Cfr. R. Wragham, R. Carmody, Human Adaption to the Control of Fire, Evolutionary Anthropology, vol. 19., 2010, pp. 187-199.
[14] Alcuni autori parlano addirittura di “auto-domesticazione”. Cfr. A. Gibbons, How web taled ourselves- and became modern. Selfdomestication turned humas into the cooperative species we are today, Human Evolution, vol. 346., n. 6208, pp. 405-406.
[15] A. Meneganzin et al., Anthropogenic climate change as a monumental niche construction process: background and philosophical aspects, Biology & Philosophy, 35(2020), 4, pp. 35-38

di Chiara Pertile

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