Il pozzo

C’era una volta, e a chi piacque una e mezzo, una rana un po’ stolta che nacque in un pozzo. Il mostro ne menava tal vanto, che del suo piccolo chiostro ingrandiva l’incanto, finché una tartaruga del mare orientale comparve lassù dove il pozzo risale e apre in cima quell’unica fuga. Tronfia la rana chiama la saggia, spacciando la tana per una reggia, ma quando la impetra a scender la rampa, a lei in una pietra si infila la zampa. Prigioniera è ora la scaltra tartaruga, ma spera di sortire nell’altra una fuga, promettendo di mostrarle del mondo le beltà, se riesce a ridarle in un secondo libertà. Vera prigioniera è invece la rana, che non avvera una preghiera ormai vana, vedendo una villa in quella sentina, dapprima vacilla ma poi resta in cantina.

a

l famoso chengyu cinese (成语), da noi messo in rima, spetta il compito di raccontare la storia della Rana in fondo al pozzo (Jǐngdǐzhīwā), una sorta di aforisma distillato dal motto “essere riluttanti a lasciare qualcosa” (yī yī bù shě). Con la stessa riluttanza, ci lasciamo alle spalle il vasto oceano dello scorso numero dominato dal tema dell’Abissale per rinchiuderci in un’umida gola a parlare del capitolo n. 48 del libro oracolare, dal titolo: Il pozzo.

Il chengyu della rana e l’esagramma dell’I Ching però, per certi versi, fanno a botte. Il primo esorta ad ampliare i propri orizzonti, a scoprire la diversità, a grattarsi la prurigine di esondare, mentre la sentenza dell’oracolo modera un po’ tutto affermando: «Si cambi pure città, ma non si può cambiare il pozzo». Anche il libro sapienziale, infatti, invita a «scendere fino ai fondamenti della vita», ma nel farlo si scopre che «per quanto diversi siano i talenti e la cultura degli uomini, la natura umana nei suoi fondamenti è la medesima in ognuno». In entrambi i precetti il pozzo è subito sinonimo di “cultura”, ma il Libro dei mutamenti pigia la frizione per scartare l’ingenuità di credere che la xenofilia sia sempre un tesoro: «Le formazioni politiche e le nazioni mutano – dice l’I Ching in una prosa a lui rara – ma la vita dell’uomo con le sue richieste rimane la stessa. In ciò non si può cambiar nulla».

In tempi moderni, è suonata un’altra campana del risveglio con il saggio di Edward W. Saïd del 1978 dal titolo Orientalism. In questo testo, lo studioso palestinese avverte che quando parliamo dell’Oriente non diciamo nulla se non di noi stessi, che quando guardiamo all’Asia osserviamo uno specchio distorto che restituisce un’immagine ottativa del nostro mondo, un fenomeno che Jung definì “parete di vetro” (Glaswand), cioè quella che gli europei si sarebbero costruiti intorno per mezzo della loro fantasia[1]. Il cosidddetto Oriente diventa perciò un pozzo, una cava da sciacallare e da cui estrarre un nepente per le nostre bocche assetate, un’ambrosia di nome “Orientalismo” che «soppianta e rende superfluo l’Oriente»[2]. L’effetto paradossale di questo rapace abbeveramento è la desertificazione dell’eterogeneità autentica: l’Oriente impagliato dall’ismo diventa un eterno infante per mezzo di ciò che Saïd chiama “essenzialismo sincronico”, il rammendo coatto cioè delle scuciture temporali e geografiche delle culture asiatiche per rifilare un velo immobile con cui lustrare in carta da parati le volte della nostra mente. Il nunc stans della rana inghiottita si spiega anche
così.

L’iniezione anestetica della nostra farmacia culturale spinse fino in fondo il pollice proprio quando il nostro corpo era più malato, cioè durante la crisi di fine secolo e in particolare nella Mitteleuropa, il cui demiurgico plasma di un golem dagli occhi a mandorla e con il puntino fra le sopracciglia fu un «prodotto della disperazione» (Produkt der Verzweiflung), come oggi sostiene il prof. Volker Zotz, viennese di natali ma con la scrivania in Lussemburgo, il quale si occupa della ricezione del buddhismo nel bacino di lingua tedesca[3].

Dopo l’intuizione della tesi indoeuropeistica di Bopp e Rask, infatti, dell’Ottocento c’erano ormai le premesse per risanare la frattura hegeliana che estrometteva le culture extra-europee dal dominio dello Spirito. Pensiamo a quanta strada verrà fatta in poco meno di un secolo per portare un hegeliano di ferro come Löwith a fuggire in Giappone durante il Terzo Reich e qui scrivere Der japanische Geist. Peccato però che volgersi al Sol Levante per dar le spalle all’Untergang dell’Occidente fomentò ogni tipo di dissepoltura: già Schopenhauer si accorse che poteva dire Wille e noluntas anche scrivendo samsara e nirvana, poi Theodor Lessing iniziò a dire Brahma intendendo Dasein e buddhi al posto di Geist, e fu così che con la stessa disinvoltura si vide à gauche un Max Nordau, sociologo ungherese sionista, equiparare il nirvana al messianismo israelita, e à droite l’atarassico Eugen Herrigel, autore del popolare Zen e il tiro con l’arco, accostare l’etica bushidō alla disciplina della Hitlerjugend (ebbene sì, era nazista).

Per restare neutrali torniamo in Svizzera, non più da Jung stavolta ma dallo scrittore Robert Walser, autore del brevissimo racconto Koffermann und Zimmermann, in cui viene chiesto a due giornalisti di svolgere un reportage sull’Oriente. Il primo prende la valigia (der Koffer) e parte per il Giappone, il secondo invece, che dovrebbe recarsi nella più vicina Turchia, preferisce scrivere il pezzo restando comodamente nella propria camera (das Zimmer). È questo l’altro grande discrimine fra ingenuità e specialismo, al di qua o al di là della parete di vetro. Friedrich Schlegel, a suo tempo, studiò indologia e lingua sanscrita a Parigi per poi pubblicare nel 1808 Über die Sprache und Weisheit der Indier; suo fratello August Wilhelm tradusse addirittura la Bhagavadgītā e il Rāmāyaṇa, ma fu solo il terzo fratello, Carl August Schlegel, meno noto e meno dotto degli altri, ma cartografo e genio militare, a prendere armi e bagagli (in tutti i sensi) e partire per Madras, l’odierna Chennai, al seguito del Principe Elettore di Hannover in sostegno alle truppe di Giorgio III. Cadde nel 1789 durante la battaglia di Mysore nel sud dell’India, ma prima di morire vide di persona gli splendidi kalyani, i pozzi a gradini diffusi in tutta l’India, specialmente nell’area nord-occidentale al confine col Pakistan, la cui struttura ampia e poco convessa permette di avvicinarsi gradualmente all’acqua, di far abbeverare il bestiame e propiziare la costruzione di villaggi e templi tutt’intorno.

La solita alternativa fra una soluzione gradualista e una scelta radicale ritorna nell’ammonimento con cui si accomiata il capitolo dell’I Ching: guardarsi dal pericolo che «curando la propria cultura non si penetri fino alle radici dell’umanità», ma allo stesso tempo non slanciarsi fuori dal pozzo di getto «negligendo poi la cultura della propria indole».

La sottile linea rossa fra i due estremi riporta allo scarto fra il tema dell’Abissale e quello del Pozzo, fra un vasto oceano irto di gorghi pericolosi e una placida polla pur misera come una pozzanghera, fra i cui segni grafici corre un’unica differenza: la quarta linea, che è intera nel simbolo del pozzo, è spezzata in quello dell’abisso. È lei che modifica l’elemento naturale dell’acqua (Kkann) in quello del legno (Sunn), da cui nasce appunto l’immagine di un pozzo che non rimanda tanto al materiale del secchio, che come viene spiegato all’epoca era fatto d’argilla, quanto alla stanga di legno che sorregge il secchio, la quale come la linea yang può spezzarsi se il carico d’acqua, cioè il fardello culturale, diventa troppo pesante.

In questo sguardo incrociato fra Oriente e Mitteleuropa, scritto proprio durante la rassegna sul centenario del crollo dell’Impero Asburgico organizzata al teatro Corte dei Miracoli, all’indomani di una vivace discussione sul Törless di Musil, ricordiamo allora che in questo romanzo lo scrittore austriaco, ponendo a confronto i turbamenti del suo cadetto con lo sfumato ideale di olimpicità dei santoni indiani, tratteggia l’immagine di due fili, uno rivolto all’esterno e che induce a una «compassionevole inazione» – vedi l’attesa messianica, così come l’obbedienza al Führer
o l’indolenza della nostra rana – e un altro rivolto all’interno che invece, facendo sprofondare nella propria anima, sa avvincere al cosmo. I santoni indiani, esclama convinto Törless, sono lì a dimostrare che per agguantare il secondo filo occorre spezzare il primo, cioè compiere un sacrificio. Non è un caso se il secondo simbolo da noi estratto durante la consultazione dell’I Ching da cui è emerso il tema del Pozzo, il simbolo cioè che riguarda lo sviluppo del responso stesso, abbia come titolo: Il morso che spezza, tratto dal capitolo 21 del libro cinese, lo stesso numero fra l’altro di questa edizione della Tigre.

Note

[1] C.G. Jung, Zivilisation im Übergang (Gesammelte Werke. Zehnter Band), Olten und Freiburg im Breisgau 1981.

[2] E.D. Saïd, Orientalismo, tr. it. Stefano Galli, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 30.

[3] V. Zotz, Auf den Glückseligen Inseln. Buddhismus in der deutschen Kultur, Theseus Verlag, Berlino 2000.

di Federico Filippo Fagotto

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Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!