Proporzioni

Gli accordi imperfetti e le note nascoste nell’accordatura

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… anche se non siamo abituati a considerare le cose in questo modo, la musica è essenzialmente l’esemplificazione, se non la formula, di qualsiasi rapporto tra due o più elementi; è l’espressione delle gerarchie intrinseche nei numeri e nella materia. Gerarchie che vivono di ricorsività, di giochi di specchi e di rifrazioni e moltiplicazioni.

Pitagora diceva (e poco importa se sia vero o leggenda, rimane una delle frasi più argute mai concepite): «La materia è musica solidificata». Questa sentenza racchiude in poche parole i secoli di ricerca scientifica che legano la sua epoca alla nostra, intuendoli in un sol colpo. Con due pezzi di legno, qualche fida ombra, brandelli di budello attorcigliato, acqua, sabbia e nessun calcolatore se non quello installato nella scatola cranica, quegli uomini dell’antichità sprovvisti di Amuchina (orrore!) ci hanno donato le intuizioni più importanti che esistano, oltre a tanta umiliazione per il nostro livello intellettuale.

Pitagora è stato uno dei primi teorici dell’accordatura degli strumenti musicali, non a caso. L’accordatura, che può sembrare solamente una pratica volta a una piacevole esecuzione musicale, è in realtà un problema matematico e filosofico che fa della ricorsività un perno da sfruttare e superare nello stesso tempo, un paradosso perfetto, per cui molto probabilmente una verità. In ogni suono sono presenti molti altri suoni sotto forma di armonici, note “nascoste” che creano la complessità strutturale di ogni cosa che udiamo. Suonando un La non sentiamo solo un La, ma il La all’ottava superiore, il Mi sopra di esso, un altro La, un Do diesis, un altro Mi, un Sol, un La, un Si e così via, fino a toccare praticamente tutte le note della scala. L’ordine, naturalmente, non è casuale, ma è invece il DNA univoco dei suoni e dei rumori, la proporzione che l’universo ha scelto come funzionante.

Si possono sentire chiaramente i primi armonici nei rumori industriali, nei ronzii elettrici, nei motori a scoppio: bisogna provare ad ascoltare “dietro” al primo suono, quello “fondamentale”. È molto gratificante scoprire l’ordito nascosto nei suoni che ci circondano, constatare che la trama del tessuto della materia è davvero ordinata da un’unica legge.

Ma cosa c’entra la mise en abyme in tutto questo? Ci arriviamo con poche parole tramite la storia dell’accordatura. Le prime accordature permettevano l’esecuzione musicale solamente in poche tonalità, vicine tra di loro, mentre altre erano completamente inutilizzabili; per ottenere la bellezza in poche tonalità si sacrificavano tutte le altre, detta nel modo più semplice possibile.

Naturalmente questo era un grande limite creativo e filosofico, per non dire politico, in fondo. L’uguaglianza non era ancora un bisogno né un valore, ma non poteva che diventare entrambe queste cose. Non esisterebbe la musica come la conosciamo se non avessimo risolto questo problema. Niente jazz, niente Beatles, troppi cambi di tonalità. Le note che cantiamo non sarebbero quelle, ma dei loro cloni pieni di problemi genetici: simili sulla carta ma non funzionanti, in ultima analisi non intonabili.

Gli accordatori, acquerello su carta, Henriette Ronner, 1876-77

Per ottenere intervalli bellissimi, tutti puri, in alcune tonalità, un tempo si accettava l’errore invalidante in alcune altre. Se un musicista del Cinquecento sentisse le nostre terze maggiori inorridirebbe: egli ne esigeva tre perfettamente pure, le altre non le usava. Noi le vogliamo tutte utilizzabili, perciò le abbiamo rovinate tutte un pochino, e ci siamo abituati, e se così funziona tutto molto probabilmente era una scoperta che assolutamente andava fatta.

Come non citare l’esempio più lampante del concretizzarsi di questa esigenza: il Clavicembalo ben temperato di Johann Sebastian Bach. Due libri, ventiquattro brani in ciascuno, tutte le tonalità possibili, maggiori e minori, una dopo l’altra. Impossibile senza affrontare il problema di cui stiamo parlando. Per cui l’accordatura moderna è in fondo l’armonizzazione di un errore, della distanza tra idea e natura, è la distribuzione in parti uguali di un problema. Qui il lato prettamente politico: la democrazia del temperamento rispetto allo strapotere di alcune tonalità nel dolore di altre.

Questo preambolo ci serve ad arrivare all’aspetto ricorsivo di tutto ciò, alla mise en abyme. Si fa un gran parlare di diapason, ultimamente, in ambito musicale e non, con le teorie sui 432 hertz che permetterebbero finalmente il bene negato mentre i 440 hertz sarebbero il male assoluto, addirittura venato di “nazismo”, per non farci mancare niente.

Quello che insegnano la comprensione e l’esperienza quotidiana di questi fenomeni è un concetto tanto logico e naturale quanto paradossale, che si inserisce davvero nella logica del mondo, dove non esiste mai una cosa giusta in assoluto che ne possa soppiantare una sbagliata in assoluto, ma è tutto un fatto di proporzioni e di armonizzazione dell’errore, che è congenito. 432, 433, 434, 442, 415: va tutto bene se le proporzioni che ricorrono (come le foto nella copertina di Ummagumma) sono onorate e rispettate, ed è lì la sfida davvero difficile e bellissima.

Un’altra cosa che si tace parlando di questi fenomeni, e che ci dice quanto la realtà sia più complessa delle ideologie, sempre, è il fatto che l’accordatura vive anche di un fattore che la proietta inesorabilmente nella ricorsività: il Tempo. Non creda, chi amasse pensare che 432 fa stare bene, che siano davvero 432 Hz. Possono esserlo per un tempo molto breve, poi muteranno in 431,8 o in 432,2 a seconda dell’umidità e di altri innumerevoli fattori. E se anche avessimo i 432 Hz perfetti, com’è la quinta, chi l’ha accordata, e come? E la dodicesima, la quinta un’ottava più in alto, è bella, è stupenda come può essere? E se è una chitarra, quanto sta schiacciando le corde il chitarrista, e quanto imperfetto è il manico del suo strumento, come di tutti gli altri al mondo? C’è un margine enorme in ogni cosa, niente è così semplice da essere semplicemente giusto o sbagliato, acceso o spento, ed è per questo che esistono musicisti leggendari: hanno capito l’abisso e sanno amministrare queste infinite complessità insondabili. Tutto ciò solo per dire come ogni tipo di fissità mentale riguardo al diapason sia figlia di una mancata comprensione di quanto succede davvero al livello infinitesimale, che è precisamente il reame di ciò di cui si parla quando ci si trova a contatto con l’accordatura e quindi con la musica.

Per cui, speriamo di poter godere di una varietà infinita di suoni, di fondamentali e di dominanti, in ogni posizione possibile nello spettro udibile. Non esistono solo il bianco o il nero, ci sono infiniti colori, in mezzo; non rinunciamo alla loro presenza solamente perché non riusciamo a vedere le sfumature infinitesimali di transizione tra uno e l’altro. Alcuni grandi autori, come abbiamo visto, ci sono riusciti: il miglior matematico musicista della storia, Pitagora, e il miglior musicista matematico di sempre, Bach. Ma chi ha letto il testo capitale di Hofstadter su Gödel, Escher, Bach, avrà già avuto davanti agli occhi la «ghirlanda brillante» del sodalizio fra musica e matematica, nel segno delle ricorsività e delle strutture frattali; anche perché se come diceva Pitagora…

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di Ulisse Garnerone

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